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UNA VALUTAZIONE DELLA GUERRA ALL’ISIS


isis

La situazione militare della guerra all'ISIS appare adesso meno favorevole per Abu Bakr al Baghdadi rispetto al recente passato. Sia su fronte siriano, dove ha perso circa il 22%, di cui l’8% negli ultimi tre mesi, del territorio sotto il suo controllo, sia sul fronte iracheno, dove ha ceduto circa il 40%, le milizie islamiche sono sulla difensiva. Quello che più preoccupa il Califfo non è tanto il terreno perduto, ma il mancato accesso a quel retroterra che assicura la sopravvivenza della sua organizzazione.

Il contrabbando di petrolio ha visto un calo degli introiti del 40%, i rifornimenti di armi e munizioni e l’arrivo di volontari combattenti sono entrambi più difficoltosi. Sotto questo aspetto, la situazione si è fatta più critica, come confermano le notizie filtrate da dei fuoriusciti. D’altronde, era nella logica delle cose che, stante una forte superiorità militare delle forze sul campo opposto, vi fosse un ridimensionamento delle capacità offensive delle milizie islamiche. Rimane solo il dubbio sui tempi tecnici per raggiungere l'obiettivo finale.

Una coalizione internazionale


Ci sono attualmente ben 65 Paesi che, a diverso titolo, combattono contro l'ISIS. Ci sono circa 7.000 russi in Siria, fra cui gli Spetsnaz, con una 50ina di aerei da combattimento, elicotteri e carri armati. In Iraq stazionano invece circa 4.500 americani con funzioni di addestramento e con forze speciali. Ci sono i Peshmerga curdo-iracheni, lo YPG curdo-siriano, le milizie yazide e quelle cristiane, i volontari sciiti, gli Hezbollah, i Pasdaran iraniani, l’esercito siriano e quello iracheno. Non casualmente, l’impegno militare dei Paesi arabi è quello meno significativo.

Aerei della Francia, Stati Uniti, Giordania, Canada, Australia, Belgio (da dopo i recenti attentati), Olanda ed Inghilterra bombardano sistematicamente sia in Siria che in Iraq. I velivoli del Bahrein, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Russia martellano solo in Siria, mentre la Danimarca bombarda solo l’Iraq. Secondo gli americani, in 9 mesi di attacchi aerei sarebbero stati uccisi circa 10.000 miliziani.

Esistono comandi operativi internazionali a Damasco, Baghdad e Amman da dove si coordinano le operazioni contro i miliziani islamici. Altrettanto significativo è che la guerra contro l’ISIS ha portato il superamento di numerose barriere di incompatibilità internazionale: i russi concordano con Israele per evitare incidenti e rispettivi fraintendimenti militari, gli americani si trovano a fianco dei russi nell’appoggiare le milizie curde dello YPG, americani, russi e iraniani si consultano per la direzione dei combattimenti in Iraq e così via.

L’ISIS non ha aviazione, si parla di 6 velivoli non in condizione di volare a causa della scarsa manutenzione, per mancanza di piloti e anche perché verrebbero immediatamente abbattuti. Se questo è sicuramente un elemento di forte debolezza, sul piano dei combattimenti terrestri lo Stato Islamico è molto più efficace degli avversari perché combatte senza alternative di pace. Ultimamente ha mandato in ricognizione dei droni sui cieli iracheni, ma non è stato ancora in grado di armarli.

Il punto di svolta

Le sconfitte militari dell'ISIS sono coincise con l'intervento dell'esercito russo a fianco di Bashar al Assad nel settembre 2015. Da allora, personaggi di spessore come il comandante delle operazioni militari in Siria, Abu Omar al Shishani, nome di battaglia di Tarkhan Batirashvili, o meglio noto come l'Emiro Rosso in virtù del colore della sua barba, sono stati eliminati. Altri lo hanno raggiunto, come Abu Sayyaf, responsabile del settore petrolifero, o il vice di Al Baghdadi, Abu Ala al Afri, responsabile per le finanze, da quando gli americani hanno iniziato ad individuare e colpire sistematicamente i vertici dell’ISIS. Se ciò è stato possibile significa che l’intelligence sull’ISIS è migliorato. E questo è da riferirsi generalmente al fatto che cominciano a crearsi delle crepe nel sistema di sicurezza dei miliziani. Qualcuno, a differenza del passato, parla o collabora.

La forza militare dell’ISIS è direttamente proporzionale all’afflusso di volontari provenienti da diverse parti del mondo. Le Nazioni Unite stimano in circa 30.000 i cosiddetti “Foreign Fighters”. 3/3.500 sono europei, per la metà francesi, un centinaio americani, 2.500 russi (4.700 se si considerano anche le repubbliche ex sovietiche), moltissimi arabi, sopratutto tunisini (6.000), sauditi (2.500), giordani e turchi. Un fenomeno in crescita se si pensa che in Afghanistan i combattenti stranieri erano stati complessivamente circa 15.000. E’ chiaro che l'afflusso di combattenti stranieri è fortemente condizionato dall’andamento della guerra e dal ruolo svolto dai Paesi confinanti. Ora che la Turchia sembra abbia chiuso i passaggi, l'andirivieni dalla Siria è stato fortemente limitato. Dall’inizio del califfato sono stati uccisi circa 28.000 miliziani dell’ISIS.


abu omar al shishani
Abu Omar al Shishani


Come cambierà la lotta

Questo significa che il terrorismo di matrice islamica è votato ad una definitiva sconfitta? La risposta è negativa, sia perché l’ISIS combatte soprattutto una guerra non convenzionale con attentati, kamikaze e guerriglia, sia perché ha dalla sua il fanatismo di chi crede in una guerra di religione.

La forza dell’ISIS non è nel controllo di un territorio – anche se questo era l’obiettivo iniziale di al Baghdadi – ma soprattutto nell’impedire che altri lo possano controllare. Qualora lo Stato Islamico sia sconfitto a Raqqa, farà ritornare in auge la caratteristica principale dell’estremismo islamico con i suoi attentati in giro per il mondo. Se ne è avuto già un assaggio in queste ultime settimane. C’è infatti una correlazione diretta tra le sconfitte militari sul territorio dell’erigendo califfato e la crescita esponenziale degli attentati in altri Paesi. E' una questione psicologica che ha impatto sui miliziani e sul loro morale di combattenti, ma anche una questione pratica perché l’ISIS non ha le forze per controllare un territorio e non può subire una guerra di logoramento.

Inoltre, gli attentati all’estero sono generalmente organizzati da estremisti di ritorno dall’esperienza siriana o irachena. Una stima del fenomeno indica in circa il 15% i combattenti islamici di ritorno nei paesi di origine, mentre il 10% muore nei combattimenti. Un fatto da non trascurare è come l’ISIS sia entrato in possesso dei macchinari del regime siriano per stampare i passaporti, con annesso accesso agli archivi anagrafici della popolazione siriana.

Il progressivo cambio di strategia è evidente soprattutto in Iraq, dove è facile sfruttare il conflitto settario fra sunniti e sciiti. Gli attentati dell'ISIS non sono perpetrati nelle aree di combattimento, ma all’interno di Baghdad, tanto che l’esercito iracheno sta prendendo in considerazione la possibilità di erigere una trincea fortificata intorno alla capitale per controllare l’accesso nella città. Nel gennaio 2016 sono morti in attentati 1.320 iracheni, 1.090 a febbraio; circa un quarto di queste vittime sono state nella capitale.

haider al abadi
Haider al Abadi


Test iracheno

A determinare la sorti dell'ISIS sarà soprattutto l'efficacia dell'esercito iracheno. Dopo essere fuggito da Mosul e Ramadi nel 2013, consegnando le due città allo Stato Islamico, ed aver ripreso Tikrit e la stessa Ramadi nel 2015 con l'appoggio di volontari sciiti, l'esercito di Baghdad si appresta a sferrare l'offensiva su Mosul.

Affiancati dai Peshmerga curdi e con l’assistenza addestrativa ed il supporto aereo degli americani, i militari iracheni dovranno riprendere il controllo di una città di quasi due milioni di abitanti e simbolo delle conquiste dell’ISIS. Un po' come Raqqa in Siria, Mosul ha pertanto un alto valore simbolico. Sarà dura cacciare gli uomini di Al Baghadi che, tra l’altro, nei combattimenti nei centri abitati possono tenere testa a forze numericamente maggiori e con armamenti superiori. Gli americani stanno addestrando l’esercito iracheno in modo massiccio proprio per questa eventualità.

La tattica dell’ISIS, già sperimentata a Ramadi, è quella di seminare trappole e mine, sfruttare tunnel e collegamenti sotterranei, utilizzare kamikaze che si lanciano sulle prime linee avversarie con camion corazzati riempiti di esplosivi, il mimetizzarsi in mezzo alla popolazione con cui poi si fanno scudo. Una difesa flessibile, che evita scontri diretti ad alta intensità in campo aperto ed effettua piccoli contrattacchi, con l’obiettivo di guadagnare tempo non perdendo troppo territorio.

L'esito dei combattimenti a Mosul sarà legato anche al comportamento della popolazione locale, a maggioranza sunnita e quindi sostanzialmente ostile al governo di Baghdad. Un ISIS alle corde potrebbe anche riutilizzare delle armi chimiche, come fatto il 28 giugno 2015 contro i curdi siriani dello YPG ad Hasaka. Le atrocità che le milizie di al Baghadi hanno commesso in questi anni rendono ogni possibilità di resa impraticabile.

Il Primo Ministro iracheno, Haider al Abadi, ha affermato che l’ISIS verrà completamente sconfitto nel 2016. E’ una previsione enfaticamente ottimistica che necessità di conferme. Ma il problema non sarà tanto sconfiggere militarmente le milizie di Al Baghdadi, quanto rendere l’ideologia che si accompagna allo Stato Islamico meno suggestiva ed attraente nel mondo islamico. Purtroppo un sedicente califfato che per quasi 3 anni ha gestito un proprio territorio, con le proprie leggi, vittorie e conquiste sotto la bandiera dell’Islam ha un tale fascino che forse neanche le prossime disfatte militari potranno sostanzialmente intaccare. Un fascino che, nell’immaginario dell’estremista islamico, apparteneva prima Al Qaeda e che ora è patrimonio dell’ISIS. Il terrorismo che fomenta il Califfo potrà sì essere sconfitto sul piano militare, ma dovrà esserlo soprattutto sul piano ideologico e teologico. E sotto questa aspetto, solo le nazioni islamiche potranno fornire un forte contributo. Sempre che lo vogliano.

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