BREXIT E SICUREZZA

L'opinione
pubblica internazionale si è soffermata molto sulle conseguenze
della Brexit dal punto di vista politico e a detrimento
dell'ideale europeo, sugli effetti dal punto di vista economico
stanti i forti interessi finanziari che si intersecano tra la
Borsa di Londra e le altre capitali del vecchio continente, mentre
è stato trascurato l’effetto sulla sicurezza europea. Nelle sue
linee generali e fatti salvi futuri eventuali accordi, l'uscita
del Regno Unito dal sistema europeo produce nei fatti un
rallentamento della cooperazione un po’ in tutti i settori. Ed è
ovvio che questo, a diverso titolo, produrrà conseguenze anche nel
campo della sicurezza. Sinora Londra aveva negoziato la propria
appartenenza all’Unione Europea accettando di volta in volta
quello che gli conveniva e dissociandosi da quello che non gli
conveniva. E già sotto questo aspetto aveva rifiutato anche la
libera circolazione delle persone, non aderendo al sistema
Schengen.
Questo sistema, in vigore dal 1985 nel Benelux ed esteso alla
maggior parte dei Paesi europei nel 1990, prevede uno scambio
automatico di informazioni sulla circolazione delle persone
all’interno dei confini europei al fine di controbilanciare il
pericolo potenziali di traffici criminali o, al limite, di
terrorismo. Oggi sono 26 i Paesi europei che aderiscono a questo
accordo con l'esclusione del Regno Unito e dell’Irlanda, mentre ne
fanno parte anche altri Paesi che non sono nell'Unione Europea,
come Norvegia, Svizzera, Liechtenstein e Islanda. Il pregio di
questo accordo risiede soprattutto nella condivisione di
informazioni fra polizie e postula, tra le altre cose, il
principio dell'inseguimento trans-frontaliero. In altre parole, in
casi di flagranza di reati gravi si può inseguire il criminale o
il terrorista in un altro Paese. Se finora, nonostante la non
adesione, si tendeva comunque ad informare per conoscenza anche
gli inglesi, adesso cade anche questo vincolo morale. E se i
controlli Schengen si esercitano ai confini esterni dell'Europa,
ora il Regno Unito ne è al di fuori sotto ogni punto di vista.
Inoltre, sull'onda dell'incombente terrorismo e dopo oltre cinque
anni di negoziati ed una trattativa resa difficile dalle norme
nazionali sulla privacy, ad aprile il Parlamento europeo ha
approvato la direttiva sul "Passenger Name Record" (PNR). Ovvero,
ogni passeggero che si muoverà all'interno dell'Europa o che
dall'Europa andrà in Paesi terzi diventerà oggetto di segnalazione
reciproca tra tutti i Paesi che aderiscono all'Unione Europea. Se
per i movimenti interni all'Ue l'adesione è facoltativa, per
quelli esterni è invece già obbligatoria. Le notizie verranno
trasmesse dai vari vettori aerei ad una cosiddetta "Unità di
informazione dei passeggeri" creata dai rispettivi Paesi e da
questa passati alle altre nazioni. Nomi, cognomi, modalità di
pagamento, indirizzi e contatti. Ogni dato verrà conservato per
cinque anni e, all'occorrenza, potrà essere trasmesso alle polizie
o ai Servizi di sicurezza. E il Regno Unito è tagliato fuori anche
da questa evoluzione europea nel campo della sicurezza.
Poi c'è l’organismo di polizia europea, EUROPOL, a cui Londra
aveva aderito e che un domani cesserà di essere un elemento di
cooperazione specifica. Il paradosso è che il suo capo è dal 2009
un inglese, Rob Wainwright, un ex funzionario del MI-5 e uno dei
più acerrimi oppositori della Brexit. Lo avrà anche fatto per
garantirsi il posto, ma nella battaglia referendaria ha portato a
suo sostegno diverse argomentazioni tecniche. Ha parlato di un
database a cui attingono giornalmente tutte le polizie dell'Unione
Europea e del fatto che il Regno Unito diventerà oggettivamente un
Paese di seconda linea nella condivisione di informazioni.
Wainwright ha parlato di uno staff di circa 1000 persone che si
dedicano a questa attività di cooperazione nella repressione o
prevenzione, trattano almeno 2500 casi l'anno e scambiano
centinaia di informazioni al giorno.
Infine, il 25 maggio 2018 entrerà in vigore in Europa il
"Regolamento per la Protezione Generale dei Dati" (General Data
Protection Regulation, GDPR), un sistema integrato per la
protezione informatica, e sempre nella primavera del 2018 sarà
operativa la "Direttiva per la Sicurezza delle Reti e delle
Informazioni" (Network & Information Security Directive) che
avrà lo scopo di fronteggiare, sempre in ambito europeo, la
minaccia cyber. Assieme al citato GDPR verrà inoltre istituito in
Europa un organismo chiamato "European Data Protection Board" che
avrà lo scopo di formulare direttive e fornire indicazioni nello
specifico settore di sicurezza.

A prescindere dai tempi tecnici che ci vorranno per delineare
l’uscita dall’Unione Europea, è indubbio che, in prospettiva, il
Regno Unito sarà escluso da questi sistemi integrati. Inoltre,
queste direttive e regolamenti si applicheranno anche a tutte
quelle compagnie e società che non sono più parte dell'Ue. Quindi,
da un lato Londra è esclusa dai citati sistemi integrati e, nel
contempo, le sue società saranno costrette ad attenersi alle norme
di sicurezza europee se vorranno operare economicamente in Europa.
In altre parole, da soggetto attivo, il Regno Unito diventa così
soggetto passivo. Ovvero, in futuro i cittadini britannici
dovranno attenersi a delle norme di sicurezza imposte da altri e
questo a detrimento di quel concetto di sovranità nazionale tanto
caro ai sostenitori della Brexit. Altrettanto "lesivo" della
sovranità di sua maestà sarà commerciare in Europa con regole e
clausole dell’Unione e non inglesi. In un momento in cui si
ipotizza che circa 5.000 aderenti all'ISIS possano potenzialmente
circolare per l'Europa, alcuni di ritorno dalle esperienze
belliche sui campi di battaglia mediorientali, è chiaro che con la
Brexit il Regno Unito abbia danneggiato i propri interessi o, nel
caso migliore, sia adesso costretto ad applicare norme altrui.
Londra ha esorcizzato l’uscita dall'Unione Europea ribadendo che
la sua difesa è comunque assicurata in ambito NATO, argomentazione
che confonde sicurezza militare con sicurezza da
terrorismo/criminalità e mentre in Europa si parla di un futuro
esercito europeo. Inoltre, non è equivalente lo sbandierare il
legame privilegiato nel campo dell’intelligence con gli americani
e gli altri Paesi anglofoni – i cosiddetti "Big Five Eyes" cioè
USA, UK, Canada, Nuova Zelanda, Australia – o i centri di ascolto
del GCHQ ed i vari accordi bilaterali in essere. L'impatto della
Brexit sul piano dello scambio informativo sul canale dei Servizi
di intelligence è sostanzialmente irrilevante. La logica che
sottintende ad una cooperazione fra servizi segreti prescinde dal
fatto che il Regno Unito sia o meno parte dell'Unione Europea. Non
ci sono logiche politiche che possano migliorare o peggiorare una
cooperazione informativa tra Paesi. Fanno premio solo gli
interessi nazionali ed è inverosimile che questioni al di fuori
della sicurezza possano modificare questo approccio. Tutt’al più è
da verificare, in prospettiva, la posizione britannica a fronte di
un’eventuale integrazione delle varie strutture di intelligence
europee.
Quello che è invece di attualità con l'emergenza legata al
terrorismo islamico è l’accavallamento tra le indagini della
polizia e la concomitante attività dei Servizi di Sicurezza.
L'uscita britannica dall'Unione europea, proprio perché
marginalizza la sua cooperazione di polizia, inficia
automaticamente anche l’attività di contro-terrorismo. Anche
perché oggi criminalità, traffico di droga, riciclaggio di denaro
e terrorismo viaggiano molte volte su piani sovrapposti.
Uno dei fattori che ha spinto gli inglesi a votare “sì” al
referendum è stato il ventilato pericolo derivante dalla libera
circolazione di persone nell'ambito dell'Unione. Una tesi fallata
in partenza, vista la mancata adesione britannica al sistema
Schengen ed i limiti imposti da Londra. Parallelamente è stato
utilizzato lo spettro dell'immigrazione clandestina secondo
l’equazione meno immigrazione = più sicurezza. Il partito della
Brexit ha imputato all'Europa un approccio troppo indulgente verso
le ondate di profughi che attraversano la regione e che non
vengono adeguatamente respinti. Confondendo volutamente un
problema sociale con un problema di sicurezza, si sono alimentati
atteggiamenti di matrice razzista. E di questo se ne è fatta più
volte sostenitrice la neo-premier Theresa May, partigiana
dell'uscita del Regno Unito dalla Convenzione europea per i
diritti umani.

Theresa May
E' indubbio che, a fronte delle minacce che incombono sull’Europa,
i singoli Stati non sono in grado di contrastare il fenomeno da
soli. Soltanto la cooperazione, sia essa di polizia o fra Servizi
Informativi, può aiutare a fronteggiare il pericolo. Ed oggi tutto
questo è possibile grazie ad un sistema informativo europeo. La
nomina di Theresa May a primo ministro in sostituzione dello
sconfitto David Cameron dovrebbe garantire una certa sensibilità
alle tematiche di sicurezza, avendo il personaggio ricoperto a
lungo l'incarico di Ministro dell'Interno. Tuttavia, sorgono dei
dubbi in tal senso quando la May, velatamente favorevole alla
Brexit, evoca, rimangiandosi dichiarazioni pregresse, il fatto che
l'uscita del Regno Unito dalla Ue renderà il Paese più sicuro
dalla criminalità e dal terrorismo. Altri suoi colleghi del
Partito Conservatore si sono prodigati nel sottolineare quanto
funzioni male la cooperazione in campo europeo, come se uscendone
sia la soluzione migliore. E questo è, alla fine, un paradosso.
Nell'atteggiamento della neo-premier May e dei parlamentari
inglesi favorevoli alla Brexit prevale un certo sottofondo di
nazionalismo condito a supponenza, come se la cooperazione nel
settore della sicurezza fosse un disvalore. Vi è poi una latente
voglia di isolazionismo, a dispetto del fatto che i recenti
attentati a Parigi e Bruxelles siano stati compiuti non da
terroristi provenienti dall’estero, bensì da comunità islamiche
molto spesso native e sostanzialmente stanziali. Lo stesso dicasi
per il Regno Unito: dal 2001 ad oggi, su oltre 30 attentati o
tentativi di attentati perpetrati in patria, quasi tutti sono
stati condotti da cittadini britannici o con residenza legale.
Nel contempo, ed alla luce delle molte campagne di guerra in
Afghanistan, Siria, Iraq e Libia condotte al fianco degli
americani, il Paese rappresenta anche un obiettivo per il
terrorismo esogeno. Il terrorista moderno ha imparato a giocare
sulle contraddizioni delle varie sicurezze nazionali, si muove da
un Paese all'altro, utilizza alias e documenti falsi. E' quindi un
terrorismo transnazionale, stragista, che non ha obiettivi
specifici da colpire se non quelli mediaticamente più paganti,
difficilmente identificabile se non con una lunga attività di
sorveglianza e controllo. Si può combattere solo con la
cooperazione. Ed è forse questo aspetto che i cultori
dell'isolazionismo inglese hanno sottovalutato votando per la
Brexit.