ISIS: PROVE TECNICHE DI LIBIA
E’
oramai un fatto conclamato che il terrorismo si sviluppa e si
rafforza ogni volta che si creano aree di instabilità sociale a
seguito di eventi traumatici (come il caso delle guerre), o per le
condizioni di povertà o i soprusi che molti regimi dittatoriali
alimentano. E’ successo in Afghanistan, è successo in Iraq, sta
succedendo in Siria ed altrove. Sotto questo punto di vista, le
guerre sono fortemente condizionanti e non è un fatto casuale che
ogni volta che viene destituito un dittatore o un regime si creano
immediatamente spazi operativi per il terrorismo. Esistono oramai
migliaia di terroristi di lungo corso che transumano da un Paese
all’altro in cerca di avventure o di cause da difendere.
Se domani in Siria si trovasse un accordo di transizione
accettabile, se l’Iraq ritrovasse un po’ di pace sociale, se
l’ISIS, come promesso da vari Paesi nel mondo, venisse sconfitto
militarmente, sicuramente si chiuderebbe l’avventura militare di
Al Baghdadi e del suo Stato islamico, ma non il fenomeno
terroristico che lo ha supportato. Semplicemente, gli estremisti
si trasferirebbero altrove perché oramai in Medio Oriente e
Africa, forse anche in Asia, rimane ampia la scelta di dove andare
a fomentare altre guerre sotto la bandiera del fondamentalismo
islamico. Sinai, Nigeria, Yemen, Libia, Mali, Somalia, magari lo
stesso Afghanistan, sono tutte destinazioni potenziali per un
mestierante del terrorismo.
E' allora lecito domandarsi dove, tra tutte queste mete più o meno
attraenti, si potrebbero riversare i terroristi dell’ISIS nel caso
di sconfitta in Siria e Iraq. Dove è probabile che si creino le
condizioni favorevoli per un erigendo nuovo Stato islamico? Questa
è una domanda che molto probabilmente si sono già posti sia i
vertici dell’ISIS che i Paesi che lo combattono.
Qualcuno potrebbe obiettare che oramai lo Stato Islamico è
divenuto un brand spendibile in ogni occasione, dall’attentato di
Sharm el Sheikh o di Parigi alle guerre interne di ogni Paese
africano o mediorientale dove esiste una presenza di musulmani.
Non ci sarebbe nemmeno il bisogno di ricollocarsi fisicamente,
potrebbe agire indisturbato in forma episodica ovunque.
Ma l’ISIS è qualcosa di più di un movimento terrorista che opera,
al pari di altri, nell’ambito del fondamentalismo islamico. E’ un
terrorismo che vuole diventare Stato e quindi domani, se fallisse
nel crearlo in Siria e/o Iraq, potrebbe riproporre il proprio
modello statuale altrove. Ecco allora che è necessario trovare un
luogo dove insediarsi per creare un nuovo Stato islamico. Nella
valutazione dei pro e dei contro, il terrorista dovrà sicuramente
prendere in considerazione le condizioni ambientali e sociali dove
andare ad operare, valutare le possibilità di successo o di
insuccesso.
La terra promessa
Il Sinai pone alcune controindicazioni: è un’area desertica e
scarsamente popolata; non esistono sufficienti condizioni
morfologiche per nascondersi; non garantirebbe un grosso impatto
mediatico; è una zona dove le truppe del Generale Abdel Fattah al
Sisi possono operare in assoluta libertà comportamentale senza
dover rendere conto all’opinione pubblica internazionale; è anche
troppo vicino ad Israele, Paese che quando lotta contro il
terrorismo non lesina mezzi e strumenti e non si preoccupa di
sconfinare quando gli fa comodo. Inoltre, se lo Stato Islamico
decidesse un domani di ricostituirsi nel Sinai favorirebbe
sicuramente una maggiore alleanza tra Israele ed Egitto.
I Boko Haram, presenti nel nord della Nigeria ed in alcune zone
del Camerun e del Ciad, sono sì un fenomeno islamico, ma anche
troppo africano. I terroristi di lunga militanza che costituiscono
il nerbo delle milizie fondamentaliste sono soprattutto arabi e
quindi maggiormente idonei ad operare in contesti arabi. In un
Paese come la Nigeria verrebbero subito individuati. Analoghe
considerazioni si possono fare per la Somalia.
Il Mali potrebbe diventare una metà ambita per il futuro del
terrorismo islamico anche se in un contesto africano. Ci sono le
condizioni di povertà e di disagio sociale che potrebbero essere
strumentalizzate lungo un po’ tutta la fascia sub-sahariana. Ma
anche in questo caso sarebbe una guerra nel deserto, difficile da
combattere, con una popolazione scarsa, ma che vedrebbe
soprattutto troppi gruppi combattenti in lotta non solo contro
Bamako, ma anche tra di loro. La popolazione del Mali è inoltre
più orientata verso il sunnismo sufi che non quello salafita. E
poi lì la guerra, sul fronte opposto, la fanno i francesi (un
domani anche con presenza dei tedeschi) da un lato e gli algerini
dall’altro.
Lo Yemen, dove invece già operano bande di al Qaeda (Al Qaeda
nella Penisola Arabica), è in questo momento un Paese allo
sfascio. In quel caso il nemico principale sarebbe l’Arabia
Saudita che di tutto può essere accusata, ma non di apostasia.
Difficile condurre una guerra dai connotati religiosi nonostante
la forte presenza sciita degli Zaidi i quali – dettaglio non
trascurabile – rappresentano il 30% della popolazione yemenita.
Una guerra di ampio respiro da parte dell'ISIS in Yemen avrebbe
anche lo svantaggio di operare in un Paese senza sbocchi (che poi
sono fondamentali per l’arrivo del sostegno logistico o dei
combattenti) sul fronte terrestre (circondato da Arabia Saudita e
Oman) e con difficoltà anche sul fronte marittimo dove già operano
navi militari di vari Paesi e dove, sull’altra sponda africana,
c’è sì la Somalia, ma anche la presenza militare americana e
francese a Gibuti.
Per quanto riguarda l’Afghanistan, il Paese è stato a lungo feudo
militare e politico di Al Qaeda. Si rischierebbe di riattizzare i
latenti contrasti tra Al Baghdadi e Ayman al Zawahiri. Inoltre, la
guerra civile afghana non ha caratteristiche religiose, ma
settarie; risponde quindi ad altre logiche sulle quali l’ISIS
avrebbe difficoltà ad attecchire. Ultimamente anche il fronte
talebano è imploso al proprio interno con delle lotte intestine.
Nonostante questi fattori, e anche in virtù del fatto che molti
terroristi hanno imparato a fare la guerra in Afghanistan, il
Paese mantiene un certo fascino. Inoltre, Kabul e le sue montagne
offrono ripetute opportunità per nascondersi o diffondersi; c’è
anche l'opportunità di estendersi nel vicino Pakistan.
Al Zawahiri e al Baghdadi
L'opzione libica
Tuttavia, fra le opzioni dell’ISIS la scelta libica è quella
tecnicamente più attraente. E' un grande Paese in uno stato di
dissoluzione sociale con una consolidata presenza di altre
formazioni islamiche (Ansar al Sharia e il Consiglio della Shura
dei Mujahidin) con cui poter cooperare strettamente; ha risorse
petrolifere da poter sfruttare (sulla falsariga di quello che già
avviene in Siria e Iraq); ha un background sociale dove l’Islam e
la sua influenza sociale sono ben radicati (basti pensare alle
origini della Confraternita della Senussia); offre spazio per
alleanze e accordi con le varie tribù del Paese; ha una costa così
lunga che è difficile da controllare; lo stesso dicasi dei suoi
confini tante altrettante nazioni instabili dove poter trafilare o
da coinvolgere in un disegno eversivo. La Libia, infine, esce
fuori dalle limitazioni geografiche imposte dal Medio Oriente e
proietterebbe l’ISIS verso una nuova prospettiva: una “guerra”
verso l’Europa e per allargare la sua influenza verso il Nord
Africa e l’Africa sub-sahariana.
Non è quindi da considerarsi un caso che fra tutti gli affiliati
dell'ISIS che si sono autoproclamati nel mondo, soltanto il ramo
libico abbia un collegamento diretto con lo Stato Islamico di al
Baghdadi. La circostanza è confermata dal fatto che a creare e a
guidare l’ISIS libico nel 2014 è stato un inviato molto vicino al
Califfo: Abu Nabil alias Wisam Najm abd Zayd al Zubaidi. Ex
funzionario della polizia irachena con trascorsi di militanza in
Al Qaeda, il personaggio sarebbe rimasto ucciso in un raid aereo
americano il 13 novembre 2015 nell’area di Derna. Prima di morire
Abu Nabil era comunque riuscito a creare, allargare e poi
consolidare la presenza militare delle proprie milizie in Libia.
Inoltre, a Sirte viene indicata la presenza di un altro pezzo
grosso dell’ISIS, Abu Ali Anbari, iracheno turcomanno e Maggior
Generale sotto Saddam Hussein, giunto sulle coste libiche via
mare.
In pratica, l’espansione dell’ISIS in Libia è frutto di un
progetto elaborato a Raqqa e realizzato con personale esportato
dallo Stato Islamico. Oggi infatti la maggioranza dei miliziani
impiegati in Libia sono i cosiddetti “foreign fighters”, ovvero
una manovalanza di combattenti stranieri (tunisini, sudanesi,
egiziani, sauditi) la cui maggioranza dei comandanti è, non
casualmente, di nazionalità irachena. Un modello, quindi,
esportato ed imposto dall’esterno a cui poi si è aggiunta la
manovalanza locale fornita dai combattenti di Ansar al Sharia o da
altri gruppi similari. Oggi si parla, in totale, di circa 3/4000
combattenti.
Che la Libia abbia i requisiti tecnici per sviluppare l’influenza
dell’ISIS lo dimostra il fatto che in poco tempo, praticamente dal
nulla, con pochi combattenti iniziali, l’organizzazione sia
riuscita a prendere il controllo di Sirte ed ora tenda ad
espandersi verso altre città limitrofe. La circostanza più
eclatante è che il tutto sia stato fatto con prevalente
manovalanza esterna. Sicuramente l'ISIS è stato agevolato dalla
conflittualità interna alle fazioni libiche, più propense a
combattersi tra loro che non a preoccuparsi dell’espansione dello
Stato Islamico. Una disattenzione militare che ha permesso
all’ISIS di consolidarsi ed ora di espandersi.
A questo va aggiunta la disattenzione che fino a poco tempo fa ha
riguardato le potenze internazionali. Dietro alla conquista di
Sirte vi è anche un valore simbolico (era la città natale di
Muammar Gheddafi) ed una scelta strategica (è un’area meno contesa
nel Fezzan a fronte dei contrasti predominanti tra Cirenaica e
Tripolitania). Ma quel che più colpisce è il fatto che, a vario
titolo, le varie componenti in lotta sul territorio libico abbiano
agevolato l’espansione dello Stato islamico. L’ISIS è riuscito a
ricevere indirettamente dei soldi dalla Banca Centrale libica che
continua a pagare i salari di tutti i dipendenti pubblici anche
nei territori sotto il controllo del Califfo. L’acquisto di armi
viene invece reso operante con delle milizie di Benghazi che
combattono il Generale Haftar. Il petrolio, invece, viene
acquisito direttamente con il sequestro delle autobotti in
transito e dal commercio clandestino.
A livello locale sono stati negoziati degli accordi con le varie
tribù, in primis con quella importante degli Awlad Suleiman.
L’ostilità delle altre tribù è stata invece oggetto di
combattimenti e di successive transazioni/compensazioni (come era
un po’ la politica di Gheddafi per sostenere il proprio potere).
Con le milizie di Misurata, ostili all’espansione dell’ISIS, è
stato invece raggiunto uno accordo di non belligeranza.
Gradualmente si è cominciato a costruire anche il Libia il solito
repertorio di norme ed obblighi sia sul piano sociale (programmi
religiosi nelle scuole, obbligo del velo alle donne, tribunali
islamici, polizia religiosa, divieto di fumo o musica ecc.) che
finanziario (imposizione della zakat, taglieggiamento delle
attività commerciali, esazioni per transiti di automezzi). A
latere anche la solita conduzione mediatica della giustizia con
crocifissioni, sgozzamenti, decapitazioni (basti ricordare la
decapitazione di 20 lavoratori egiziani di religione copta sulla
spiaggia nel febbraio 2015) ed assassinii. Un mix già testato a
Raqqa dove tra consenso e minacce si sta riuscendo a costruire un
neonato Stato Islamico sulle sponde libiche.
Muhammar Gaddafi
Progetti di espansione
Consolidato il potere a Sirte, adesso l’ISIS sta tentando di
allargarsi. Sicuramente non saranno le varie fazioni armate
libiche a fermarli, con l'esclusione del cosiddetto esercito
libico guidato dal Generale Khalifa Belqasim Haftar che gode del
sostegno egiziano. La non belligeranza delle milizie di Misurata e
l’indiretto sostegno di quelle di Tripoli rendono più forte la
minaccia dell’ISIS verso la Cirenaica.
Se l’espansione porterà, come molti temono, alla conquista della
città di Abajdya (ed esistono segnali concreti in tal senso perché
queste operazioni vengono sempre precedute da assassinii e
attentati contro personaggi importanti del posto) le cose si
complicheranno per chi intende contrastare l’avanzata del Califfo.
Abajdya vuol dire il controllo del traffico marittimo, snodo del
traffico di clandestini provenienti dal deserto, controllo delle
rotte petrolifere. Inoltre, oltre a Sirte , miliziani islamici
sono presenti, seppur in tono minore, anche a Derna e Sabratha.
La Libia ha una popolazione di circa 6 milioni di abitanti ed un
territorio vastissimo. Come era stato facile per Gheddafi
conquistare il potere con un colpo di Stato incruento e alquanto
approssimato nel 1969, altrettanto facile sarebbe oggi la presa
del potere da parte dell’ISIS grazie al suo know how ben
collaudato.
La sconfitta dell’ISIS passa attraverso due soluzioni: una
negoziata che metta d’accordo le varie fazioni libiche affinché
siano queste ultime a combattere militarmente i miliziani del
Califfo; dall'altra un intervento diretto internazionale. Sulla
prima ipotesi incombe negativamente la decomposizione del quadro
politico libico ed il fattore tempo. Vi sono già segnali che
l’intensificarsi dei bombardamenti e dei combattimenti in Siria ed
Iraq abbia già prodotto un deflusso di combattenti dell’ISIS sia
verso la Libia che verso l’Afghanistan. La seconda ipotesi è
invece legata alla volontà di un coinvolgimento militare diretto
della comunità internazionale. Esiste anche una terza ipotesi che
avrebbe il vantaggio della rapidità e della efficacia: dare
mandato all’Egitto di affiancare il cosiddetto Esercito nazionale
del governo di Tobruk (internazionalmente riconosciuto) e girarsi
dall’altra parte per non vedere come viene attuata l’eliminazione
dei combattenti dell’ISIS.