IRAQ : LA NEMESI DI UNA GUERRA INUTILE

Ahmed Abdel Hadi Chalabi
Nella notte tra il 19 ed il 20 marzo 2003 iniziava la seconda guerra del Golfo seguendo lo stesso rituale militare di quella precedente che aveva avuto inizio nella notte tra il 16 e 17 gennaio 1991 : il jamming elettronico per bloccare tutte le comunicazioni radio, lancio di missili per distruggere come prima priorita' il sistema di comando e controllo iracheno, la difesa aerea e poi la rete elettrica, bombardamenti aerei per colpire le unita' ed infrastrutture militari di Saddam Hussein, successivi bombardamenti sistematici per azzerare le infrastrutture civili del Paese (con la sola esclusione delle strutture petrolifere), infine l'invasione.
Stesso film, stessi risultati: nel 1991 la capitolazione dell'Iraq aveva avuto luogo dopo circa 45 giorni (28 febbraio 1991), quella del 2003 a meta' aprile aveva gia' decretato il collasso del regime baathista.
Ma come era avvenuto con la prima guerra del Golfo, anche nel 2003 gli Stati Uniti hanno dedicato tutta la loro attenzione agli aspetti militari del conflitto, senza essere pronti a fornire adeguate risposte a quello che poteva succedere nel Paese dopo il collasso della dittatura. La retorica del Presidente George W. Bush sull'esportazione della democrazia postulava gia' la risposta: gli iracheni avrebbero accolto gli americani come liberatori, un'opposizione democratica si sarebbe insediata al posto di Saddam, il terrorismo sarebbe sparito dalla regione. Anche qui c'era lo stesso approccio onirico del 1991, quando le forze americane non erano arrivate a Bagdad perche' tanto - era stata allora la valutazione di Bush padre - ci avrebbero pensato gli iracheni a sbarazzarsi del dittatore.
Sul fatto che Saddam Hussein fosse un tiranno brutale e sanguinario non esistevano dubbi, ne' ve ne erano altrettanti sul fatto che molti oppositori sarebbero stati contenti della sua defenestrazione.
Ma qui scatta il primo errore: gli Stati Uniti avevano fatto pieno affidamento sull'Iraqi National Congress (Al moutammar al Watani al Iraqi, INC), un'organizzazione che da Londra cercava di coagulare i membri dell'opposizione al regime baathista. Si trattava di una struttura che non rappresentava il popolo iracheno, ne' aveva tanto meno un forte radicamento nel proprio Paese.
La guidava un personaggio alquanto discutibile come Ahmed Abdel Hadi Chalabi, gia' noto negli anni '90 per un mandato di cattura internazionale da parte del governo giordano per il fallimento della Petra Bank, una banca locale. Chalabi era stato accusato di bancarotta fraudolenta ed aveva ricevuto una condanna di 22 anni di galera. Ma il tizio, di origine sciita, si era sempre proclamato innocente, si dichiarava vittima di una persecuzione politica quando comunque, dopo la sua fuga dalla Giordania, la banca non era stata in grado di rimborsare i propri clienti. I soldi erano spariti con Chalabi.
Con la formazione dell'INC si erano aperte per l'esponente sciita altre buone prospettive finanziarie. L'organizzazione era diventata oggetto di grossi finanziamenti da parte dell'Amministrazione americana, della C.I.A. e godeva di un occhio di riguardo da parte delle autorita' inglesi. Chalabi millantava contatti in Iraq, formulava soluzioni politiche per il dopo Saddam, provvedeva a fornire informazioni ai suoi finanziatori e mecenati attraverso tutta una serie di fonti che l'organizzazione gestiva in Iraq. Ovviamente le informazioni vertevano molto sui programmi di armi di distruzione di massa che poi, a guerra conclusa, risulteranno non esistere.
Ma Ahmed Chalabi voleva che fosse fatta la guerra a Saddam, cosi' come lo voleva Bush, le informazioni venivano pagate dalla C.I.A. e l'attivita' dell'organizzazione era diventata un florido business. In un momento in cui le autorita' americane cercavano una qualsivoglia scusa per attaccare l'Iraq, Chalabi forniva ai propri sponsor politici quello che loro desideravano sentirsi dire. Disinformazione piu' che informazioni? Per uno come Ahmed Chalabi questo non era certo un problema insormontabile dal punto di vista etico.
A parte gli interessi personali e finanziari dell'esponente sciita, il grosso problema risiedeva nel fatto che questa opposizione non aveva alcun peso nel Paese e quindi, una volta cacciato Saddam Hussein, non avrebbe avuto titolo e forza per imporsi alla guida del popolo iracheno. La vera opposizione al dittatore iracheno sedeva a Teheran, dove i leader sciiti erano in esilio e, una volta rientrati nel Paese e come poi e' realmente avvenuto, avrebbero avuto piu' affinita' col regime degli Ayatollah che non con gli americani.
Ma veniamo al secondo errore: la guerra a Saddam ha distrutto quasi tutte le infrastrutture civili del Paese incidendo sulla qualita' della vita dei suoi cittadini. Elettricita' a lungo inesistente e poi razionata, la benzina comprata al mercato nero (paradosso per una nazione tra i maggiori produttori di petrolio al mondo), sistema idrico e fognario al collasso, ponti e strade distrutte, ospedali inagibili. Poteva anche essere vero che gli iracheni avrebbero accolto gli americani come liberatori, ma poi si aspettavano che il Paese sarebbe stato nuovamente ricostruito. Ma anche qui gli americani hanno pensato piu' agli aspetti militari dell'invasione che non ai risvolti civili successivi. Ed allo stato attuale, dopo 10 anni la ricostruzione del Paese non e' ancora operante.
Poi, una volta effettuata l'invasione, gli Usa hanno nominato un proconsole come Paul Bremer - diplomatico di carriera - deputato a condurre l'amministrazione del Paese nella transizione dalla dittatura ad una nuova autorita' irachena (guidava la Coalition Provisional Authority, C.P.A., un insieme di strutture che coprivano tutti le funzioni governative) ed hanno subito fatto un altro terzo errore, forse quello piu' grave: tutti quelli che appartenevano al partito Baath e tutti i quadri militari sono stati automaticamente radiati ed esclusi da qualsivoglia impiego governativo a partire dal 23 maggio 2003, data in cui l'esercito iracheno e' stato sciolto e dichiarato illegale. Compresi nell'ostracismo anche i membri delle Corti di Sicurezza e del Comitato Olimpico.

Paul Bremer
A parte il fatto che l'iscrizione al Baath era molte volte determinata da questioni di opportunita' (un po' come era avvenuto in Italia per il fascismo per cui gli insegnanti, per potere esercitare il loro mestiere, erano costretti ad iscriversi al fascio) e quindi non rappresentava, almeno per la maggioranza della popolazione, un indizio di colpa o di collusione con la dittatura, ma quello che piu' era grave era l'impatto sulla societa' che questa direttiva ha comportato. Intanto, come aveva fatto Saddam con gli sciiti, adesso l'ostracismo colpiva i sunniti. Ruoli invertiti, stessa filosofia sociale. Poi, in un Paese in cui l'esercito rappresentava una forma di impiego su cui si strutturavano le economie di molte famiglie, si e' improvvisamente determinata una condizione di disagio sociale per gli aventi causa.
Su una popolazione, nel 2003, di circa 24 milioni di abitanti, di cui 6,1 milioni di uomini tra i 15 ed i 49 anni (quindi arruolabili all'impiego militare), c'era un Esercito in armi di circa 390.000 uomini, a cui aggiungere 20.000 dell'aviazione ed oltre 100.000 tra poliziotti e sicurezza. A questi bisognava aggiungere 600.000 riservisti ed i paramilitari. Questo per dire che l'editto di Bremer, a torto o a ragione, ha messo sul lastrico qualcosa come un milione di famiglie, ovvero 4-5 milioni di persone. Se lo stesso calcolo era esteso agli impiegati governativi: nel 2003 il 20% della popolazione era occupata stabilmente in impieghi governativi a cui aggiungere il 21% in posizione di precariato. Un dramma sociale.
E questo errore di Paul Bremer ha generato un paradosso: un Paese retto da una dittatura crudele e sanguinaria, ma esente dal fenomeno terroristico e' diventato il baricentro del terrorismo - islamico e non - veicolato e sostenuto da quella parte della popolazione, in maggioranza sunnita, ora emarginata socialmente, senza mezzi di sostentamento economici e che ha trovato nella lotta agli americani e contro la emergente teocrazia sciita motivi di rivalsa e di risentimento. Cosi', in una spirale sempre piu' negativa, la popolazione irachena non solo non ha trovato piu' luce, acqua o benzina nella sua quotidianita', ma ha perso un altro elemento che garantiva la convivenza sociale: la sicurezza.
Saddam Hussein, con tutti i difetti che aveva, non garantiva la liberta', ma almeno la sicurezza si'. E qui si innesca anche un altro discorso di contenuto esistenziale: democrazia e liberta' sono due concetti di cui se ne apprezza il valore solo se ne viene percepita l'importanza. E' un valore culturale che si assimila nel tempo a fronte di esperienze personali che nel caso iracheno, diciamo meglio nella storia irachena, non esistevano. Alla fine di una dittatura si genera un autoritarismo (come sta adesso avvenendo a Bagdad) e la liberta' si tramuta in anarchia o caos sociale (altro parametro attuale dell'Iraq).
La cacciata di Saddam Hussein, in assenza di una credibile alternativa politica, ha portato alla luce tutte quelle contraddizioni della societa' irachena che il dittatore, manu militari, era riuscito a fronteggiare: il dissidio sunnita-sciita, la secessione curda.
Lo scontro tra sunniti e sciiti era l'inevitabile conseguenza del fatto che la minoranza sunnita deteneva tutti i posti di potere nell'ambito della dittatura baathista, mentre gli sciiti, maggioranza religiosa del Paese, erano nel contempo emarginati. La guerra ha invertito i ruoli e rimpiazzando una ingiustizia sociale con un'altra: i sunniti emarginati, gli sciiti al potere. Ma se ai tempi di Saddam l'ingiustizia sociale era perseguita con la forza delle armi, nel caos conseguente alla guerra non esistevano piu' forze in grado di imporre soluzioni di questo tipo, anche perche' l'esercito era in mano ai sunniti e questo gruppo ha portato la sua esperienza militare e le armi nelle file dell'opposizione e della guerriglia. Con l'appoggio americano ed inglese si e' cercato di ricostruire una forza militare nazionale a guida sciita, ma con risultati alquanto deludenti.
E questo del costituendo nuovo esercito iracheno e della sua impotenza che dura tuttora e' un fatto emblematico dell'impreparazione americana ad affrontare problematiche cosi' complesse. All'inizio gli americani impediscono alle autorita' irachene di ricostituire i ministeri, ma soprattutto il Ministero della Difesa le cui competenze restrano in mano alleata nell'ambito della C.P.A.. Nel giugno del 2004 , rendendosi conto che questo approccio si stava rivelando controproducente, cambiano atteggiamento, sciolgono la C.P.A., viene varato un governo iracheno ad interim e viene creato il I.R.M.O. (Iraqi Recontruction and Management Office) che affianca (e controlla) tutti gli organismi deputati a svolgere le funzioni ministeriali e provvede al finanziamento della ricostruzione del Paese. In pratica ogni ministero viene messo sotto tutela di un team internazionale (quasi sempre di matrice anglo-americana).
In questo contesto si decide poi, con molte riserve e titubanze, di ricostituire anche per il Ministero della Difesa. Il dicastero viene riempito di quadri militari senza esperienze militari, con gradi molte volte oggetto di mercimonio, familismo o nepotismo. Vi si nomina un Ministro civile sciita (senza sufficiente background militare), un Segretario Generale un curdo di Massoud Barzani, nomina poi bilanciata nelle funzioni di intelligence militare da un curdo di Jalal Talabani (i curdi erano gli unici, oltre ai sunniti, ad avere qualificazioni militari per le esperienze delle loro unita' di peshmerga, ma ovviamente non erano certo interessati alla ricostruzione dell'esercito iracheno che aveva sempre combattuto la loro voglia di indipendenza). Ma il problema non risiedeva nelle scelte sbagliate ai vertici del dicastero, ne' nelle scarse cognizioni militari dei suoi quadri, ma nella diffidenza degli americani che non si fidavano degli iracheni. Ecco allora si provvede ad uno pseudo addestramento dei quadri militari non in grado di confrontarsi professionalmente con l'opposizione armata sunnita (a questa incombenza presiedeva il generale David Petraeus poi diventato famoso sia per la carriera militare esponenziale che per la sua nomina e caduta ai vertici della C.I.A.) evitando pero' accuratamente di fornire alle nuove unita' del neo-costituendo esercito iracheno armamento adeguato. Se oggi l'opposizione armata sunnita continua a perpetrare attentati e sabotaggi, molto si deve a queste premesse del 2004.
Ma l'estromissione dei sunniti ed il loro passaggio nelle file dei ribelli ha creato anche una saldatura tra questa comunita' e le bande jihadiste di Al Qaeda (da non dimenticare che quest'ultima organizzazione e' di matrice sunnita). E' un sodalizio militare che dura tuttora.
Con l'avvento di una dirigenza sciita in Iraq sono cambiati anche gli equilibri e le alleanze nel Medio Oriente che hanno prodotto un rafforzamento dell'Iran. Anche qui colpisce l'improvvisazione americana. Era fatale che se in Iraq si combatteva una dittatura sunnita e la si sostituiva con una autorita' sciita, questa circostanza avrebbe prodotto un avvicinamento tra Bagdad e Teheran soprattutto in virtu' dei legami che intercorrevano tra l'opposizione sciita a Saddam ed il regime degli Ayatollah. Se poi questa problematica la si analizza in un quadro geo-strategico, era altrettanto ovvio che in un Medio Oriente dagli equilibri notoriamente precari, la scomparsa di una forza militare e l'avvento del caos sociale avrebbero sicuramente favorito gli appetiti e le aspirazioni di altri Paesi. E non appariva difficile intuire che le aspirazioni egemoniche dell'Iran ne avrebbero guadagnato. Del resto e' sempre lo stesso Iran che gli americani contrastavano anni prima fornendo armi e supporto a Saddam Hussein.
Per quanto riguarda il problema curdo, gli unici reparti che hanno combattuto Saddam Hussein mentre era al potere sono state le milizie dei peshmerga. Le stesse milizie hanno poi aiutato gli americani a sconfiggere il dittatore iracheno. A fine guerra sono riaffiorate tutte le aspirazioni indipendentistiche di questa comunita'. Anche se ufficialmente il sogno di un Kurdistan iracheno indipendente non e' al momento giuridicamente realizzabile, i curdi sono oggi nominalmente iracheni, ma materialmente indipendenti. E' una indipendenza de facto, favorita dalle debolezze delle autorita' sciite a Bagdad ancora coinvolte in una guerra civile contro i sunniti. Una debolezza adesso nascosta da una formula ambigua che considera il Kurdistan una "regione federale". Si puo' obiettare che il Presidente dell'Iraq e' ancora oggi il curdo Jalal Talabani, ma questo, nel gioco delle parti, non ha alcun significato probatorio di una fedelta' curda alla casa madre.
I curdi iracheni hanno i soldi che gli derivano dai proventi petroliferi, i peshmerga garantiscono la sicurezza dell'enclave, attraggono investimenti stranieri e soprattutto turchi, stanno diventando una entita' statuale a tutti gli effetti. Anche qui la domanda da porsi e' se gli Stati Uniti avessero previsto questa circostanza, ovvero se questa si e' prodotta grazia alla disattenzione - direi meglio miopia - politica americana. Oggi i turchi vedono nel Kurdistan iracheno uno sbocco commerciale ai loro prodotti, ma il problema della creazione di uno Stato curdo e' uno degli elementi di politica interna che Ankara teme di piu' risiedendo nel proprio territorio la maggioranza di questa comunita'. Si rischia che l'attuale autonomia del Kurdistan iracheno possa avere un effetto trainante sulle aspirazioni indipendentistiche di tutti i curdi del Medio Oriente. E questa regione di tutto ha bisogno che di altri motivi di instabilita'. Anche se - bisogna dirlo - l'evoluzione della posizione del P.K.K., le dichiarazioni di Abdullah Ocalan ed i negoziati in corso potrebbero far ben sperare per una soluzione positiva dell'annoso problema. Ma c'e' anche il rischio che il Kurdistan iracheno diventi la prima e unica patria per i curdi.
Ma quello che e' avvenuto o sta avvenendo adesso non era certo prevedibile ne' ipotizzabile nel 2003, tanto meno dagli U.S.A..
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Abdullah Ocalan
Qualcuno potra' obiettare che comunque una guerra che toglie dal mondo un regime ed un personaggio sanguinario come Saddam Hussein e' una guerra giusta, che valeva la pena di essere combattuta. In linea di principio questa potrebbe essere un'affermazione corretta solo nel caso in cui la politica estera dei Paesi del mondo fosse sempre animata dai principi della giustizia internazionale e non da interessi nazionali. Ma come e' ovvio constatare, questa circostanza non ricorre mai. Nel caso dell'Iraq c'erano poi in ballo delle motivazioni strettamente personali (il risentimento della famiglia Bush verso il dittatore), valutazioni di egemonia mondiale e regionale, il controllo e gli interessi sulla produzione petrolifera del Paese. Quest'ultimo obiettivo dell'Amministrazione americana fa sorgere forti dubbi sulla liceita' di una guerra. Se veramente la comunita' internazionale (o gli americani che talvolta si assumono questo onere) decidesse di fare guerra a tutti i dittatori tuttora in servizio attivo, non basterebbero tanti eserciti e tante guerre a combatterli tutti.
Se un bilancio della Guerra in Iraq deve essere fatto bisogna necessariamente raffrontare quello che la guerra e' costata in termini di sacrifici umani e finanziari e quello che effettivamente si e' ottenuto.
Circa 5000 soldati alleati morti (di cui 4488 americani), 32.000 feriti, 200.000 vittime civili irachene (su un totale di circa 1 milione di morti tra cui 950 cristiani trucidati in attacchi a 57 chiese caldee), 2200 miliardi di dollari spesi per ottenere cosa?
L'Iraq di oggi e' un Paese percorso da instabilita' e guerriglia, con attentati su base giornaliera, frammentato e diviso tra curdi, sciiti e sunniti, non ancora ricostruito, asservito agli interessi iraniani, percorso ancora - come ai tempi di Saddam - dalla corruzione e dal nepotismo di una nuova casta sciita. Basterebbe adesso rammentare che nel giorno del decennale della guerra in Iraq, nel Paese ci sono stati 61 morti ed oltre 200 feriti. E nel 2012 le vittime di attentati sono state quasi 5000. Nel furore che vede crescere il numero dei morti ammazzati bisogna aggiungere anche i 130 condannati a morte giustiziati dalle autorita' irachene lo scorso anno ed i 18 che hanno subito la stessa sorte in marzo. In deroga alle richieste internazionali, ma in linea con quel percorso di sangue che sembra non finire mai nell'Iraq del dopo Saddam.
Era questa la "mission accomplished" dichiarata dal Presidente George W. Bush il 1 maggio 2003 sulla portaerei Abraham Lincoln? O e' questo l'Iraq che prefigura il Segretario alla Difesa americano Chuck Hagel quando ha dichiarato nei giorni scorsi che "la guerra e' stata completata"?