L’ESTROMISSIONE DI GHEDDAFI

Agosto
2003. Il rappresentate libico alle Nazioni Unite invia una lettera
ufficiale al Presidente pro-tempore del Consiglio di Sicurezza
dell’ONU, l’Ambasciatore siriano Mikhail Wehbe:
“Mi è gradito informarla che le rimanenti questioni per adempiere
a tutte le Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza sull’incidente
di Lockerbie sono state risolte (….) La Jamahirya Araba Libica ha
cercato di cooperare in buona fede per trovare una soluzione a
questo caso.
In questo contesto e nel rispetto delle leggi internazionali e
nell’adempimento delle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, la
Libia, come Stato sovrano:
- ha operato per portare alla giustizia i due sospetti accusati di
aver messo una bomba sul volo Pan Am 103 e accetta la
responsabilità per le azioni dei suoi funzionari;
- ha cooperato con le autorità investigative scozzesi prima e
durante il processo
- ha concordato il pagamento di un’adeguata compensazione
La Jamahirya Araba Libica che durante gli ultimi due decenni, in
numerose occasioni, ha condannato tutti gli atti di terrorismo,
nella sua corrispondenza con l’Assemblea Generale ed il Consiglio
di Sicurezza, riafferma il suo impegno a questa politica (...)”
Con questa “assunzione” di responsabilità il Colonnello Gheddafi
riapriva i suoi rapporti con il Regno Unito e gli Stati Uniti e
ripudiava, almeno ufficialmente, il terrorismo. E per salvare
almeno le apparenze dissociava la responsabilità del Paese da
quella dei suoi funzionari.
L’accordo prevedeva l’eliminazione delle sanzioni ONU in cambio di
un risarcimento di 2,16 miliardi di dollari per le famiglie delle
vittime dell’attentato aereo. Un esborso enorme che doveva mettere
una pietra tombale sulle efferatezze passate del regime libico.
Il terrorismo libico
L’aereo Pan Am in volo da Londra a New York il 28 dicembre 1988 è
saltato in aria mentre sorvolava la Scozia a causa di una bomba al
plastico nascosta in una valigetta. Totale 270 morti. Le indagini
avevano individuato come responsabili due cittadini libici:
Abdelbaset al Megrahi, responsabile della sicurezza della Lybian
Airlines e agente dei Servizi libici, ed un suo collega, Lamin
Khalifa Fhimah, poi successivamente prosciolto.
Nel 2001 Megrahi è stato condannato all’ergastolo da un tribunale
speciale in Olanda ed estradato in Scozia per scontare la sua
pena. Durante il processo non ha mai confessato, né ammesso di
aver operato per conto del regime libico. Dopo una serie di
appelli e richieste di scarcerazione, nel 2009 Abdelbaset al
Megrahi è stato rilasciato perché affetto da un cancro alla
prostata in stato avanzato. Tornato in patria gli era stato
tributato un trattamento da eroe. Lo stesso Seif al Islam, il
figlio maggiore di Gheddafi, lo era andato a ricevere sull’aereo
del padre, messo a disposizione per l’occasione. Abdelbaset al
Megrahi è morto nella sua casa a Tripoli nel 2012.
Come i fatti hanno poi dimostrato, Megrahi era stato liberato non
solo per motivi umanitari, ma nell’ambito di quel perseguito
miglioramento dei rapporti tra Regno Unito e Libia. Ma con
Lockerbie era terminata la stagione degli attentati libici contro
potenze occidentali?
Non ancora: il 19 settembre 1989 un altro aereo commerciale,
questa volta francese, cadeva sul cielo del Niger per una bomba a
bordo. Era un volo della compagnia UTA francese che da N’Djamena
andava a Parigi. Anche qui 170 morti. Un tribunale francese ha
accertato la responsabilità del regime libico tra cui quella di
Abdullah Senussi, cognato di Gheddafi, e di altri membri dei
Servizi libici. Tutti condannati in contumacia.
Il perché di questi attentati è da ricercarsi nella vendetta delle
autorità libiche: nel caso del Pam Am si vendicava il
bombardamento aereo americano su Tripoli del 1986. Nel caso del
volo UTA la vendetta era a seguito dell’intervento francese a
sostegno del Ciad che aveva costretto le truppe libiche a lasciare
il Paese dopo una pesante sconfitta.

Silvio Berlusconi e Muhammar Gheddafi
La
riabilitazione di Gheddafi
Riconoscendo marginalmente la responsabilità su Lockerbie,
Gheddafi voleva offrire al mondo un volto meno controverso e più
affidabile per il suo regime. Aveva preferito cedere
sull’attentato sul cielo della Scozia e non su quello del Niger
sia per motivi pratici (era meglio sacrificare un Megrahi che il
cognato), sia per motivi politici (era più importante migliorare i
rapporti con gli Stati Uniti e il Regno Unito che non la Francia).
Il leader libico, nelle sue scelte relazionali, non era
sicuramente uno sprovveduto. Era molto prudente e sicuramente
accorto. Aveva capito che dopo tutte le efferatezze compiute in
passato contro gli oppositori, eliminati in patria e all’estero, i
suoi contatti e sostegni a varie fazioni armate, dall’IRA
irlandese ai vari gruppi palestinesi, fino al coinvolgimento
diretto in atti terroristici, era arrivato il momento di
riciclarsi dalla parte giusta della storia. Doveva adesso essere
lui a combattere il terrorismo.
Muammar Gheddafi, oramai in una fase della vita in cui aveva
consolidato il suo potere, dopo essere stato nel tempo
rivoluzionario, panarabista, nasseriano, paladino dell’Islam,
terrorista, anti-israeliano, anti-americano, anti-italiano, doveva
moderare le sue velleità e cercare di costruirsi un’immagine meno
compromessa. La sua disponibilità alla cooperazione antiterrorismo
rispondeva a questo obiettivo.
Non era sicuramente una scelta di cuore ma di interesse. Aveva ai
suoi confini con l’Algeria il Gruppo Islamico Combattente Libico
(GICL) che costituiva un pericolo per il suo Paese, diffidava
dell’estremismo islamico che si diffondeva nel Nord Africa e nella
fascia sub-sahariana, ed aveva una conoscenza del terrorismo che
poteva costituire un know-how appetibile per i Paesi
dell’Occidente.
La cooperazione nell’anti-terrorismo
Dopo l’accordo sulle vittime di Lockerbie, i rappresentanti della
CIA e del MI6 erano tornati a Tripoli ed era iniziata una stretta
cooperazione antiterrorismo. Anche la DGSE francese aveva inviato
un proprio rappresentante in Libia, ma in una posizione più
defilata rispetto a americani e inglesi. L’External Security
Service libico era ancora guidato da un uomo simbolo della
repressione e degli affari sporchi del regime come Musa Kusa, ma
questo non sembrava più scandalizzare i partner occidentali.
Che la cooperazione si fosse fatta stretta lo dimostra la
“Extraordinary Rendition” in Libia di Abdelhakim Belhaj, esponente
di rilievo del Gruppo Islamico Combattente Libico (GICL),
catturato dagli americani a Kuala Lumpur, imprigionato per un
breve periodo a Bangkok e poi estradato in Libia nel 2004.
Prima della Primavera Araba
Alla luce di tutto ciò, l’ultima configurazione di Muammar
Gheddafi in uomo politico moderato e cultore della lotta
all’estremismo islamico faceva un po' comodo a tutti. Certo,
qualcosa andava ancora concesso al personaggio. Come quando, nel
2008, si era riscoperto africano facendosi nominare Presidente
dell’African Union a cui poi aveva aggiunto il titolo di “Re dei
Re” dell’Africa su acclamazione di molti capitribù africani.
Finiti i festeggiamenti per il quarantennale della rivoluzione nel
2009, con tanto di parata militare nella Piazza Verde (soldati
disarmati e controllati al metal detector perché era un uomo a dir
poco prudente) l’unico problema del dittatore era quello di dare
continuità al suo potere. Lui si vantava di non avere incarichi
ufficiali, ma di essere solo una “guida”.
Aveva quindi deciso che il figlio maggiore della sua seconda
moglie, Seif Al Islam, aveva le caratteristiche per poterlo
sostituire. Per raggiungere questo scopo stava convincendo gli
altri membri del Consiglio del Comando Rivoluzionario ad accettare
questo avvicendamento senza che il loro potere fosse
ridimensionato. I vecchi del regime erano spaventati dai
ricorrenti accenni di Seif alla democrazia, ai diritti umani, al
consenso del popolo.
Aveva anche cercato di evitare che tra i suoi figli, soprattutto
tra Seif e Mutassim, ci fossero liti. Mutassim, il secondo più
anziano dopo Seif, si sentiva penalizzato dalla scelta del padre.
Nel contempo, con modifiche costituzionali, incarichi di rilievo e
molta visibilità internazionale data al figlio, il dittatore dava,
o almeno cercava di dare, ulteriore lustro moderato al proprio
ruolo.
Lo stesso External Security Service era stato tolto dalle mani di
Musa Kusa e dato ad un personaggio come Abu Zied Durda che non
aveva seminato cadaveri nella sua gestione del potere in incarichi
civili. Solo il cognato Abdullah Senussi, messo a lungo in
posizione defilata nell’ambito dell’intelligence militare dopo le
accuse francesi, stava riguadagnando un ruolo importante. Gli era
stato infatti affidato un comitato dedicato alla lotta contro
l’immigrazione clandestina che gli permetteva la gestione diretta
di tutti gli apparati di sicurezza.
La Primavera Araba
Quando, nel 2011, sono iniziate le sommosse della cosiddetta
Primavera Araba la Libia era un Paese stabile. Il dittatore aveva
il controllo salvo alcune ricorrenti, ma limitate, manifestazioni
di protesta in Cirenaica per la strage avvenuta nel carcere di Abu
Salim nel 1996 dove, a seguito di una rivolta, le forze di
sicurezza guidate da Abdullah Senussi avevano trucidato oltre 1200
detenuti.
Il dittatore aveva oramai una quarantennale esperienza nel gestire
i suoi rapporti con le varie kabile e, tramite loro, assicurarsi
il controllo della popolazione. Oramai anche il GICL aveva perso
la sua pericolosità operativa, con i Fratelli Musulmani aveva
raggiunto un accordo che gli garantiva lo stop ad ogni contagio
del radicalismo islamico, così come aveva attuato un controllo
delle moschee attraverso proprie strutture governative islamiche.
Le rivolte in Tunisia con la defenestrazione del Presidente Ben
Ali e l’estromissione di Hosni Mubarak in Egitto mettono la Libia
fra due fuochi. Le manifestazione di protesta iniziano anche a
Tripoli, sono i prodromi di una guerra civile, ma il regime libico
era in grado di debellarla e si manteneva ancora stabile. C’era
solo un modo per rovesciare Gheddafi.
Nel marzo del 2011 le forze NATO intervengono in Libia appoggiando
la ribellione. Lo fanno su iniziativa e pressione francese. Viene
inizialmente interdetto l’utilizzo dello spazio aereo alle forze
governative. Proseguirà poi con un attacco aereo francese
nell’area di Bengasi e poi con il lancio di missili Tomahawk da
navi americane ed inglesi. E’ l’inizio dell’operazione NATO
“Unified Protector” che porterà alla caduta del regime.
Il 20 ottobre 2011 anche Gheddafi viene catturato e trucidato dai
ribelli nell’area di Sirte.

Nicolas Sarkozy con Muhammar Gheddafi
Perché l’intervento in Libia?
Caduto il regime il Paese è sprofondato in una situazione di caos.
Come avvenuto in altre parti del mondo, gli interventi militari
stranieri sbilanciano i rapporti di forza all’interno di un Paese
facendo vincere e dando potere a chi, come nel caso libico, non è
in grado di gestirlo. Quando poi questi interventi avvengono in un
Paese dove manca una cultura democratica ad una dittatura finisce
per subentrarne un’altra. I diritti umani erano lesi prima e lo
sono anche adesso nel caotico sistema sociale della Libia.
L’intervento militare della NATO sarà anche stata l’occasione per
sbarazzarsi di un brutale dittatore quale era Gheddafi. Ma andava
fatto 20 anni prima. Il Gheddafi del 2011 era un Capo di Stato
moderato che faceva comodo a molti Paesi occidentali, Italia in
testa per il suo ruolo nel bloccare i flussi di migranti diretto
verso l’Europa. Ma evidentemente non alla Francia e a quelli poi
resisi responsabili della sua caduta.
Probabilmente non c’è una logica apparente in tutto questo. Sono
state ipotizzate varie ipotesi per giustificare un intervento
armato in Libia. Si è ipotizzato che il Presidente francese
Nicolas Sarkozy, il più determinato ad intervenire contro
Gheddafi, volesse in qualche modo accaparrarsi il petrolio libico.
Un’altra possibile lettura, accreditata dai recenti risvolti
giudiziari contro Sarkozy, vuole il presidente francese prodigarsi
per far sparire le tracce dei finanziamenti libici alla sua
campagna elettorale. Fra le email dell’allora Segretario di Stato
USA, Hillary Clinton, è emerso come l’intervento francese sia
stato dettato da motivi geo-strategici e sia avvenuto con l’avallo
americano.
La spiegazione più plausibile è che Gheddafi, nonostante le sue
ultime evoluzioni politiche, non era amato e apprezzato e quindi,
alla prima occasione utile si è colta l’occasione per farlo fuori.
In quel momento storico, molti Paesi occidentali avevano
interpretato – erroneamente – che le sommosse in Medio Oriente
fossero la premessa per la diffusione della democrazia nella
regione. Gli stessi Stati Uniti ritenevano i Fratelli Musulmani
egiziani portatori di libertà. Ed in questa erronea valutazione
dei fatti, la defenestrazione di un dittatore efferato aveva un
certo senso.