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LA FARSA EGIZIANA


tahrir square feb 2011

Piazza Tahrir nel Febbraio 2011


Non vi erano dubbi che le elezioni presidenziali in Egitto del 26 marzo avrebbero confermato la vittoria del Generale Abdel Fattah al Sisi ed il suo “diritto” ad un secondo mandato presidenziale.

D’altronde, dopo il colpo di Stato militare che aveva estromesso il Presidente Morsi il 3 luglio 2013, ripristinando nei fatti la dittatura militare che governa il Paese dai tempi di Nasser, ogni elezione si riduce oramai ad un rituale dall’esito scontato.

Tutti sanno in Egitto che la gestione del potere riguarda solo i militari. La breve parentesi concessa al leader dei Fratelli Musulmani è stata dettata dalle circostanze sociali dopo l’inizio della primavera araba e le rivolte popolari. Il tempo tecnico per riprendersi dalla sorpresa e poi tutto è subito tornato come prima. Nella commedia della politica egiziana le tragedie si trasformano in farse. Il colpo di Stato militare è stato tramutato, nell’immaginario dei vertici militari, in rivoluzione.

Gli oppositori che non possono candidarsi

Al Sisi non aveva alcun valido avversario nella tenzone elettorale. I veri oppositori erano stati tutti bloccati sia per pretestuose questioni burocratiche, che per intimidazioni. Altri erano stati arrestati prima di presentare la propria candidatura. Era stata messa in atto una sistematica eliminazione di ogni antagonista.

I Fratelli Musulmani erano stati estromessi dalla tenzone elettorale con un decreto presidenziale. Per dirimere ogni dubbio, un candidato vicino alla Fratellanza, Abdul Moneim Aboul Fattah, era stato arrestato.

Un altro ex militare, Sami Annan, è stato anch’esso arrestato. Motivo ufficiale: non aveva chiesto l’autorizzazione militare per candidarsi e si era presentato in televisione indossando la divisa.

Per l’’ex premier, nonché generale Ahmed Shafiq, uomo vicino al deposto Presidente Mubarak, l’intimidazione è venuta dagli Emirati Arabi Uniti, grandi sponsor di Al Sisi, dove il personaggio viveva e da cui è stato invitato ad andarsene. Capito il messaggio, Shafiq ha ritirato la propria candidatura.

Mohammed Anwar Sadat, nipote dell’assassinato ex presidente egiziano, ha avuto membri del suo staff arrestati e ha dovuto fare fronte ai dinieghi di hotel, sale conferenze e interviste televisive. Ha capito il messaggio, ritirandosi.

L’avvocato Khalid Ali, attivista per i diritti umani, è finito in carcere durante una manifestazione, Condannato a tre mesi di prigionia per “offese alla decenza pubblica”. Candidatura ritirata.

Il Colonnello Ahmed Konsowa, altro militare e altro dichiarato candidato, si è preso 6 anni di carcere per aver espresso opinioni contrarie al decoro dell’ordinamento militare.

Era rimasto alla fine solo un avversario di facciata, Moussa Mustafa Moussa, in pratica uno sconosciuto, che era stato autorizzato a candidarsi contro il generale all’ultimo momento come leader di un partito, “Al Ghad” (“il Domani”) che peraltro appoggiava il Presidente.


moussa mustafa moussa

Moussa Mustafa Moussa

Violazioni dei diritti umani

In un contesto elettorale così penalizzato da intimidazioni e arresti, il susseguirsi di misure restrittive delle libertà individuali dal 2013 ad oggi, varie organizzazioni internazionali hanno lanciato accuse contro il regime. Se ne è fatta partecipe Human Right Watch ma soprattutto il responsabile dei diritti umani in ambito Onu, il principe giordano Zeid Ra’ad al Hussein, che ha accusato il regime di aver messo in atto un clima di intimidazioni. Rimane comunque inequivocabile che il continuo verificarsi degli abusi di polizia con segnalazioni di torture, arresti indiscriminati, chiusure forzata di giornali con concomitante arresto di giornalisti, oscuramento dei siti internet ostili al regime, dimostrano una involuzione del già precario sistema sociale e politico del Paese. Quindi violazioni dei diritti civili ma anche e soprattutto dei diritti umani.

Le carceri sono piene di oppositori; nell’ordine delle decine di migliaia. Nella pratica, paradossalmente, quel breve periodo di democrazia partecipata dopo le manifestazioni di piazza Tahrir della cosiddetta primavera araba, culminata con l’arrivo al potere dei Fratelli Musulmani, sono adesso servite da pretesto per una maggiore oppressione del regime nascoste dietro la “giustificata” necessità della lotta al terrorismo.

La situazione

La situazione economica del paese è particolarmente difficile. Peggiorata peraltro dopo l’arrivo al potere di Al Sisi. Il tasso di povertà ha raggiunto il livello del 28% della popolazione. La moneta locale ha subito un deprezzamento del 35% dopo che il suo cambio in valute estere era stato reso fluttuante. Quindi un tentativo di liberalizzare l’economia, cercando tra l’altro di toglier i sussidi alle forniture di consumi ed ai beni di prima necessità, con il relativo impatto negativo sulla popolazione. Una contrazione delle spese che però non ha coinvolto il settore militare dove, invece, le spese in armamenti sono fortemente aumentate e dove c’è stato un sensibile incremento di budget..

Le promesse

Al Sisi ha promesso di dare sviluppo al Sinai anche se oggi, a fronte di un dilagante terrorismo in quella penisola desertica, il compito appare quasi impossibile.

Ha poi promesso di eliminare la burocrazia, di tagliare le tasse ma soprattutto di favorire gli investimenti. Non è ben chiaro con quali soldi egli potrà attuare questo programma.

Probabilmente con le elargizioni dei Paesi del Golfo, soprattutto Arabia Saudita e E.A.U., con cui il Cairo si è saldamente affiancato in molte diatribe mediorientali. O forse con ulteriori finanziamenti del Fondo Monetario Internazionale, che ultimamente ha fornito un aiuto di 12 miliardi di dollari.

Ricorre spesso anche la promessa di una modernizzazione del Paese, che è sicuramente una priorità, ma che si scontra con la mancanza di soldi e il basso livello delle infrastrutture e dei servizi.

La lotta alla corruzione è un altro cavallo di battaglia della propaganda di regime, anche se il fenomeno si annida soprattutto all’interno del regime stesso.

Una democrazia che non c'è

E’ la quarta volta, nella storia egiziana, che si tengono le elezioni presidenziali, e tra queste, questa è la seconda sotto la gestione di Al Sisi.

Ce n’era stata una con Mubarak nel 2005 (partecipazione del 27% dei votanti), una nel giugno del 2012, dove il leader dei Fratelli Musulmani, Mohammed Morsi, aveva vinto con oltre il 51% dei voti (e la partecipazione era stata del 52% degli aventi diritto al voto), forse l’unica e vera reale competizione tra candidati opposti e con una rilevante partecipazione elettorale. Visto il recente contesto elettorale egiziano, apparirebbe come una spinta in direzione di una democrazia partecipata.

Ma le elezioni egiziane non dovevano stabilire se Al Sisi dovesse vincere. Questo era un dato già acquisito. Bisognava vedere solo quanti dei 60 milioni aventi diritti al voto, su una popolazione di circa 100 milioni, si sarebbero recati alle urne.

La cosiddetta candidatura alternativa di Mustafa Moussa era solo un elemento di facciata. Nella tradizionale manipolazione dei voti, quelli attribuiti a Mussa (circa il 3%) è solo servita a mostrare che una opposizione esisteva (nel 2014, il voto al cosiddetto oppositore era stato dello stesso valore).

Il Movimento Civile Democratico, una coalizione di 8 pariti, aveva invitato la popolazione al boicottaggio. Ma nella valutazione della partecipazione popolare al voto bisogna anche tener conto del fatto che non andare a votare equivaleva a una ostilità contro il regime. Molti si sono recati a votare per paura.

Manipolazioni in atto, il tasso di partecipazione è stato “ufficialmente” di meno del 42%, cioè ancor meno di quello del 2014 dove avevano votato – sempre “ufficialmente” - il 47% degli egiziani. L’auspicato plebiscito, quello che doveva legittimare il potere di Al Sisi, non c’è stato.

Al Sisi e l’establishment economico e militare

Il Generale non governa sul suo personale potere ma su quello che gli è stato concesso dai vertici militari. Erano corse voci, recentemente, di un possibile colpo di stato per estrometterlo. Questo succede quando il malcontento popolare cresce e si tende a personalizzare le colpe, salvando la casta militare. Il potere di Al Sisi è legato al potere che i militari ed i Servizi di Sicurezza gli hanno accordato di esercitare visto, tra l’altro, che non ha mai creato un proprio partito personale. In pratica il Generale risponde del suo operato al Consiglio Supremo Militare.

Benchè Al Sisi abbia avvicendato il Capo di Stato Maggiore ed il capo dei Servizi Generali, mettendo in posti chiave suoi uomini fidati e i suoi familiari, il supporto di cui gode in ambito militare non è saldo.

Bisogna anche considerare che le industrie militari e non, il settore sanitario, quello delle costruzioni, gli investimenti pubblici e i sevizi generali – praticamente la parte più importante dell’economia del Paese – sono tutti in mano ai militari. Lo stesso allargamento del Canale di Suez è stato realizzato da imprese militari. Però, quando l’economia va male, non è solo un problema di malcontento popolare, ma anche di malcontento militare.


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Al Sisi con Re Salman, Melania e Donald Trump


Una dittatura militare che fa comodo

La stabilità dell’Egitto, anche a discapito della democrazia e del rispetto dei diritti umani, fa comodo a molti Paesi. L’Egitto, con la sua politica, la sua forza militare, il suo peso demografico nel mondo arabo, recita un ruolo centrale nei problemi di sicurezza e della lotta al terrorismo nella regione mediorientale e nordafricana.

Ha peso nei rapporti tra Israele e l’Autorità Nazionale Palestinese, dialoga e media con Hamas, fa fronte comune contro l’espansione militare dell’Iran, è implicato nella guerra in Yemen, coltiva stretti rapporti con l’Arabia Saudita e gli altri Paesi del Golfo, è partner essenziale della politica mediorientale degli Stati Uniti, ha il sostegno della Francia, è in prima fila nella lotta contro l’ISIS, non solo nel Sinai ed è parte in causa della questione libica. In una regione a forte conflittualità, garantisce equilibri ed interessi di molti attori regionali ed internazionali.

Quindi che l’Egitto sia governato da un regime militare, che ci siano violazioni dei diritti umani ed assenza di democrazia, non interessa a nessuno.

Il futuro?

Bisogna dire che la popolazione egiziana, mai acculturata e sensibilizzata sui concetti di democrazia (non avendoli mai assaporati nel Paese) e dei diritti umani, è più incline ad accettare una dittatura, se questa produce un po’ di stabilità sociale abbinata a prosperità economica.

Quindi il parametro per valutare il sistema-paese dell’Egitto non è la democrazia ma il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione. E’ infatti sul malcontento sociale che poi si alimenta il terrorismo e se questo avviene nel paese più popoloso del mondo arabo, il pericolo è ancor maggiore.

Non ci sarà da meravigliarsi se lo stesso Al Sisi, dopo un secondo e ultimo mandato previsto dalla Costituzione, provvederà a modificare questo limite temporale per diventare, come i suoi predecessori, un presidente a vita. A meno che, nel frattempo, non intervenga un altro colpo di stato militare.

Al Sisi si presenta politicamente come un salvatore della patria per risolvere i problemi di sicurezza ed economici del Paese: Lui stesso ha affermato che la democrazia è un lusso che l’Egitto non può permettersi in questo momento.

Il Generale ha finora salvato solo il potere dei militari, che rischiava di essere eliminato con l’arrivo dei Fratelli Musulmani.



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