IL GIOCO SPORCO SULLA LIBIA
Il primo ministro libico Fayez al Sarraj
Le
ultime vicende libiche, a partire dai combattimenti per le strade
di Tripoli, le milizie divise tra l'appoggio o l'opposizione al
premier Fayez al Sarraj, le dichiarazioni bellicose di Khalifa
Haftar, il caos generalizzato non solo nella capitale ma anche in
molte altre parti del Paese, portano fatalmente ad una serie di
considerazioni e commenti a quest’ultima evoluzione, in negativo,
delle vicende del Paese.
Le decisioni Onu che non servono
La prima considerazione è di carattere internazionale. Esiste
l'ONU, unico organismo che dovrebbe presiedere alle vicende del
mondo, c'è un Consiglio di Sicurezza che ha sottoscritto, a suo
tempo, una Risoluzione – votata peraltro all’unanimità - che
appoggiava l’accorso di Skhirat del 17 dicembre 2015 e aveva
deciso che l'autorità ritenuta internazionalmente legittima fosse
quella del premier/presidente Sarraj.
Minacce di sanzioni a chi si opponeva a questa risoluzione,
appelli al disarmo e allo scioglimento delle varie milizie caduti
nel vuoto, tutta una serie di misure per favorire la
riconciliazione del Paese. Sotto l’egida dell'Onu il premier
Sarraj doveva costituire il cosiddetto “Governo di Accordo
Nazionale”.
Sicuramente non era stata una decisione facile, ma il frutto di
una mediazione, reiterate trattative, iniziative diplomatiche e
contatti con tutti i maggiori interlocutori libici. Quel che è
ancora più discutibile è che fra i fautori della Risoluzione
dell’Onu si trovino gli stessi membri permanenti del Consiglio di
Sicurezza che oggi la osteggiano.
L'Onu diventa inutile se ogni cosa che decide non viene poi
imposta. La seconda considerazione riguarda il comportamento
scorretto di chi poteva opporsi alla Risoluzione usando il proprio
potere di veto e non lo ha fatto pregiudicando, con i propri
comportamenti, la stessa credibilità dell’istituzione che
rappresenta.
Nel caso libico tutto questo avviene in modo plateale: Fayez al
Sarraj, il leader internazionalmente riconosciuto, viene
abbandonato al suo destino; tutti colloquiano con il generale
Khalifa Haftar, fin dal primo momento il principale contendente di
Sarraj; Haftar che avrebbe dovuto mettere il suo esercito a
disposizione del governo di unità nazionale anziché osteggiarlo o
minacciarlo.
Haftar può permettersi tutto questo perché ha l'appoggio
incondizionato dell'Egitto, ha il sostegno della Francia e delle
sue unità speciali in Cirenaica, gode dell'assistenza aerea
fornita da velivoli militari emiratini, beneficia della simpatia
saudita, viene appoggiato anche dalla Russia alla ricerca di nuove
basi navali nel Mediterraneo, e comunque non è malvisto dagli USA:
il generale ha infatti la nazionalità americana ed è stato per
tanti anni sul libro paga della CIA quando si fomentavano rivolte
e colpi di stato per eliminare Muammar Gheddafi.
La politica dell’ipocrisia
Sorge spontanea una domanda: se Haftar era così benvisto da alcuni
membri autorevoli del Consiglio di Sicurezza perché non è stato
prescelto fin dall'inizio come il legittimo rappresentante del
popolo libico?
La risposta è nella coscienza ambigua dei vari paesi: Haftar è un
personaggio scomodo, non ha una visione democratica del futuro
della Libia, non ha interesse a mediare alcun accordo di
pacificazione perché il suo potere – meglio dire la sua cultura –
è nella forza delle armi.
Appoggiare lui era/è accettare l'idea che dopo aver estromesso,
manu militari, un dittatore se ne favorisce la crescita di un
altro. Non è casuale che Haftar sia stato uno dei fautori del
colpo di stato del 1969 e sia stato a lungo a fianco di Gheddafi
prima di cadere in disgrazia. E la sua riconciliazione nazionale
non è fatta di diplomazia e negoziati, ma di minacce,
combattimenti e l’eliminazione fisica degli oppositori.
Per questo, almeno ufficialmente, nessun Paese ha voluto sporcarsi
le mani appoggiando Khalifa Haftar a livello internazionale.
Meglio osteggiarlo ufficialmente ma poi sostenerlo indirettamente.
E per legittimarlo è stato messo in campo il gioco subdolo della
riconciliazione in chiave diplomatica: sì è vero, il generale non
si attiene alle decisioni dell'ONU, non vuole disarmare le sue
milizie che chiama pomposamente "Esercito Nazionale Libico", ma la
comunità internazionale deve favorire la riconciliazione, deve
evitare ulteriori bagni di sangue, bisogna parlare con tutti e
quindi Haftar, cacciato dalla porta, rientra dalla finestra
nell'idea, peraltro stravagante, che possa aiutare i negoziati e
favorire la riconciliazione.
E così, utilizzando il discorso della più ampia partecipazione di
tutti gli attori, più o meno legittimi, ai negoziati, Haftar è
diventato centrale ed è, alla fine, l'interlocutore principale.
Khalifa Haftar
L’evoluzione interna
Ma gli ultimi eventi libici hanno dimostrato molte cose: Sarraj è
militarmente debole, molte milizie si sono rifiutate di sostenerlo
nei combattimenti contro la 7^ Brigata di Tahruna, non ha neanche
tanto seguito politico e quindi è un cavallo perdente.
In contrapposizione Haftar è militarmente più forte di Serraj e
sul piano politico – oltre che militare – gode della simpatia
degli ex gheddafiani. In questo contesto deve essere interpretata
la recente visita del Ministro degli Esteri italiano Enzo Moavero
a Bengasi e l'iniziativa di una ennesima conferenza di pace a
novembre a Palermo per controbilanciare la precedente conferenza
di Parigi.
Appoggiare Haftar significa tante cose, ma soprattutto significa
accettare l'idea che la Libia di domani sia pressoché simile alla
Libia di ieri. Significa accettare che l'unico potere che conta in
Libia è quello delle armi e tutto il resto (negoziati, conferenze,
mediazioni, accordi di pacificazione) non serve a nulla. Significa
anche che l'ONU ha fallito soprattutto per mano di chi, tramite
questa organizzazione internazionale, gestisce le sorti del mondo.
Significa che la guerra del 2011 non è servita a nulla se non a
far cadere il Paese in una spirale di violenza e guerra civile.
Ci si poteva tenere Gheddafi visto che Saif al Islam era l'erede
designato del dittatore e postulava una transizione più moderata
del regime libico.
Geddafi e suo figlio Saif al Islam
L’approccio
internazionale
A nessuno interessa la Libia, né che viri verso la democrazia.
Interessano il petrolio ed il gas che, com’è noto, pongono la
Libia tra i maggiori produttori al mondo. La russa Gazprom
affiancata dalla Gazpromneft e dalla Tatneft, la francese Total,
l’italiana Eni, l’americana Marathon Oil si contendono questo
business miliardario. Poi ci sono i business collaterali: la
ferrovia Benghazi-Sirte su cui hanno buttato l’occhio le ferrovie
russe, la vendita di armi a cui sono un po' tutti interessati
(americani, la russa Rosoboronexport, i francesi).
Interessa solo che il Paese sia stabile a prescindere da come
questa stabilità venga garantita. Interessa che l'estremismo
islamico non attecchisca sulle coste del Mediterraneo. All'Italia
interessa anche che la Libia non sia un trampolino per
l'immigrazione clandestina.
Democrazia, diritti umani, pacificazione nazionale sono parole
inutili per chi coltiva interessi propri nelle vicende libiche. E
se Haftar coltiva le sue ambizioni e queste sue ambizioni
coincidono con gli interessi di altri Paesi, Haftar può
tranquillamente aspirare a diventare il Gheddafi del futuro.
Saif nel futuro del Paese
Per paradosso della storia, l'unico che potrebbe contrastare
l’ambizione di Khalifa Haftar è proprio il figlio di Gheddafi,
Saif al Islam. Liberato dalle prigioni di Zintan, gode della
considerazione della vecchia guardia legata al dittatore. È una
vecchia guardia che è economicamente molto forte, continua ad
esercitare un grande ascendente sulle tribù di appartenenza
(quelle che permettevano a Gheddafi di controllare il paese) e può
quindi convogliare su Saif un consenso sociale ed una forza
militare.
Saif era l'erede designato del padre ed era latore di tutta una
serie di iniziative politiche destinate a rendere la dittatura
libica meno lontana da una pseudo-democrazia. Si era già
scontrato, in questa sua attività, con i membri del Consiglio
Rivoluzionario e con i maggiori esponenti della gerarchia libica
che intravedevano in questo un pericolo al proprio potere. Saif
parlava di democrazia, diritti umani, pacificazione, di una nuova
Costituzione.
E quando la guerra è scoppiata lui – come compete ad ogni primo
figlio maschio nel mondo arabo e come anche gli obblighi familiari
impongono in ogni parte del mondo – si era dovuto trasformare in
uno dei maggiori sostenitori del padre e in un comandante militare
partecipando, lui che non aveva grande esperienza bellica, al
conflitto.
Quando è stato catturato dai ribelli, il suo nome è stato portato
al Tribunale penale internazionale per poi essere processato per
crimini contro l'umanità. Adesso Saif è tornato libero, gira per
il Paese e sta riallacciando i contatti con le tribù, soprattutto
quelle che avevano sostenuto suo padre.
Sicuramente è più considerato e stimato nel mondo degli ex
gheddafiani di quanto non lo possa essere Haftar, a lungo visto
solo come un traditore del regime.
Saif al Islam ha più cultura democratica – anche se in questa
parte di mondo il dettaglio può risultare ininfluente – del
generale. Così il paradosso si compie: si è fatta una guerra
internazionale che ha causato almeno 50.000 tra morti e feriti, si
sono creati i prodromi per una guerra civile che tuttora impedisce
al paese di ricostituirsi come stato unitario, si è dato spazio al
terrorismo islamico ed alla criminalità organizzata (l'elemento
più eloquente è il traffico di essere umani), si sono alimentate
le ambizioni ed aspirazioni di personaggi socialmente pericoli, e
la nemesi finale è che le sorti future dalla Libia sono in mano a
due uomini: un generale ambizioso e traditore e il figlio di un
dittatore.