I DILEMMI DELLA POLITICA ESTERA AMERICANA IN MEDIORIENTE

La
regione mediorientale è un'entità geografica dove le situazioni
cambiano con estrema rapidità, dove non esistono più, a differenza
di una volta, rendite di posizione o impostazioni ideologiche che
pilotino le scelte, dove gli scenari di guerra e le aree di crisi
si accavallano e si intersecano in un continuo divenire. In questo
quadro mutevole la politica estera americana fa fatica a
districarsi, anche perché le scelte e le opzioni hanno sempre sia
aspetti positivi che negativi ed una ragionevole valutazione dei
pro e dei contro appare spesso problematica nella volatilità del
quadro regionale.
In passato tutto era più facile, soprattutto durante il periodo
della Guerra Fredda: c’erano due blocchi contrapposti, ogni Paese
aveva scelto il suo campo e la superpotenza di turno sapeva
automaticamente ciò che gli conveniva, chi favorire e chi
osteggiare. Oggi non è più così perché le problematiche sul
terreno sono molte, alcune in contrasto tra loro, e non c'è più la
coerenza di una posizione politica che guidi le scelte, ma solo
l’opportunità del momento, le cosiddette convenienze. Questo è
oggi il grosso problema che attanaglia una superpotenza come gli
Stati Uniti che trova ora difficile individuare un unico comune
denominatore per la sua politica estera in Medio Oriente. Anche
perché non è ben chiaro chi siano gli amici o i nemici, o se i
nemici dei miei nemici possano diventare amici e, se sì, per
quanto tempo.
A sostegno della democrazia?
Stare al fianco delle democrazie? Beh, è ben difficile trovarne
nella regione. Gli storici alleati di Washington, come l’Arabia
Saudita ed i vari emirati nel Golfo, sono tutto fuorché delle
democrazie. Sulla liceità di questi regimi sono state applicate
molte deroghe e resi operanti molti silenzi colpevoli. Ma per chi,
come gli USA, all’inizio della Primavera Araba aveva optato per
retoriche affermazioni a sostegno di questi primi vagiti di una
presunta nascente democrazia nella regione, adesso ha dovuto fare
un'improvvisa marcia indietro.
Cambiano gli ideali? Non necessariamente, almeno a parole, ma
adesso è molto più importante la convenienza e la sicurezza. E' il
caso dell'Egitto dove, in un primo momento, erano stati appoggiati
i Fratelli Musulmani dopo che avevano emarginato il regime
militare di Hosni Mubarak prima della restaurazione dell'ancien
regime da parte del Generale Abdel Fattah al Sisi. Gli Stati Uniti
si sono accorti che la democrazia produce instabilità, che
nell'instabilità si diffonde il terrorismo e che è quindi meglio
cooperare con un regime autoritario ed antidemocratico piuttosto
che fornire circostanze favorevoli alla diffusione del fenomeno
terroristico.

Barack Obama e Benjamin Netanyahu
L'alleato storico?
Stare al fianco di quei regimi che combattono il terrorismo? In
teoria sì, ma nella pratica è difficile individuare quei Paesi
affidabili da questo punto di vista. Può contare sull’alleato
storico nella regione che è Israele? In teoria sì, ma a parte la
mancanza di chimica ed empatia tra Barack Obama e Benjamin
Netanyahu, è conveniente trovarsi sempre al fianco di un Paese
guidato da un premier che durante la sua campagna elettorale ha
affermato che non concederà mai uno Stato ai palestinesi? E se
colui è lo stesso Primo Ministro che, nel novembre 2014, ha fatto
approvare una legge che definisce Israele come la terra natale del
popolo ebraico e che quindi pone le premesse per un approccio
discriminatorio verso quel 20% di popolazione di origine araba e
non ebraica? Ed è sempre quello stesso premier che ha proposto,
alcuni mesi fa, una legge che tolga la residenza ai palestinesi ed
alle loro famiglie nella parte est di Gerusalemme qualora ritenuti
coinvolti in atti di terrorismo, e dove ovviamente la definizione
di “terrorismo” risponde solo alle esigenze di chi, secondo anche
le leggi internazionali, si è annesso quella parte di territorio?
Quindi quei 300.000 palestinesi che abitano in quella parte della
città, qualora manifestassero verso le autorità, pur in casa loro,
rischierebbero di trovarsi estradati da una terra che teoricamente
gli appartiene.
Mai uno Stato palestinese?
Lo scontro fra Obama e Netanyahu verte anche sui negoziati con i
palestinesi. E’ un problema che si trascina da oltre 60 anni e che
come tutte le questioni irrisolte è potenziale veicolo di
ulteriore instabilità. Se la diaspora palestinese non vedrà una
soluzione, non mancano quanti all’interno di questa comunità
vogliono portare avanti una lotta armata e non un negoziato che
appare senza scopo. E qui, ancora una volta, si rischia una
rinascita del terrorismo palestinese, sia esso di Hamas, della
Jihad Islamica o di altre fazioni radicali dell’OLP che potrebbero
saldarsi con le altre forme di terrorismo che mai come oggi
abbondano nella regione. Potranno allora gli USA continuare a
bloccare ogni periodica condanna delle colonie israeliane al
Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite?
Pro o contro Assad?
A parte la questione dei rapporti tra gli USA e Israele, ad un
minimo storico, i veri problemi americani risiedono altrove.
Dall’inizio della guerra civile in Siria, gli Stati Uniti si sono
schierati al fianco dei ribelli e contro il regime di Bashar al
Assad. A distanza di quattro anni Assad è ancora al suo posto e
non è più lui il vero nemico, ma lo è diventato l’ISIS di Abu Bakr
al Baghdadi. E’ un nemico che viene combattuto sia dall’Iran,
alleato della Siria, sia dalla Siria stessa. Ed ecco qui il primo
dilemma americano: conviene continuare ad osteggiare il regime
siriano o è meglio trovare una qualsivoglia forma di cooperazione,
magari indiretta, che possa aiutare a sconfiggere le milizie del
califfo?
In questo senso, anche se in modo ancora vago, la risposta l’ha
già data il Segretario di Stato John Kerry in una recente
intervista alla rete televisiva CBS quando ha affermato che gli
USA dovrebbero negoziare con Assad una transizione politica nel
Paese, magari rivitalizzando i negoziati iniziati nel 2012 a
Ginevra. In altre parole, ed è questo il senso delle dichiarazioni
di Kerry, non è adesso importante combattere contro la Siria, ma
negoziare con essa. Un cambio di strategia frutto di un approccio
pragmatico perché adesso il pericolo più immanente è rappresentato
dall’ISIS.
Iran Stato canaglia?
In questo risiko di alleanze e convenienze ecco che gli Stati
Uniti si trovano, obtorto collo, a fianco di uno dei cosiddetti
“Stati Canaglia”, storica definizione elaborata nel 1994 dal
Consigliere per la Sicurezza Nazionale Anthony Lake, come l’Iran.
Teheran appoggia la Siria, ma combatte anche l’ISIS e, nel
contempo, sostiene dal punto di vista politico e militare il
regime iracheno. Due convenienze e una controindicazione. Anche
perché dietro a questa scelta americana si nascondono altre
considerazioni: la guerra contro l’ISIS non si vince solo con i
bombardamenti aerei, ma anche con truppe di terra; gli Stati Uniti
non sono propensi ad impegnarsi in un’altra avventura militare
dopo le esperienze negative in Afghanistan e Iraq; occorre che il
lavoro sporco contro l’ISIS lo faccia qualcun altro. E
nell’offensiva per la riconquista di Tikrit gli americani
bombardano e forniscono intelligence agli iracheni che avanzano
via terra con milizie sciite, volontari iraniani e con l’alta
consulenza del generale iraniano Soleimani.
Questa strana alleanza che lega gli Stati Uniti all’Iran crea
problemi ai sauditi, ai Paesi del Golfo, ma anche a Israele. Il
pericolo derivante dal nucleare iraniano è stato uno dei piatti
forti della campagna elettorale di Netanyahu, che ha collegato
l’eventualità ad una ipotesi di genocidio verso il popolo ebraico,
evocando l’olocausto, la schiavitù sotto i faraoni e tutte le
persecuzioni subite nel corso della Storia. Un pericolo
enfatizzato ma che pone Israele di fronte alla prospettiva che un
domani più o meno vicino Tel Aviv potrebbe non essere l’unica
potenza nucleare della regione. Su questo tema Netanyahu si è
scontrato con l’Amministrazione americana e soprattutto con Obama.
Sicuramente questa alleanza è frutto di emergenze militari, ma è
proprio questo che rende vano ogni possibile dubbio etico o
esistenziale, sempre che una politica estera ne sia condizionata.
Ma la politica estera, come è ben noto, è dettata dalle
circostanze e dagli interessi e dai sui princìpi. Quindi, se si
scattasse oggi una fotografia delle alleanze o delle sinergie che
sviluppano gli Stati Uniti in Medio Oriente ci si accorgerebbe di
quanto il quadro sia cambiato rispetto a pochi anni fa.

Recep Tayyip Erdogan e Barack Obama
Turchia alfiere della NATO?
Ma, come abbiamo, detto ogni mossa di pedine sullo scacchiere
implica vantaggi e svantaggi e, soprattutto, reazioni. Se i
rapporti tra Stati Uniti e Iran migliorano e la guerra contro il
regime siriano non è più una priorità, quali effetti produce
questa circostanza nei rapporti con gli altri protagonisti
nell’area?
La Turchia vuole la caduta del regime di Bashar al Assad e la pone
in linea prioritaria rispetto alla guerra contro l’ISIS. Ankara è
membro della NATO, ma non ha concesso le basi aeree agli americani
per bombardare l’ISIS. La Turchia è fortemente ostile al regime
militare egiziano di Al Sisi che invece gli americani considerano
adesso un baluardo nella lotta all’estremismo islamico soprattutto
nell’ottica di un intervento in Libia. Ankara non accetta le sue
responsabilità storiche nei riguardi del genocidio armeno mentre
il Senato americano ha invece approvato una risoluzione in tal
senso. La Turchia rifiuta una soluzione del problema curdo che
oggi, anche se non esplicitamente, gode delle simpatie, ma non
necessariamente del sostegno, americane. Ankara, ed è il lato più
pericoloso, fornisce armi alle fazioni radicali anti-Assad.
Se tutto questo porterà ad una collisione tra Ankara e Washington
o ad un ridimensionamento turco nella NATO è presto per dirlo, ma
comunque in Medio Oriente il ruolo turco resta strategicamente
molto importante. Bisogna anche aggiungere che il comportamento
della Turchia nei riguardi dell’ISIS è fortemente ambiguo: viene
permesso ai volontari jihadisti di transitare per il Paese, viene
chiuso un occhio sul traffico di petrolio che alimenta le casse di
al Baghdadi.
Sempre a fianco dei sauditi?
L’Arabia Saudita, come molti altri Paesi del Golfo, vede nell’ISIS
un pericolo per la propria sopravvivenza, ma avverte con maggiore
preoccupazione l’espansione dello sciismo iraniano. C’è quindi un
atteggiamento favorevole verso tutte quelle iniziative che creino
sinergie militari contro al Baghdadi, ma, nel contempo, combattere
al fianco dell’Iran, nemico storico del regime saudita non solo
sul piano dell'egemonia regionale, ma soprattutto nella disputa
teologica che divide i sunniti dagli sciiti, è sicuramente molto
difficile. Anche perché, ed è questo che preoccupa maggiormente i
sauditi, se l’Iran legittima la centralità del suo ruolo politico
e militare nelle dispute della penisola arabica, se i rapporti di
Teheran con Washington migliorano come dimostra la recente intesa
sul programma nucleare iraniano, il problema relazionale non si
pone più sull’immediatezza di un comune nemico, ma nella
prospettiva che gli Stati Uniti possano un domani cambiare la
conformazione delle loro alleanze nell’area.
Sul piano internazionale sinora la stabilità della monarchia
saudita è stata assicurata dal rapporto privilegiato con
Washington e senza questa certezza il futuro diventa problematico
per il reame. I sauditi sanno anche che il loro petrolio non è più
così importante come in passato e non ha più la stessa funzione di
elemento di pressione nei rapporti internazionali verso i Paesi
occidentali. Anche gli USA sono diventati autosufficienti dal
punta di vista energetico.
Gli Stati Uniti si trovano di fronte a scelte difficili dove sono
i fatti contingenti a condizionare la politica e non viceversa. Ed
i fatti che ogni volta è costretta ad affrontare non presentano
una soluzione ottimale, perché questa è quasi sempre legata a
vantaggi e svantaggi, mentre si risolve un problema se ne aprono
altri, si creano frizioni con altri comprimari regionali, non si
riesce a capire se un presunto beneficio di oggi possa determinare
qualcosa di peggio domani.