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QUELLO CHE SIGNIFICA LA CONFERENZA DI PACE SULLA SIRIA


vienna conference on syria

La conferenza di pace sulla Siria tenutasi nelle scorse settimane fra Vienna e Ginevra è importante non tanto per i risultati, impossibili nel breve termine, improbabili nel medio ed auspicabili nel lungo termine, quanto per gli scenari che disegnerà in Medio Oriente nel prossimo futuro.

L'ingresso sullo scacchiere della Russia, nel suo ruolo di “superpotenza”, e dell'Iran, riabilitato sulla scena internazionale a seguito degli accordi sul suo programma nucleare, modifica gli assetti e gli equilibri regionali. Mosca, dopo le vicende ucraine e le sanzioni internazionali che ne sono seguite, era apparsa sulla difensiva in politica estera. Ora è ritornata alla ribalta nella sua veste di sponsor del regime siriano. La Russia è oggi l'unico Paese in grado di sviluppare una soluzione negoziata della crisi siriana; un'uscita dal conflitto che passi eventualmente anche attraverso una transizione politica “pilotata” a Damasco in grado di assicurare e il rapporto privilegiato che Mosca ha con la Siria.

Più che il destino di Bashar al Assad, personaggio oramai squalificato dalle efferatezze della guerra civile e quindi sacrificabile nell’ambito di un negoziato, quel che più interessa a Russia e Stati Uniti è la sconfitta dell’ISIS. Mosca persegue questo obiettivo appoggiando il regime siriano, Washington lo fa dando credito ad una parte della ribellione armata e richiedendo, nel contempo, che Assad lasci il potere. E' su queste opzioni che si giocano le sorti del negoziato.

Finora le trattative si sono svolte all'insegna del pragmatismo, il quale ha permesso di vedere seduti attorno al tavolo anche Paesi avversari. Con lo stesso pragmatismo dovrà essere valutata l’opzione da applicare anche perché, come dice giustamente la Russia, se un domani cadesse Assad si creerebbe un vuoto di potere, la Siria rischierebbe di collassare in modo definitivo e, quindi, si genererebbe ulteriore spazio di manovra per una diffusione militare e non dell’ISIS. Comunque vada, non vi è alcuna soluzione alternativa ad una temporanea continuità del potere a Damasco, con o senza Assad. Il dittatore siriano diventa, alternativamente, pedina di scambio o oggetto di contenzioso.

Una conferenza affollata

Il negoziato ha sinora riunito attori regionali e internazionali che, a diverso titolo, hanno voce in capitolo nella vertenza siriana: Paesi centrali come Stati Uniti, Russia, Iran, Egitto, Arabia Saudita, Libano, Iraq, Turchia; organizzazioni di prestigio come Unione Europea, Lega Araba e Onu (che guida i negoziati attraverso il proprio rappresentante Staffan de Mistura) ed altre nazioni con variegato impatto negoziale (Cina, Regno Unito, Francia , Italia, Germania, Giordania, Oman, Qatar, Emirati Arabi Uniti). Una rappresentanza allargata che dovrebbe postulare l’interesse a trovare una soluzione negoziata a prescindere dalle rispettive diversità e sensibilità politiche.

Ovviamente il potere contrattuale dei rispettivi negoziatori varia in misura del rispettivo coinvolgimento nelle vicende siriane. Russia e Iran sono direttamente coinvolti con i propri militari, mentre gli Stati Uniti devono legittimare il proprio ruolo di superpotenza attualmente annacquato da una politica estera indecisa e riluttante ad un nuovo impiego militare diretto. E questo, come detto, fornisce un peso contrattuale diverso.

Donald Tusk, Presidente del Consiglio Europeo, nelle scorse settimane ha affermato che la Russia non è la soluzione al problema della Siria. Forse intendeva dire che non è la soluzione che auspicano l’Europa o l’America. Mosca ad oggi è l'unica soluzione operante a fronte dell’immobilità e delle contraddizioni degli altri attori internazionali. Ogni attore presente al tavolo dei negoziati è portatore di problematiche che poco o nulla hanno a che vedere con gli eventi siriani. In altre parole, la guerra civile a Damasco ha catalizzato ed enfatizzato questioni esogene collaterali che sono divenute, a loro volta, parte del problema.


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Il segretario di stato USA John Kerry con il saudita Mohammed bin Nayef


Questioni non siriane


L’Iran, di per sé, rappresenta l'evoluzione più emblematica della situazione mediorientale. Da Paese internazionalmente emarginato, è rientrato a pieno titolo come attore protagonista. Lo fa con il peso della sua forza militare, di un'economia sempre più competitiva e con il primato a tutela degli interessi delle comunità sciite della regione. Teheran ha pur sempre le sue contraddizioni interne in quella divaricazione che divide i riformisti, favorevole ad una politica estera moderata, ed i conservatori, fautori di una politica estera di contrapposizione sia nelle vicende regionali che internazionali. Le prossime elezioni parlamentari del 26 febbraio 2016 daranno una risposta a questo quesito. Tuttavia, con i suoi 2.500 Pasdaran, il noto sostegno agli Hezbollah libanesi (5.000 unità sul territorio siriano) e l’invio di volontari sciiti da Iraq e Iran (complessivamente circa 15.000 uomini), il peso di Teheran nelle vicende siriane è da considerarsi centrale.

Questa situazione non piace all’Arabia Saudita, il cui rapporto con l'Iran si è inasprito a seguito dell’esecuzione dell’imam sciita Nimr al Nimr il 2 gennaio 2016. Non è ancora chiaro come questo decadimento nei rapporti bilaterali influirà sul negoziato. E’ nota infatti la posizione di ostilità di Riyadh, affiancata in questo da Ankara, nei confronti del regime di Assad. Arabia Saudita e Turchia sono attualmente accomunate dalla neo-costituenda “NATO islamica” e dal fatto di vivere con disagio il crescente prestigio di Teheran. Il rischio è che il tutto si possa tramutare in una faida settaria tra sciismo e sunnismo.

Nel caso dell’Arabia Saudita ci sono anche dei risvolti di politica interna che possono incidere sul negoziato siriano: una guerra in Yemen che sta andando male, una situazione economica che si sta complicando a causa del crollo del prezzo del petrolio, una strisciante faida tra l’erede al trono Mohammed bin Nayef ed il vice erede, nonché figlio del monarca, Mohammed bin Salman. Ed ovviamente la forte paura che il rientro sulla scena regionale dell’Iran possa penalizzare il ruolo saudita.

Per la Turchia, invece, è ancora una volta centrale la sindrome curda, questo paventato pericolo che un domani, per i meriti ottenuti nella guerra al terrorismo, i curdi siriani e non possano rivendicare ed eventualmente ottenere una propria autonomia o – nel caso peggiore – l'indipendenza. Da qui i recenti attacchi contro le postazioni curde in Siria nel nome della lotta al PKK. Questa convergenza di interessi ha portato ad un avvicinamento fra Turchia ed Arabia Saudita, ma lascia numerosi punti interrogativi su chi sia il nemico da combattere e in che ordine di priorità: Assad in chiave anti-iraniana, i curdi in ottica anti-PKK o l'ISIS di al Baghdadi?

Gli Stati Uniti, avendo dichiarato di non voler mandare truppe a combattere direttamente l’ISIS, se da un lato sono penalizzati dal crescente ruolo russo, nel contempo beneficiano della risposta militare contro Abu Bakr al Baghadi. Washington giova di una posizione molto pragmatica già attuata quando gli USA hanno coordinato con Iran e le milizie sciite i bombardamenti per la riconquista di Ramadi, in Iraq.

Sullo sfondo dei negoziati vi sono tutta una serie di paure e situazioni da esorcizzare. Da parte russa il sostegno acritico al regime siriano è legato al mantenere in piedi un alleato storico di Mosca nella regione, un acquirente cliente dei propri armamenti e, soprattutto, concessore della base militare di Tartous alla flotta russa. Da parte occidentale si teme una ulteriore destabilizzazione della regione, il futuro ruolo iraniano, la sorte dei cristiani che, come tutte le minoranze siriane, ha goduto – e contraccambiato – di un trattamento privilegiato, lo spettro di quel che è già successo in Libia. Ma quel che più preoccupa l’occidente è che, in assenza di un accordo politico, l'opzione militare vedrà Russia e Iran definire i futuri assetti della Siria. Ed è quello che sta adesso accadendo con la sospensione dei negoziati e l'incremento delle operazioni militari contro i ribelli. Non è quindi un caso che Arabia Saudita e Turchia stiano pensando di inviare truppe in territorio siriano per combattere i loro “terroristi”.

Chi portare al tavolo

La fase chiave, prima ancora che cominci il negoziato, è quella di individuare non solo chi sederà al tavolo in rappresentanza dell’opposizione ad Assad, ma anche di eliminare i vari veti incrociati che impediscono il decollare del processo di pace. E già qui iniziano i primi, grossi, problemi.

L’Arabia Saudita ha convocato autonomamente alcune fazioni a Riyadh con un proprio criterio di selezione. Sono state escluse le fazioni curde per accontentare la Turchia, queste hanno creato un proprio coordinamento autonomo a Hasaka, in Siria. Sono stati ovviamente esclusi l’ISIS e il Jabhat al Nusra (legata ad al Qaeda), ma rimangono nella lista altre fazioni estremiste islamiche che invece godono del sostegno saudita o turco. L’iniziativa saudita, pur avendo ricevuto un formale plauso americano, è stata stigmatizzata dalla Russia perché non concordata o autorizzata. Tale compito era stato assegnato dal Gruppo di Supporto alla Giordania. E Mosca, tanto per contrastare l’iniziativa, ha fatto sapere che ai negoziati non dovranno partecipare gruppi terroristici. Qui si aprirà presto il contenzioso su chi sarà considerato “terrorista” e chi no.

E’ difficile districarsi tra oltre un migliaio di gruppi armati che combattono il regime. La cosiddetta “società civile”, o meglio definita opposizione politica, tende ad essere rappresentata, ma oggi come oggi chi ha potere dirimente sono i gruppi con le armi. Ed è qui soprattutto che si dovrà intervenire perché, a parte il Free Syrian Army di ispirazione laica (circa 40.000 combattenti, finanziato dagli USA), la maggioranza degli insorti si riconoscono in gruppi di ispirazione islamica fondamentalista come Ahrar ash-Sham (una ottantina di fazioni per circa 15/20.000 combattenti sostenuti dalla Turchia) ed il Jaish al Islam vicino ai sauditi. Questi sono gruppi per i quali il concetto di “transizione” del potere in Siria non trova spazio e pongono una serie di precondizioni, fra cui l'estromissione di Assad dal tavolo negoziale o, come pretendeva l'Alto Comitato per i Negoziati che raggruppa gli oppositori siriani, che fossero cessati i bombardamenti e dato seguito a iniziative umanitarie.


syria destruction


Una strada in salita

Il grosso problema di fondo è che un Paese sprofondato in una guerra civile ha subito una quantità tale di traumi, efferatezze, vittime civili e non, distruzioni che vi è ormai pochissimo spazio per una soluzione negoziata che conduca ad una auspicabile riconciliazione nazionale. C’è una evidente frattura sociale tra gli alawiti ed i sunniti, tra i lealisti ed i ribelli. In altre parole, se si arriverà ad una soluzione, questa dovrà essere imposta e salvaguardata dall’esterno per evitare che una pace precostituita non degeneri in una vendetta di una parte contro l’altra. E sarà una soluzione difficile da raggiungere come testimoniano i tentativi fin qui falliti.

Come spesso avviene in questo tipo di situazioni, gli interventi esterni assumono spesso le caratteristiche di ingerenza. Nel caso specifico, l’ingerenza nelle vicende siriane è sì di carattere militare, ma lascia ancora uno spiraglio alla diplomazia. La conferenza di pace ha stabilito alcuni criteri intorno ai quali si dovrà svolgere il negoziato: mantenere l’integrità territoriale della Siria, la sua indipendenza e laicità, la protezione della popolazione a prescindere dalla sua diversità etnica o religiosa, assistenza umanitaria, la sconfitta delle fazioni terroristiche, l’instaurazione di un negoziato tra governo ed opposizione dove i siriani dovranno decidere del loro futuro. E' positivo che tutti quei Paesi che a diverso titolo hanno un interesse diretto o indiretto nella guerra civile siriana abbiano deciso di creare, pur nelle rispettive diversità, una sinergia per una soluzione definitiva.

Cinque anni di guerra civile hanno distrutto il Paese. Si parla di circa 300.000 morti, tra i 4 ed i 5 milioni di rifugiati. L’obiettivo che si sono imposti i vari Paesi negoziatori è che si arrivi ad un accordo in 18/20 mesi per porre fine a questo dramma sociale. Un obiettivo ambizioso? Sicuramente difficile da raggiungere. Il fattore tempo ha comunque la sua importanza perché fintanto che non si troverà una soluzione alla guerra civile siriana , risulterà sempre più difficile sconfiggere l’ISIS. E forse sarà proprio questo dettaglio a convincere i Paesi negoziatori a trovare alla fine un accordo.

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