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L'ECONOMIA GLOBALE: LA SUA EVOLUZIONE, LE SUE CONTRADDIZIONI


global economy

La nostra società globalizzata vive in un mondo dove l'informazione viaggia alla velocità della luce, dove internet mette in contatto ogni parte del globo, dove cause ed effetti interagiscono tra loro in forma immediata ovunque si verifichino. Non più reti stradali o rotte marittime, ma reti di comunicazione. Un sistema che diventa globale in ogni campo dello scibile umano. Non esistono più confini, limitazioni geografiche o morfologiche, problemi o crisi nazionali che non diventino internazionali, segreti che non diventino di dominio pubblico. La globalizzazione è conseguenza del progresso scientifico.

Anche i sistemi finanziari interagiscono tra loro e diventano globali. La globalizzazione diventa così, nel sistema finanziario, una dottrina economica-finanziaria dove i mercati sono il mondo. Da tutto questo deriva che l'economia globale è sempre più interconnessa ed interdipendente con le varie economie nazionali. Gli effetti immediati e diretti della globalizzazione sono ben evidenti: una forte intensificazione dei flussi commerciali e finanziari; la contemporanea creazione di una organizzazione della produzione che va oltre i confini nazionali. Il ruolo centrale è determinato dal progresso tecnologico che assume un ruolo fondamentale, in quanto riduce i tempi e le distanze sia per i beni che per i servizi e gli oggetti della produzione. Quindi mercati sovranazionali, acquisizione ed utilizzo di nuove tecnologie, tutto diventa globale: le società operano su scala internazionale, i beni vengono prodotti, trasformati e circolano dove il costo del lavoro è più conveniente e dove l'accesso alle materie prime è più facile. Questa è la globalizzazione.

Le origini del fenomeno


Una tendenza alla globalizzazione c'è sempre stata ed è stata asservita, come nel recente passato, a dottrine politico-economiche come il comunismo ed il liberalismo o capitalismo. Le origini della globalizzazione si perdono nella notte dei tempi e sono concomitanti agli spostamenti dell’umanità che, nel tempo, hanno diffuso persone, prodotti, idee e innovazioni; di questi eventi sono sopravvissute le reti di comunicazione che travalicano le frontiere politiche:

- la rete stradale dell’Impero Romano che metteva in collegamento una vasta area politica ed economica;
- la “via della seta” tra la Cina e l’Europa che consentì la conoscenza e l’acquisizione di prodotti di interesse bellico e umanitario (polvere da sparo, bussola) e di prodotti alimentari (pasta, spezie);
- i viaggi di Marco Polo del XIII secolo nell’Estremo Oriente;
- l’immenso impero commerciale sviluppatosi intorno a Venezia tra l’XI e il XVI secolo e nel mare del Nord da parte della “Lega delle Città Anseatiche del Nord” tra il XIII e il XVII secolo alla ricerca di migliori condizioni di vita, di scambi commerciali e complessivamente per l’accesso a una maggiore varietà di prodotti per la diffusione di nuove tecniche che rendessero la produzione più veloce. Questo fu spinto dalla disintegrazione dell’Impero Mongolo (1368), che aveva garantito sicurezza alla “Via della seta,” e spinse i popoli europei a cercare nuove rotte, dando impulso alla circumnavigazione dell’Africa e alle spedizioni che culminarono con la scoperta dell’America.

Questo periodo, cosiddetto della “prima ondata”, arriva alla seconda metà del XVIII secolo, cioè fino alla Rivoluzione Industriale, con i grandi flussi migratori dai Paesi europei verso le nuove terre (Stati Uniti, Canada, Australia).


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St. Io, Francia, 1944


L’impatto delle due guerre mondiali

Le due guerre mondiali commutarono il segno caratteristico della produzione, ma più correttamente della globalizzazione, da positivo a negativo. Al termine della Seconda Guerra Mondiale la leadership planetaria passò dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti, capaci di assumersi tale responsabilità in quanto, tra l’altro, non avevano subito l’impatto della guerra sul proprio territorio. Furono sottoscritti gli accordi di Bretton Woods nel 1944 e con essi il Nuovo Ordine Mondiale che vide, fra le prime scelte, quella di trasferire la Società delle Nazioni dall’Europa alle America, da Ginevra a New York. Le “linee guida” furono estrinsecate come segue:

- istituzione del FMI (Fondo Monetario Internazionale);
- “Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo, successivamente denominata “Banca Mondiale”;
- Organizzazione Internazionale per il Commercio (ITO), che faticosamente, dopo decenni, divenne World Trade Organization (WTO).

Gli anni ruggenti della globalizzazione

Il vertice simbolo della globalizzazione avviene in una Seattle sotto assedio il 30 novembre 1999;si tratta del vertice in cui i Capi di Stato del mondo dovevano varare i nuovi negoziati mondiali sulla liberalizzazione degli scambi commerciali (protagonista il WTO, arbitro e cabina di regia della globalizzazione).

Ma a Seattle convergono 40 mila oppositori che si fondono in un corteo (operai, sindacati, ONG ambientaliste, i primi “black block”). L’81ma Brigata del “Washington State Patrol” batte in ritirata; il Capo della Polizia di Seattle si dimette, il Presidente Bill Clinton è costretto a convocare la Guardia Nazionale. Molti leader dei governi partecipanti al summit rimangono bloccati negli alberghi senza poter raggiungere il Centro Congressi, avvolto dalle nuvole dei lacrimogeni. Un copione che servì per altre manifestazioni in altre parti del mondo, come il vertice di Genova nel 2001! Seattle e Genova fecero scuola anche per il “Forum di Davos”, l’esclusivo ritrovo dei “vip”sulle montagne dei Grigioni, costretti a blindarsi per potersi incontrare.

Tuttavia, la vera ragione del fallimento di Seattle è da riferire al fatto che 40 delegazioni venute dall’Africa e dall’America Latina respingono l’accordo, facendo “saltare” le trattative perché si ritengono sopraffatte dagli interessi del capitale occidentale. Il movimento “no global”, che si aggiunge ai 40 mila di Seattle, condivide l’orientamento indicato. Lo stesso vale per gli economisti “liberali” che negli anni ’90, dopo aver divorziato dall’ortodossia liberale (uno per tutti, Joseph Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001), attaccano la Casa Bianca e il FMI perché fautori dell’austerity e delle privatizzazioni a danno dei Paesi del Terzo Mondo; infatti, i progressisti sono convinti che la globalizzazione sia un nuovo capitolo dell’imperialismo post-coloniale.

Tornando al percorso della globalizzazione, Seattle ha lanciato temi che sono ancora attuali, quali:

- gli effetti della globalizzazione sui salari occidentali;
- i danni per l’ambiente e la salute dei consumatori;
- lo strapotere delle multinazionali che prende di mira la generazione dei nuovi trattati: il TPP (Trans-Pacific Partnership, un accordo di libero scambio tra 12 Paesi del bacino del Pacifico tra cui Stati Uniti, Canada e Australia) e il TTIP (Trans-Atlantic Trade and Investment Partnership) che comprende solamente Stati Uniti e Unione Europea.


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Joseph Stiglitz


Gli effetti perversi

La globalizzazione ha creato nel tempo paesi sempre più poveri e paesi sempre più ricchi. Ha cioè accentuato le diseguaglianze tra le varie economie. Sul piano sociale, uno dei sottoprodotti è l’immigrazione. Fenomeni collaterali come il terrorismo, le guerre di religione, abbinati all'impotenza, o la mancanza di determinazione, del mondo "ricco" nel gestire questi fenomeni ha creato nei fatti una tendenza al ritorno dei nazionalismi, nella percezione che, alla fine, la globalizzazione sia più un male che un bene. Recupero delle identità nazionali e isolazionismo come panacea di un sistema globale perverso.

Stiglitz ha affermato che il commercio internazionale, pur generando profitti, non crea benessere a causa di un’iniqua distribuzione degli stessi. Una teoria che ha smentito quanto professava due secoli prima l'economista inglese David Ricardo, secondo cui i profitti andavano a tutti i partecipanti al commercio internazionale. La delocalizzazione delle produzioni, con l'ingresso della Cina nel WTO e con il successivo emergere dei cosiddetti Paesi BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica) ha fatto sì che produzioni inquinanti fossero concentrate in specifiche aree del pianeta e che la ricerca di manodopera a basso costo creasse fenomeni indotti di disoccupazione nei paesi "ricchi" nonché lo sfruttamento nei paesi "poveri".

L’economista Branko Milanovič, con il suo testo “Global Inequality”, ci apre gli occhi davanti a queste contraddizioni: la globalizzazione ha reso il mondo meno ineguale, nel senso che ha accorciato le distanze Nord-Sud, ma all’interno di ogni nazione ha divaricato la sorte dei ricchi da quella degli appartenenti ad altre categorie. L’altro studioso delle diseguaglianze, il premio Nobel Angius Deaton, aggiunge un’autocritica personale che si estende a molte élite intellettuali: mentre in America aumentano i suicidi dei nuovi poveri, io, come altri accademici, faccio parte dei beneficiari della globalizzazione: ha allargato il mercato per i miei servizi.

Del resto, già nel 1848, Karl Marx e Friederich Engels, nel “Manifesto del PartitoComunista”, preconizzavano l’avvento della “globalizzazione” come la viviamo oggi, come inscritta nel DNA dello sviluppo, e del declino del capitalismo. Ovvero, la necessità, vitale per il capitalismo, di trovare sempre nuovi e più ampi sbocchi per i suoi mercati, lo avrebbe portato all’auto-distruzione.

Alla ricerca di regole

Esiste una maniera per rendere la globalizzazione esente dagli effetti perversi, sia sociali che economici, che il fenomeno alimenta?

Secondo la dottrina liberista, la società umana è retta da leggi naturali e immutabili, e quindi si sostiene che l’unico autentico stimolo per l’uomo a operare nella sfera economica sia il vantaggio personale: pertanto, il sistema economico che più si adatta alla società è quello della libertà di impresa o libera iniziativa. In pratica, non c’è niente da fare. Nel 2005, Thomas Friedman, nel suo “Il mondo è piatto”, arrivava a parlare di “iper-globalizzazione” e “turbo-globalizzazione”. Un mondo finalmente omologato, in cui distanze e frontiere non rappresentano più alcun limite al commercio mondiale.

Alcuni analisti, un po’ più equilibrati e un po’ meno “entusiasti”, come Punkaj Ghemawat, hanno denunciato l’aspetto fanta-economico della visione di Friedman, sottolineando l’imprescindibile rilevanza che le differenze tra i vari Paesi continueranno ad avere nelle dinamiche economico-politiche. A dimostrare questa difformità sta proprio il rapporto di proporzionalità inversa tra mobilità dei capitali e mobilità degli individui che tuttavia, nonostante le restrizioni sempre più severe (pattugliamenti marittimi, reticolati, respingimenti ecc.), è in continuo aumento.

Come sempre avviene nelle evoluzioni delle società, ad ogni fenomeno se ne contrappone uno di segno contrario. Con la Grande Depressione del ’29 lo Stato si fa garante della stabilità economica e dell’assistenza ai cittadini; in un contesto di economie già internazionalizzate, nasce così, a cavallo della Seconda Guerra Mondiale, lo “stato sociale”. Oggi una delle contromisure alla globalizzazione selvaggia sono le iniziative di protezione sociale – ammortizzatori sociali come pensioni, sussidi di disoccupazione. Tutti interventi pubblici per arginare i danni dell’economia globale “deregolarizzata”. Tutto questo, almeno allo stato attuale, è possibile solo all’interno dei confini dei singoli Paesi; quegli stessi confini che la turbo-globalizzazione vuole abbattere come intollerabili ostacoli.E se globalizzazione e stato sociale si contrappongono nel ruolo reciproco di causa-effetto, la globalizzazione è anche l’antitesi dello statalismo. E' un problema così centrale che anche in ambito G20 si parla della necessità di una "crescita inclusiva".

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