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IL CASO DI GAZA E LA POLITICA IRANIANA  DELLA DESTABILIZZAZIONE



gaza explosion nov 18, 2012


Affrontare l'ultima crisi tra Israele e la Striscia di Gaza stabilendo aprioristicamente chi ha ragione o chi ha torto, se valga il principio della causa o quello dell'effetto, se sia giusta l'azione o la reazione, se si discetta sul significato temporale di provocazione si rischia sicuramente di arrivare  a giudizi sbagliati, quantomeno approssimati, molte volte faziosi, in una vicenda – quella palestinese – che sta andando avanti da oltre 60 anni e dove tutte le parti in causa hanno i loro torti e le loro ragioni.

Questo e' un tipo di approccio ingenuo in cui e' caduto anche il Ministro degli Esteri italiano quando ha definito "atto di terrorismo" il lancio dei missili da Gaza e ha invece etichettato come eliminazione (non uccisione) quella del capo delle Brigate Ezzedin Al Qasssam, Ahmed Jabari. Forse Giulio Terzi di Sant'Agata, in virtu' dei suoi trascorsi di ambasciatore in Israele e negli U.S.A., ha inteso farsi garante di solo una parte di una problematica molto piu' complessa e puo' essere stato contagiato da quella che gli psicologi chiamano la "sindrome di Stoccolma". Puo' trovare qualche  giustificazione quello che ha affermato se intendeva valutare il problema perche' era chiamato ad un ruolo di politica istituzionale nazionale; avrebbe dovuto usare piu' prudenza se, al contrario, intendeva invece dare un equo giudizio di merito sui fatti. E per un diplomatico di alto rango, inopinatamente diventato ministro, usare parole inappropriate puo' apparire  un elemento non qualificante della propria professionalita'.

Ma e' bene dire che si sbagliava anche il Presidente egiziano Mohamed Morsi quando ha definito, all'inizio della crisi, gli interventi bellici israeliani "una aggressione contro l'umanita'". Ed altrettanto e' da biasimare il premier turco Recep Erdogan che ha usato parallelismi semantici simili. O il Ministro degli Esteri libico che ha accusato di terrorismo Israele e le correlate iniziative militari un "atto criminale". Come loro tanti altri si sono  esercitati in questa circostanza a dare giudizi anziche' cercare di proporre o imporre soluzioni ad un problema infinito.

Perche' in Medio Oriente niente e' nero o bianco, ma tutto e' grigio. E gli analisti che si esercitano in valutazioni rischiano di avere una visione dei fatti daltonica arrivando a giudizi e facendo politica di parte. Dire quello che e' giusto e quello che e' sbagliato in una storia lunga 60 anni e' impresa impossibile. Dare giudizi su un problema cosi' complesso e annoso non aiuta il cammino della verita'. Se in Medio Oriente e' difficile giudicare equamente i fatti, altrettanto difficile e' trovare il bandolo degli interessi che alimentano la crisi. Questo perche' gli attori sono tanti ed e' difficile poter capire chi meglio concorre o guadagna da questa instabilita'.

Oggi il temporaneo riacutizzarsi del confronto militare tra Gaza e Israele non e' riferibile solo al problema palestinese ancora irrisolto, ma e' una crisi frutto di un mondo, quello arabo, che sta cambiando, di una regione che e' percorsa da tensioni e instabilita', da un fondamentalismo islamico dilagante, da una comunita' internazionale non in grado di produrre o imporre soluzioni, da un Israele che sotto la guida di Benjamin Netanyahu non concede margini e spazi che non siano quelli di una dimostrazione di forza. E cosi' facendo il problema non viene risolto, ma spostato nel tempo  con altri morti, altro odio, maggiore voglia di vendetta e sofferenze.

Come e' avvenuto sinora, il problema palestinese e' solo la cartina di tornasole di tutto quello che oggi avviene nella regione e, come gia' avvenuto in passato, potrebbe divenire la miccia che innesca e fa esplodere la polveriera mediorientale. Molti Paesi in Medio Oriente si sono appropriati del problema palestinese come una bandiera da sventolare, una causa giusta da strumentalizzare, salvo poi sfruttarlo a proprio uso e consumo. Non certo per risolverlo.

Non era una previsione difficile pensare che la crisi siriana travalicasse i confini nazionali e cominciasse a contagiare altri teatri di crisi. Nel grosso vaso di Pandora che e' il Medio Oriente esiste una stretta interdipendenza tra cause ed effetti e, soprattutto, vi e' comunque un forte legame fra le varie crisi nella regione accomunate da un unico denominatore di instabilita'.

Quando si modifica un termine del mosaico politico e sociale su cui si regge il precario equilibrio dell'area, automaticamente scattano effetti negativi in altre problematiche insistenti geograficamente nella regione. E ci sono oggi diversi attori regionali che dalla destabilizzazione traggono vantaggi in una logica di convenienze politiche.

Occorre allora domandarsi: chi e' che ha guadagnato o perduto da questa nuova crisi, poi bloccata  con un accordo sponsorizzato dall'Egitto e dagli U.S.A. il 21 novembre?

Israele: Per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, che ha indetto le elezioni il 22 gennaio ed e' schierato con i partiti della destra piu' estrema, aver mostrato un atteggiamento intransigente e l'aver dato spazio all'opzione militare e' stato sicuramente foriero di consenso elettorale. Lo era altrettanto l'espansione degli insediamenti ebraici nelle aree oggetto di trattativa con l'Autorita' Nazionale Palestinese, un negoziato portato avanti nell'idea di forzare la controparte ad accettare la creazione di una entita' palestinese molto simile ad un Bantustan di memoria sudafricana. Il guadagno che pero' poteva emergere tatticamente sul momento si disperde in una prospettiva piu' lunga. Si e' delegittimata la volonta' negoziale dell'Autorita' Nazionale Palestinese dando ampio spazio alle frange piu' estremiste della galassia palestinese. E quel che e' piu' grave e' che la stessa Hamas oggi non ha piu' il controllo assoluto della diaspora in Gaza essendo stata sopravanzata da gruppi ancora piu' radicali affiliati alla corrente salafita, come la Jihad Islamica palestinese, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, il Tawid wal Jihad, l'Ansar al Sunna, Jund Ansar Allah, Jaish al Islam. Quest'ultima crisi, generata dall'uccisione di un leader militare di Hamas, vede questa organizzazione in parte vittima di un'escalation per la quale probabilmente non ha gravi responsabilita'. Tuttavia, Hamas, in virtu' di questo nuovo scontro con Israele, trova ancora piu' legittimato il suo status internazionale. Vi e' poi il problema della guerra asimmetrica, legato alla sproporzione di forze in campo tra l'apparato militare e di fuoco israeliano e quello palestinese. Una  sproporzione che determina una vistosa incidenza delle vittime di guerra.

L'operazione "Piombo fuso" del dicembre 2008 si e' conclusa dopo circa 20 giorni di guerra (tra bombardamenti ed invasione terrestre) in cui circa 1400 palestinesi sono morti a fronte di 13 israeliani. Le vittime palestinesi erano per la maggioranza civili. Questa volta, nell'arco di una sola settimana, vi sono stati 156 palestinesi morti (tra cui 36 bambini) e circa 1400 feriti contro le 6 vittime ed i 250 feriti israeliani.

Quando Israele mette in atto i suoi strumenti di morte molte volte sottovaluta l'impatto che tale sproporzione ha sull'opinione pubblica mondiale (e le votazioni all'Assemblea Generale dell'ONU del 29 novembre che ha sancito il riconoscimento palestinese lo attesta ampiamente), oltre, ovviamente, al rancore che possono coltivare coloro che subiscono tale carneficina. E' il cosiddetto danno di immagine. Gaza ha una densita' di popolazione cosi' alta che qualsivoglia bombardamento tende ad avere piu' effetti collaterali di quel coefficiente 3.14 che teoricamente viene considerato un rischio accettabile da Tel Aviv nel rapporto tra coloro da ammazzare e quelli che muoiono "fortuitamente".

Tuttavia, la tregua tra le parti lascia irrisolto il problema palestinese (nessuno dei maggiori negoziatori, ONU  compresa , si e' azzardato ad affrontare il problema). Un guadagno militare viene invece ad Israele dalla verifica sul terreno del sistema anti-missile "Iron Dome" (di produzione israeliana con cooperazione di ditte americane), particolarmente efficace nell'eliminare quasi il 90% dei missili lanciati da Gaza. Ed e' un test che potrebbe tornare utile nel caso di un raid contro l'Iran e della possibile ritorsione missilistica degli Ayatollah.

hamas
Militanti di Hamas

Hamas: la leadership di Hamas, peraltro solo in parte responsabile di questa escalation militare, viene ancora una volta legittimata come controparte negoziale. Benche' scavalcata da formazioni ancora piu' radicali, alla fine Hamas e' ancora e sempre piu' un interlocutore internazionale essenziale. Chi perde temporaneamente legittimazione da questo scontro armato e' solo l'Autorita' Nazionale Palestinese, testimone silente di questo nuovo dramma palestinese. L'ANP ha riacquistato un po' di credibilita' quando ha rifiutato le richieste americane di posticipare/bloccare  la richiesta all'ONU di divenire Paese osservatore non membro (iniziativa appoggiata anche da Hamas e questo potrebbe aiutare a riconciliare le due organizzazioni). Durante la crisi c'e' stata la processione dei Ministri degli Esteri arabi nella Striscia, tra cui anche il turco Ahmet Davutoglu. Questo e' un altro elemento a supporto del ruolo di Hamas, la cui firma sulla tregua ha evitato di offrire ulteriore spazio a quelle frange estremiste che minano la sua leadership a Gaza. Il quadro nel suo complesso risponde anche alla logica dell'attuale governo israeliano che non intende cedere niente nei negoziati con Abu Mazen, anzi preferisce che l'interlocutore privilegiato sia un'organizzazione che non vuole negoziare, cioe' Hamas.

Autorita' Nazionale Palestinese (ANP): il prestigio guadagnato da Hamas nell'ultimo confronto con Israele e' direttamente proporzionale al calo subito dall'OLP e da Abu Mazen. Per fortuna la votazione che ha permesso alla Palestina di entrare nell'ONU come Stato osservatore, iniziativa fortemente perseguita sul piano diplomatico dall'Autorita' palestinese, riequilibra i rapporti di forza tra le due anime della comunita' palestinese: quella laica e moderata (OLP) e quella religiosa e radicale (Hamas). Ma anche l'ANP ha le sue dissidenze interne come il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina che, con Brigate Abu Ali Mustafa, fiancheggia militarmente le Brigate Ezzedin al Qassam di Hamas.

Egitto: non era chiaro, almeno all'inizio delle ostilita', che ruolo volesse o potesse esercitare il Presidente Mohamed Morsi e, soprattutto, da che parte avrebbe deciso di stare nel tentativo di negoziare un accordo tra Hamas e Israele. Nella realta', l'Egitto sotto la guida dei Fratelli Musulmani ha saputo recitare un qualificante ruolo negoziale (comunque sotto pressione americana che, e' bene ricordare, sostiene il Paese con forti contributi finanziari) e ed ha quindi riacquistato credibilita' sia agli occhi dell'Occidente che di Israele e della leadership nel mondo arabo. Non era una circostanza scontata perche' i segnali venuti dall'Egitto dopo l'insediamento del nuovo Presidente erano contrastanti ed i legami tra la Fratellanza Musulmana ed Hamas erano notoriamente molto stretti. Il Cairo ha ottenuto una tregua, evitato al suo sodale Hamas una sicura sconfitta militare (o almeno una carneficina), non si e' esposto nell'accordo ad alcuna limitazione (quindi continuera' a costituire la maggiore fonte di sopravvivenza della Striscia attraverso i tunnel) e continuera' a chiudere un occhio sui traffici di armi che attraversano il Sinai (da dove sono entrati i missili Fajr 5 iraniani provenienti con triangolazioni dal Sudan e dal Libano). L'Egitto proseguira' quindi ad esercitare quella che nel mondo musulmano, ma soprattutto sciita, e' chiamata "taqyya" (dissimulazione o ambiguita'). Nel levantino approccio di Mohamed Morsi bisogna anche inserire la sua contestuale iniziativa interna con cui, con un colpo di mano, ha esautorato il Procuratore Generale della giustizia sostituendolo con un proprio uomo, ha emesso un decreto costituzionale che allarga e rende inappellabili le sue decisioni ed ha deciso di processare o ri-processare senza vincoli gli uomini del passato regime. In pratica, il Presidente egiziano ha approfittato della fresca  notorieta' internazionale per spingere il Paese verso un'involuzione democratica. Con buona pace di chi credeva ad una primavera araba e con il silenzio compiacente di chi, come gli U.S.A., speravano in una rinascita democratica nella regione.

Iran: la crisi di Gaza ha fatto anche il gioco di Teheran, probabilmente il primo sponsor occulto di questa nuova situazione . E' infatti verosimile pensare che si sia sostanzialmente trattato di una crisi pilotata dall'Iran che aveva tutto da guadagnare da un'intensificazione dell'instabilita' regionale. La circostanza sarebbe poi stata particolarmente gradita se avesse inciso sulla sicurezza israeliana. E' noto da tempo il legame politico e militare instauratosi direttamente o per tramite degli Hezbollah fra Hamas e Teheran. La presenza di missili iraniani in mano alle milizie palestinesi lo confermano. Se la crisi fosse durata piu' a lungo, ed era forse questo uno degli auspici dell'Iran, avrebbe distolto maggiormente Israele dalle sue minacce contro il programma nucleare iraniano ed avrebbe indebolito il potenziale militare dello Stato ebraico. E' invece probabile che la sospensione delle operazioni terrestri israeliane verso Gaza sia stato dettato proprio dalla necessita' di fare massa sul contenzioso iraniano ed e' anche altrettanto possibile che gli U.S.A. abbiano convinto Tel Aviv a desistere da tale operazione promettendo una qualche forma di sostegno militare sul fronte iraniano. Sarebbe altrimenti difficile spiegare perche' un politico consumato come Benjamin Netanyahu abbia sospeso un'operazione militare caldeggiata dal 70% della popolazione israeliana.

Turchia : anche Recep Erdogan, precipitandosi al Cairo all'inizio delle ostilita', intendeva dare una ulteriore svolta alla sua politica neo-ottomana. Tuttavia, in virtu' dei pessimi rapporti con Netanyahu, non ha potuto esercitare alcun ruolo di mediazione. Penalizzato dalla circostanza, il Premier turco si e' solo esercitato in una serie di dichiarazioni a favore di Hamas. Dopo i contrasti con la Siria, la Turchia aveva necessita' di riguadagnare consenso nel mondo arabo. Colpisce l'atteggiamento turco a sostegno dell'operazione "Piombo Fuso" contro Gaza nel 2008 ed il forte atteggiamento critico nei confronti di Israele oggi.

U.S.A.: la mediazione americana ha avuto un grosso impatto. Era la prima verifica, dopo l'insorgere della primavera araba, della scelta di Barack Obama a favore di nuove leadership arabe. Durante la recente campagna presidenziale Obama era stato piu' volte attaccato su questo fronte della sua politica estera. Ma i fatti gli hanno dato ragione. Hillary Clinton e' stata sicuramente molto efficace (e questo le tornera' a favore se tra quattro anni intendera' – come sembra – concorrere per la Presidenza), ma molto deriva anche dalla nuova impostazione diplomatica a Washington. Bisogna anche dire che i rapporti tra Benjamin Netanyahu e Barack Obama non sono molto cordiali (il premier israeliano sperava che vincesse il candidato repubblicano) e questo dato, oramai di dominio pubblico, potrebbe concedere all'Amministrazione americana una maggiore credibilita' nel tentare di svolgere una mediazione della questione palestinese.

IL DISEGNO IRANIANO

Come abbiamo sottolineato, la nuova crisi tra Israele e la Striscia di Gaza si lega ad altre turbolenze  regionali tutte inevitabilmente intrecciate e condizionate fra loro. Come in un gioco delle parti, oramai ogni contenzioso tende, soprattutto in Medio Oriente, a non esaurirsi in un confronto diretto, ma a coinvolgere anche altri attori ed altri Paesi.

Nella crisi di Gaza c'e' sicuramente la longa manus iraniana: non solo per la fornitura di missili Fajr 5, ma anche perche' la Jihad Islamyah, ora associata ad affiliata ai salafiti e a personaggi legati ad Al Qaeda, risponde del suo operato direttamente a Teheran. Come detto, le interferenze iraniane nella Striscia sono parte di un disegno destabilizzante piu' ampio. L'Iran affronta oggi la minaccia israeliana contro il proprio programma nucleare e la prevedibile perdita di un alleato storico come la Siria .

Nella logica di distogliere l'attenzione internazionale  e di convogliarla su altre aree a rischio e, nel contempo, di cercare di mettere Israele in condizione di doversi confrontare con diverse minacce  contemporaneamente, Teheran applica la tattica del tanto peggio, tanto meglio. Ovvero, piu' crisi insorgono, piu' pericoli potenziali circondano Tel Aviv, meglio sono cautelati gli interessi e la sicurezza iraniana.

In questo pericoloso e destabilizzante gioco degli Ayatollah, Gaza e' solo parte di un programma piu' ampio applicato ai Paesi che confinano con Israele. Escluso l'Egitto, inconfutabilmente il riferimento del sunnismo teologico e con una propria dinamica di politica, soprattutto estera, in evoluzione (basti ricordare che il Presidente Mohamed Morsi, contrariamente a quanto faceva Hosni Mubarak, ha recentemente partecipato al summit del Movimento dei Paesi Non Allineati organizzato a Teheran marcando un implicito riavvicinamento tra i due Paesi) ed esclusa anche la Giordania, che ha una politica estera filo-occidentale (ma che comunque oggi e' percorsa da tensioni interne che potrebbero domani fornire "opportunita'"), gli interessi destabilizzanti dell'Iran si sono indirizzati, oltre che su Gaza, anche sul Libano ed al sostegno della Siria.

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Il Generale libanese Wissam al Hassan

Per quanto riguarda il Paese dei Cedri, il 19 ottobre e' stato ucciso in un attentato a Beirut il Generale libanese Wissam al Hassan, capo dell'intelligence di Polizia e gia' scampato ad un attentato ad aprile. Legato a Rafic Hariri (l'ex premier libanese ammazzato da probabili sicari siriani con un analogo attentato il 14 febbraio 2005) ed a suo figlio Saad, Hassan era noto per la sua ostilita' nei confronti della Siria. Wissam guidava una fronda contro il regime di Damasco che metteva insieme i sunniti ed i drusi di Walid Jumblatt. Wissam al Hassan era accusato, a ragione o a torto, di aver agevolato il transito sul territorio libanese di armi ai ribelli siriani. Risulta verosimilmente lecito il sospetto che il mandante sia stato siriano, l'esecutore gli Hezbollah e la mente iraniana. Ad Agosto Hassan aveva fatto arrestare l'ex Ministro dell'Informazione, Michel Samaha, accusato di aver introdotto in Libano grosse quantita' di esplosivo per finalita' destabilizzanti.

Alla trama siro-iraniana bisogna aggiungerne un'altra esclusivamente iraniana: il 6 ottobre un drone di produzione iranian,a peraltro poi abbattuto mentre sorvolava il deserto del Negev nei pressi di Bersheva, e' stato lanciato dagli Hezbollah sul territorio israeliano. Questi ultimi, sempre con il sostegno iraniano, hanno installato una centrale per la guerra cibernetica alla periferia di Beirut. Proprio per la sua variegata articolazione sociale e religiosa, il Libano e' terreno fertile per chi vuole destabilizzare la regione. Per adesso la presenza della missione della Nazioni Unite UNIFIL ai confini libanesi meridionali e' riuscita ad evitare che le frizioni tra Hezbollah e Israele degenerassero. Che gli Hezbollah libanesi fossero totalmente asserviti agli interessi iraniani non e' certo una novita', ma nel breve termine stanno insorgendo indicazioni che potrebbe presto esserci un salto di qualita' in questo legame.

Il 16 settembre, infatti, il capo delle Guardie Rivoluzionarie iraniane, Gen. Mohamed Ali Jafari, ha annunciato il posizionamento di Pasdaran sul suolo libanese. I Pasdaran erano gia' stati individuati al fianco delle truppe di Bashar al Assad nella lotta contro i ribelli in Siria. Se si posizioneranno anche  in Libano, l'iniziativa prefigura l'apertura di uno nuovo fronte armato con Israele.

Per quanto riguarda la Siria, anche qui vi e' l'interesse iraniano a sovrapporre la crisi di Damasco al contenzioso con Tel Aviv. Nei primi giorni di novembre sono stati sparati dalla Siria colpi di mortaio contro le postazioni israeliane sul Golan, le quali hanno risposto con il lancio di un razzo Tammuz. Potrebbe essere stato un evento fortuito nell'ambito della guerra civile che sconvolge la Siria. O forse il deliberato intento, con il beneplacito iraniano, di allargare i fronti e le aree di crisi da parte del regime di Damasco che ha in comune con l'Iran i seguenti interessi:

    •     Bashir al Assad gioca la propria sopravvivenza al potere sul postulato che la sua caduta avrebbe un impatto negativo sulla stabilita' del risiko mediorientale. Se si dovessero infiammare le alture del Golan, si rischierebbe di innescare il problema della comunita' drusa che vive divisa a cavallo della linea di demarcazione. E i drusi siriani sono considerati solidali ad Assad.

    •    l'Iran, in virtu' della enunciata politica del tanto peggio, tanto meglio, vede con favore l'innesco di focolai di tensione ai confini di Israele.

UNA FACILE PROFEZIA

Alla fine del nuovo round di guerra fra Israele e Hamas entrambi i contendenti hanno rivendicato la vittoria. Se un vincitore c'e' stato questi e' il buon senso che alla fine ha prevalso sulle velleita' e gli antagonismi. Hamas ha indetto la data della tregua come festa nazionale e "giorno della vittoria". Ma e' solo retorica perche' le guerre, iniziate o concluse o – come in questo caso – rimandate, non portano altro che una lista di morti inutili da ambo le parti. Perche' alla fine non si e' risolto quello che e' il problema di fondo, ovvero una soluzione per uno Stato Palestinese. Il fuoco covera' sotto le ceneri fino alla prossima occasione utile, quando le tensioni in Medio Oriente torneranno a crescere e l'effetto deflagrante della questione palestinese tornera' ad esplodere. I palestinesi sono una bandiera da sventolare nel momento del bisogno per i vari regimi arabi e talvolta sembra proprio che questa questione rimanga irrisolta perche' il fatto stesso che esista questa bandiera fa sempre comodo a tutti. Oggi e' il turno dell'Iran, ieri quello dei vari Paesi del fronte del rifiuto, domani quello di qualcun altro.