testata_leftINVISIBLE DOGvideo

DIETRO IL NEGOZIATO NUCLEARE: GRANDE SATANA O STATO CANAGLIA?


obama khamenei

Quando si fa un negoziato generalmente si cerca di trovare una soluzione che in qualche misura accontenti tutte le parti in causa. Una soluzione mediata fatta di compromessi, dove poi entrano in gioco interessi ed intenzioni, entrambe espresse o sottointese. Quando, alla fine, viene stilato un documento si limano le parole, si gioca talvolta anche sull’equivoco, si cercano formule che dicono tutto ed il contrario di tutto in modo da non scontentare nessuno. Questa è l’arte della diplomazia. Quindi alla fine non c’è mai un vincitore anche se poi tutti sostengono di aver vinto o, perlomeno, di non aver perso. E’ capitato anche nel negoziato sul nucleare che ha visto l’Iran confrontarsi con le maggiori potenze mondiali ed alla fine, dopo una fatica durata “ufficialmente” 20 mesi di estenuanti negoziati, trovare un accordo.

Ha vinto il Grande Satana o lo Stato Canaglia? Nessuno dei due. Sicuramente ha prevalso il buon senso anche perché l’alternativa – come dichiarato pubblicamente dal Presidente americano Barack Obama – sarebbe stata la guerra. E se c’è oggi una cosa di cui il Medio Oriente non ha certo bisogno è di un altro conflitto.

L'accordo, denominato ufficialmente Joint Comprehensive Plan of Action, è un mix tra fiducia, verifiche, pragmatismo. L’Iran mantiene le proprie infrastrutture nucleari (e quindi, secondo i detrattori, la sua abilità potenziale a provvedersi di un ordigno), ma sarà soggetto ad ispezioni e controlli. Tehran avrà degli incentivi a comportarsi correttamente, vedi la rimozione delle sanzioni, ma potrà essere nuovamente sanzionato o, come alcuni leader americani hanno pubblicamente affermato, colpito militarmente nel caso sgarri.

Certo quando si porta avanti un negoziato è necessaria una forte dose di fiducia reciproca, bisogna superare pregiudizi, credere nella buona fede della controparte, esorcizzare la diffidenza che, nel caso specifico, riguardava oltre 35 anni di inimicizia. Tale è il periodo che ha diviso gli Stati Uniti dall’Iran. Bisogna infatti risalire all’arrivo di Khomeini a Teheran nel 1979, l’assalto all’ambasciata americana e la tenuta in ostaggio per 444 giorni di cittadini americani, il fallito tentativo di liberarli, lo scandalo Iran/Contras, l’abbattimento di un aereo civile da parte di un missile sparato dalla nave militare USA Vincennes nel luglio 1988.

Dopo la firma del negoziato la battaglia si è spostata sui rispettivi fronti interni. Tra tutti quelli, all’interno degli Stati Uniti, che vedono come un pericolo la riabilitazione dell’Iran (e qui sono entrate in gioco le lobby ebraiche pro-israeliane) e, sul fronte opposto a Teheran, la lotta fra conservatori e riformatori.

nethanyau
Benjamin Netanyahu

Lato americano (e israeliano)

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, nonostante l’opposizione del Congresso a maggioranza Repubblicana, il Presidente Obama è riuscito ad evitare che l’accordo con l’Iran potesse essere bloccato, respinto o soggetto ad ostracismo politico.

La lobby ebraica è particolarmente influente a Washington e tra queste spicca l’AIPAC (American Israel Public Affairs Committee), una lobby che muove voti e che sostiene finanziariamente le campagne elettorali di molti parlamentari americani. Per cercare di bloccare l’accordo l’AIPAC ha speso oltre 40 milioni di dollari. Ma, soldi a parte, è stato soprattutto il Premier israeliano Benjamin Netanyahu a fare propria questa battaglia politica. Un gioco pericoloso, risoltosi negativamente per l’interessato che forse ha sottovalutato quanto potesse essere controproducente l'ingerenza nel contrastare le decisioni di uno Stato sovrano, ancorché amico. Oltre alle note antipatie tra Netanyahu e Obama, bisogna anche dire che la maggioranza della comunità ebraica americana vota tendenzialmente per i democratici.

Quello di Bibi è stato un gioco pericoloso anche perché ha diviso la comunità ebraica americana. Infatti, un recente sondaggio del Los Angeles Jewish Journal ha evidenziato come il 49% degli ebrei americani sostenga l’accordo con l’Iran, mentre solo il 31% lo osteggia. E' emblematico come altri sondaggi paralleli che hanno coinvolto americani non ebrei mostrino livelli di scetticismo più alti sulla bontà dell’accordo.

Il nucleare israeliano


L’insistenza israeliana nel demonizzare la potenziale capacità nucleare futura dell’Iran rischia di porre all’attenzione del mondo l’arsenale nucleare che Tel Aviv oggi già possiede (ancorché mai ufficialmente ammesso) in deroga ad ogni regola internazionale. Un programma elaborato e sviluppato fin dagli anni ’50 con la compiacente disattenzione americana. Oggi Israele possiede circa 80 ordigni nucleari (più di quanti ne ha la Corea del Nord) che può trasportare e lanciare con aerei (F-15 e F-16), con missili (Jericho) e sottomarini (i 5 Dolphin forniti sinora dalla Germania). Un attacco atomico che può essere portato a grande distanza dal Paese.

La supremazia nucleare nella regione è divenuta assoluta visto che, all'occorrenza, sono stati soffocati sul nascere analoghi tentativi nei Paesi limitrofi. Lo testimoniano gli attacchi alle strutture irachene di Osirak nel 1981 e a quelle siriane di Deir Er Zor nel 2007. Ma quel che più conta è che Israele ha un sistema antimissile che rende alquanto improbabile il pericolo derivante da un attacco, nucleare o non, verso il proprio territorio.

Israele gode inoltre di sostegni finanziari nel campo della difesa da parte degli Stati Uniti che vanno ben oltre ai 3 miliardi di dollari annuali comunemente pubblicizzati e che comunque si compendiano in una miriade di collaborazioni tecniche bilaterali in campo militare. Visto anche sotto questo aspetto, la sistematica demonizzazione del potenziale programma nucleare iraniano da parte del Premier Netanyahu appare alquanto ingiustificata.

Colpisce anche il fatto che la battaglia politica a testa bassa del Primo Ministro israeliano non avesse previsto opzioni alternative, richieste che producessero benefici strategici ben oltre le profferte americane di “compensazioni”.


khamenei
Ali Khamenei


Lato iraniano

Per quanto riguarda invece il contesto politico interno iraniano, l’accordo mette ancora una volta l’una contro l’altra le due anime principali della teocrazia: i riformisti ed i conservatori. I primi sono favorevoli ad un'apertura del Paese al mondo, ad una società civile più aperta e democratica. I secondi, invece, sono arroccati sull’idea di un sistema teocratico osservante e accentratore in contrasto ideologico con il mondo esterno. E’ una situazione che oggi viene enfatizzata dal fatto che nel febbraio 2016 ci saranno le elezioni per il rinnovo dell’Assemblea Consultiva Islamica e dell’Assemblea degli Esperti, cioè di quell’organismo che, in prospettiva, avrà voce nella scelta del sostituto di Khamenei che oggi ha 74 anni.

L’unico dato certo, quello che dà oggi forza all’anima riformista del clero sciita, sono i vantaggi che l’accordo sul nucleare genera: via le sanzioni finanziarie (ed al recupero di circa 100 miliardi di dollari oggi congelati in banche straniere), la ripresa della vendita di petrolio (con tutti i benefici economici che la circostanza comporta), il recupero di un ruolo centrale nelle vicende politiche e militari nella regione senza più l’ostracismo internazionale.

Quest’ultimo aspetto ha la sua importanza non tanto per i timori che suscita nelle monarchie sunnite del Golfo ed in Israele, ma soprattutto perché gli Stati Uniti hanno soprattutto bisogno del sostegno iraniano in molte vicende regionali: la lotta contro l’ISIS, una soluzione al problema siriano, un ruolo di mediazione nelle vicende yemenite. L’Iran diventa così non più il problema, ma, auspicabilmente, la chiave per la risoluzione delle tante controversie aperte. L'accordo va oltre la specificità della questione nucleare ed incide in altre vicende regionali.

Chi ha paura dell'accordo?

Sul piano regionale l’ostilità proviene da tutti quei paesi che si sentono altrettanto minacciati da un Iran internazionalmente riabilitato. Non riguarda solo Israele, ma tutte le monarchie sunnite del Golfo. Questo giustifica la proposta americana di compensazioni: in campo militare per Israele e a livello politico/diplomatico per tutti gli altri al fine di tranquillizzare i vari partner locali.

Si è obiettato che l’accordo nucleare con l’Iran sia stato favorito anche dai singoli interessi delle altre nazioni che hanno partecipato al negoziato: la Russia voleva ritornare ad esercitare un ruolo centrale in Medio Oriente, la Germania e la rappresentanza europea perseguivano l’idea di futuri benefici economici con Teheran, la Francia – recitando un ruolo un po’ più fiscale – voleva accattivarsi le benemerenze dei Paesi del Golfo con cui recentemente ha sottoscritto diversi contratti nel settore della difesa. L’Inghilterra si è invece appiattita sulla posizione americana e la Cina, forse pensando ai suoi problemi interni con la dissidenza islamica dei Uiguri, si è discretamente allineata sugli interessi iraniani.

A parte ogni valutazione di merito sull’efficacia dell’accordo e sul fatto che Israele abbia estremizzato il pericolo nucleare iraniano, rimane da superare quella soglia di diffidenza che ancora oggi divide tutti gli aventi causa. Adesso la guerra è soltanto a parole. L'ayatollah Khamenei profetizza la scomparsa della “entità sionista” nei prossimi 25 anni, Netanyahu si riferisce all’Iran come ad un “regime terrorista”, gli Stati Uniti continuano a considerare Teheran uno Stato sponsor del terrorismo dal lontano gennaio 1984 ed in felice compagnia del Sudan e della Siria.

E come paradosso di un mondo che cambia sono proprio gli USA oggi a sperare che uno Stato “terrorista” come l’Iran li aiuti nella lotta contro il fondamentalismo islamico dell’ISIS o a risolvere quell'intricata situazione politica e militare di un altro Stato Canaglia: la Siria.

back to top