I DUBBI SULL’ITALIA IN NIGER

Il
17 gennaio il Parlamento italiano ha approvato l’invio di un
contingente militare in Niger nell’ambito della pianificazione
delle missioni all’estero per il 2018. Saranno spostati i militari
adesso impiegati in Afghanistan ed Iraq per essere reimpiegati in
altri scenari, dalla Tunisia a Misurata, dalla Repubblica
Centroafricana al Marocco. Il Niger figura nella lista.
Ufficialmente mirata alla lotta contro l’immigrazione clandestina
attraverso l’addestramento dei soldati nigerini, la missione
prevede il potenziamento dei controlli frontalieri con la Libia e
operazioni di contrasto alla criminalità che gestisce il traffico
di esseri umani. L’obiettivo è quello di bloccare il transito di
clandestini che dalla fascia sub-sahariana entrano in Libia
attraversando il deserto per raggiungere le coste del Mediterraneo
dove poi si imbarcano verso l’Italia.
Nel vertice di Abidjan nel novembre 2017 è stato sottoscritto in
tal senso un accordo tra Unione Africana e Unione Europea. Un
patto quinquennale dove venivano promessi investimenti europei in
cambio della lotta al traffico di clandestini all’origine e di
programmi di rimpatrio una volta accertata la mancanza di
requisiti per la protezione internazionale. La validità di
quell’accordo deve ancora essere dimostrata.
Un compito difficile
Se questo è il compito affidato ai soldati italiani, è molto
difficile che possa essere portato a compimento. Appare infatti
inverosimile che un’area geograficamente estesa ed altamente
desertica, dove i confini tra Stati sono virtuali, si possa
controllare per bloccare il traffico di esseri umani. Peraltro, i
trafficanti che gestiscono il business dei clandestini si trovano
in Sudan, dove c’è la centrale operativa, ed in Libia, dove c’è
invece una struttura che provvede all’accoglienza dei clandestini
ed al loro eventuale imbarco verso l’Italia.
Il Niger è solo un Paese di transito dove il trasporto dei
clandestini verso il confine libico è una forma di sostentamento
economico per la popolazione locale, soprattutto nell’area di
Agadez. Le stesse dimensioni del contingente che verrà schierato
in Niger appaiono numericamente inadeguate per operare in proprio
in un’area estesa quanto la Francia. Si tratta di 470 uomini, con
2 aerei, qualche drone e 130 mezzi.
La presenza di altri paesi
La presenza militare italiana in Niger è una novità nel suo
genere. L’ex colonia francese, al pari di altri Paesi dell’Africa
occidentale, è abituata al dispiegamento di contingenti
transalpini. In Niger è già presente l’operazione “Barkhane”;
forte di circa 4.000 militari è stata istituita nel 2014 ed opera,
oltre che in Niger, in Mali, Ciad, Burkina Faso e Mauritania. E’
il prosieguo delle operazioni “Serval” nel nord del Mali e
“Epervier” in Ciad. E presto sarà sostituita dal G5 Sahel, una
forza multinazionale africana composta dagli stessi Paesi.
Il quartier generale di Barkhane è a N’Djamena, in Ciad, mentre il
contingente è ripartito tra gli altri Paesi. Sono provvisti di
aerei, elicotteri, blindati, droni; si tratta in pratica di una
forza di pronto intervento la cui finalità principale non è la
lotta all’immigrazione clandestina, ma al terrorismo islamico. Un
altro compito assolto dei militari francesi, meno noto, ma
sicuramente non meno importante, è quello di garantire la
sopravvivenza dei vari regimi locali o, all’occorrenza e secondo
gli interessi di Parigi, concorrere alla loro rimozione. Così come
è rilevante la presenza di truppe francesi a difesa degli
interessi economici, in particolare delle miniere di uranio della
società parastatale Areva nel nord ovest del Niger. Nella pratica
quindi la presenza militare italiana giocherà un ruolo subordinato
e probabilmente irrilevante nella regione e, in particolare, in
Niger.
Certo, in Niger sono presenti anche altri contingenti stranieri.
Ci sono i tedeschi inquadrati nella missione MINUSMA in Mali che
hanno un distaccamento anche a Niamey. Ci sono circa 800 soldati
americani, soprattutto forze speciali, presenti sia sul confine
con il Mali, dove sono stati uccisi quattro Rangers nell’ottobre
2017, che ad Agadez, dove stanno costruendo una base militare. Gli
americani sono in Niger per combattere il terrorismo, non i
clandestini.

Il rischio terrorismo
Come gli americani, la stragrande maggioranza dei Paesi che hanno
inviato contingenti militari nel Sahel lo hanno fatto soprattutto
per fermare l’avanzata del radicalismo jihadista. L’Italia è sola
nello schierarsi contro il traffico di esseri umani, un business
dalle problematiche di sicurezza oggettivamente meno importanti.
E’ vero che esiste una certa collusione tra criminalità
organizzata e gruppi terroristici nella condivisione del traffico
di clandestini, non solo verso la Libia ma anche ai confini
dell’Algeria.
Tuttavia, il rischio è che un domani, pur non volendo, il
contingente italiano si trovi a confrontarsi nella lotta contro il
terrorismo islamico piuttosto che contro i trafficanti. Il rischio
è un elemento concreto perché il contingente verrà schierato in
parte a Niamey ed in parte a Madama, un avamposto in un vecchio
fortino francese posizionato ad un centinaio di km dal confine
libico lungo le piste carovaniere che dal Niger portano in Libia.
E lì i terroristi ci sono. Ed un avamposto isolato in mezzo al
deserto costituisce un obiettivo facile da colpire. Anzi fornisce
motivazioni ideologiche per colpire.
Inoltre, il blocco del trasporto di clandestini da Agadez verso il
confine libico ha privato la popolazione locale di una essenziale
forma di sostentamento economico. Dall’altra, i lauti
finanziamenti europei, circa 120 milioni di euro solo per il 2017,
non hanno raggiunto la popolazione locale. In mancanza di
opportunità di lavoro e senza aiuti economici cresce uk
risentimento verso le autorità. Quindi, sotto questo aspetto, il
ruolo del contingente italiano è visto dalla popolazione come
negativo e contrario ai loro interessi con tutte le conseguenze
che questo atteggiamento può determinare. In primo luogo, il
risentimento porta ad una maggiore collusione tra nomadi locali e
gruppi di terroristi. E non crea nemmeno un rapporto di
collaborazione tra popolazione autoctona – quella che conosce
piste e sentieri – con i militari che dovrebbero bloccare il
transito dei clandestini.
L’idea
di Gheddafi
Già nel 2009 il Colonnello Muammar Gheddafi aveva contattato
diversi Paesi, tra cui l’Italia, per costituire un centro
antiterrorismo a Bamako, in Mali, per coprire le attività di
contrasto nella fascia sub-sahariana. Il dittatore libico chiedeva
anche la disponibilità per la costituzione di un contingente di
pronto intervento e la fornitura di materiali ed addestramenti per
le forze armate locali.
All’epoca della proposta di Gheddafi, il terrorismo islamico nella
regione era ancora un fenomeno limitato. Tuttavia, il dittatore
libico aveva capito i pericoli che potevano insorgere nell’area a
causa di una povertà endemica che poteva innescare conflittualità
sociali. La proposta, inoltrata sui canali dei Servizi, non trovò
grande accoglienza: gli americani e gli inglesi non si fidavano
del raìs nonostante avessero da qualche anno riallacciato i
contatti e riaperto le ambasciate, i francesi ritenevano
l’iniziativa una intrusione in una loro area di influenza, mentre
italiani e tedeschi erano favorevoli solo se anche gli altri
fossero stati d’accordo.
C’è da dire che Gheddafi aveva di queste intuizioni, ma aveva
anche il difetto di non dettagliare e definire un progetto. Si
limitava a lanciare l’idea e poi passava subito alla richiesta di
materiali e soldi. Un approccio che lasciava spazio a dubbi e
sospetti.

limiti
dell’iniziativa italiana
Se da un lato il posizionamento di soldati italiani in Niger
correlato all’apertura recente di una ambasciata può costituire un
vantaggio per i propri interessi strategici nazionali in un’area
del mondo sinora trascurata, rimane discutibile l’esiguità
numerica e operativa del contingente schierato in Niger.
Soprattutto in un contesto dove sono solo le forze di sicurezza
locali a lottare contro il traffico di essere umani, mentre i
contingenti stranieri sono focalizzati sul terrorismo islamico.
Tuttavia, appare improbabile riuscire a mettere sotto controllo
oltre 600mila km quadrati di deserto. Tanto più che i passeur
nigerini hanno cominciato ad adottare piste meno battute e più
pericolose per sfuggire ai controlli. Con il risultato che sempre
più persone muoiono durante la traversata.
In secondo luogo, la presenza italiana è subordinata a quella
francese. Gli accordi Italia-Francia fanno sì che siano i militari
transalpini a garantire la sicurezza del contingente italiano. Con
tutte le limitazioni in termini di autonomia operativa che ciò
comporterà. Diventa anche difficile avere un interlocutore
affidabile nel governo del Niger, che non controlla quel tratto di
territorio, in mano alle tribù transfrontaliere dei Tebù e dei
Tuareg che si arricchiscono con i traffici.
L’idea italiana di replicare il blocco navale davanti alla coste
libiche con una simile iniziativa nel deserto appare alquanto
improbabile. Se per i nigerini del nord il trasporto dei
clandestini era/è fonte di sopravvivenza economica, in Libia
questo traffico è uno dei maggiori business del Paese.
Vi sono bande armate libiche si dedicano solo al taglieggiamento
dei migranti. La criminalità transnazionale che gestisce il
traffico muove milioni di dollari e migliaia di persone. Soldi e
corruzione sono centrali in tutto questo. E la Libia, sotto questo
aspetto, è un ambiente operativo perfetto.