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IMMIGRAZIONE CLANDESTINA E LA SOLUZIONE CHE NON C'E'

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La strage del mare del 3 ottobre 2013, che ha visto a poche miglia da Lampedusa l'inabissamento di un battello con quasi 500 migranti a bordo e ed oltre 300 morti, ha riproposto alle coscienze di molti, questa volta anche a quelle dei politici, il problema dell'immigrazione clandestina. Parole come "vergogna" e "orrore" sono state ricorrenti, ma al di la' delle manifestazioni di sdegno o risentimento, il problema e' di difficile soluzione.

Intanto bisogna dire che l'episodio del 3 ottobre e' stato quello mediaticamente piu' enfatizzato, ma da un po' di anni a questa parte di incidenti simili, in vari punti del Mediterraneo, ce ne sono stati tanti, sicuramente troppi. Le statistiche, per quel che valgono nel caso di un fenomeno sociale che sfugge ad un controllo puntuale, indicano che negli ultimi anni i morti affogati sono stati circa 8/10.000. Potrebbero essere di piu', ma e' difficile stabilirlo. E' una statistica fatta su informazioni vaghe, racconti di superstiti, cadaveri trovati in mare.

A parte le cifre, rimane il problema di un esodo biblico che vede gente scappare dai propri Paesi per coltivare una speranza o un sogno, per sfuggire ad una guerra, per sopravvivere ad una poverta' senza dignita'. E come tutti i fenomeni migratori motivati dalla disperazione sociale, non esistono modalita' per fermarli o altre forme adeguate per fronteggiarli.

Una posizione scomoda

L'Italia si trova in una posizione geografica che la pone in prima fila e come primo obiettivo di arrivo, magari per il solo transito, di questa marea di disperati che vogliono raggiungere l'Europa. Ed e' soprattutto il Paese di primo approdo per i clandestini che vengono dall'Africa sub-sahariana. Perche' tra le tante migrazioni quella africana e' la piu' povera, fatta di gente che non ha mezzi finanziari sufficienti per permettersi un mezzo di trasporto sicuro e ricorre quindi al rischio di attraversare il mare stipati su barche di fortuna, senza limiti al rischio che corrono. Lampedusa e le coste meridionali della Sicilia sono il terminale di questi viaggi della speranza, ma sarebbe meglio dire della disperazione.

Il fenomeno del flusso migratorio ha ripreso ultimamente livelli altissimi per motivi legati ai rivolgimenti sociali che hanno percorso il nord Africa ed il Medio Oriente. La base di partenza e' generalmente la Libia e, dalla caduta di Ben Ali, in linea subordinata anche la Tunisia. Per quanto riguarda la Libia, durante il regno di Muammar Gheddafi il problema dell'immigrazione clandestina era stato utilizzato dal dittatore libico per un'ampia opera di ricatto finanziario e politico verso l'Italia. Lo aveva detto anche il Rais durante la sua storica prima visita in Italia: sono clandestini per miseria (lui ci teneva molto a puntualizzare che non erano rifugiati politici, di cui il suo Paese negava l'esistenza per ovvi motivi di suscettibilita' interna) e ve li mandiamo tutti. Questo per puntualizzare che non aveva interesse a tenerseli in Libia e che se lo faceva voleva una contropartita.

Infatti, dopo la firma del trattato italo-libico del 2008 e dopo aver ottenuto un adeguato "risarcimento" finanziario, il dittatore si era dichiarato disponibile ad operare nel contrasto all'immigrazione clandestina. Erano state mandate 3 motovedette della Guardia di Finanza (poi diventate 6) per un pattugliamento congiunto delle coste libiche e per il contrasto al fenomeno dell'immigrazione clandestina (motovedette - bisogna ricordarlo - operanti comunque con equipaggi libici e con bandiera libica), il ministero dell'Interno aveva dislocato a Tripoli dei funzionari di Polizia come collegamento con gli omologhi locali ed era iniziato un flusso abnorme di risorse (soldi, mezzi, corsi, addestramenti, equipaggiamenti ecc.) verso la Libia. Il costo complessivo nel biennio 2008-2010 si aggirava sull'ordine di 60 milioni di euro. Il risultato era che la Libia aveva alla fine accettato il principio del respingimento, cioe' si riprendeva indietro i clandestini che le pattuglie italiane e poi quelle italo-libiche intercettavano in mare.

La vergogna dei respingimenti

Il 6 maggio 2009 avveniva cosi' il primo respingimento. Chi scrive quel giorno era presente sul molo commerciale di Tripoli ed e' stato testimone di un dramma umano. Ai clandestini era stato nascosto il loro rientro in Libia e quindi la prima reazione fu di stupore. Poi di dolore. Qualcuno piangeva, qualcun altro aveva pensato di ribellarsi e di scendere dalle motovedette italiane. Subito iniziarono i maltrattamenti da parte degli apparati di sicurezza libici. Frustate e botte colpirono da subito i piu' riottosi. La gente fu trascinata di peso fuori dalla barca e gettata a calci dentro dei container: uno per le donne, uno per gli uomini. Uomini disidratati giacevano distesi sulla banchina senza la forza di reagire o di muoversi, stremati. Accanto a loro delle donne incinte accasciate per terra. Nessuno si preoccupava di assisterli. Tutta gente poi sparita nel nulla di cui l'Italia non ha piu' chiesto notizie. Gente buttata nei centri di detenzione libici, una ventina operanti nel Paese, e rispedita nell'inferno da cui avevano cercato di scappare.

L'Italia politica aveva allora etichettato la pratica dei respingimenti come un successo politico nel contrasto all'immigrazione clandestina senza invece accorgersi che si trattava di un'iniziativa di cui vergognarsi. Ben si guardava dal chiedere che fine facessero i clandestini. Preferiva non sapere per non sentirsi responsabile di eventuali abusi. Si arrivava al paradosso di dichiarare che i clandestini fermati in mare non avevano formalizzato mai una richiesta di asilo (ma non sapevano di essere riportati in Libia).

L'unico dato certo e' che la politica dei respingimenti aveva nei fatti bloccato, meglio ridimensionato, il numero dei viaggi della speranza.

Poi c'e' stata la guerra civile, Muammar Gheddafi e' stato ammazzato, il Paese e' entrato in una spirale di instabilita' che ancora non ha avuto termine. I clandestini che l'Italia aveva a suo tempo respinto, a cui poi si erano aggiunti altri in arrivo, si erano inopinatamente cosi' trovati nel bel mezzo di una guerra civile. Il fatto che il Rais avesse fatto ampio ricorso a mercenari africani per contrastare i ribelli, aveva poi determinato che questi poveri clandestini, una volta defenestrato il dittatore, si erano trovati nella scomoda posizione di essere talvolta accusati di essere dei mercenari al soldo del pregresso regime. Di questa parte della loro storia, le sofferenze e le morti causate da questi equivoci, nessuno ha mai parlato. Anche perche' la caduta di Gheddafi favorita dall'intervento di forze internazionali, non poteva essere politicamente delegittimata dalle vendette o dai soprusi dei ribelli. Si era combattuto per affermare la liberta' e la democrazia dei libici, era stato cacciato un despota che aveva violato ripetutamente i diritti umani, non ci si poteva soffermare, ma soprattutto non c'era interesse, a fare emergere altrettante violazioni che i ribelli perseguivano sia verso i connazionali vinti, sia verso i poveri clandestini.

Back to business

Lentamente la situazione in Libia, almeno per quanto riguarda il risentimento verso i clandestini di pelle nera, e' diminuita nel tempo ed e' riaffiorato, questa volta piu' florido, il traffico di esseri umani. Perche' - e' bene ricordarlo - il traffico di clandestini e' si' una piaga sociale, ma e' soprattutto un business internazionale. Nonostante la guerra civile libica, le strutture dell'immigrazione clandestina erano rimaste in essere in Sudan, luogo dove confluiscono i clandestini prima di approssimarsi alle coste mediterranee. Allora, vista la situazione in Tripoli, come business collaterale le organizzazioni criminali si erano dedicate al trasferimento dei clandestini eritrei nel Sinai con destinazione Israele.

La Libia di oggi e' tuttora avvolta in una situazione di instabilita', le milizie armate spadroneggiano nel Paese, la Polizia libica non ha nessun potere coercitivo, bande di delinquenti (quelli liberati dalle carceri durante la guerra civile) sono tuttora in giro e questo ha fatto si' che la filiera dei trafficanti abbia ripreso ad operare in forma piu' aperta che in passato. Quelle strutture illegali che Gheddafi prima incoraggiava (quando voleva ricattare l'Italia) e poi combatteva (quando voleva assecondarla) sono adesso ricomparse in piena operativita'. Agevolate dal caos sociale, dalla corruzione endemica che la guerra civile non ha debellato ma rafforzato, dalla commistione tra bande-milizie-trafficanti, dai poliziotti che (peraltro come in passato) trovano il loro tornaconto finanziario nel favorire questi traffici e dalla collusione di politici (alcuni alti esponenti governativi provengono - forse non casualmente - dalla zona di Zuwarah che e', de facto, la "capitale" o principale base di partenza delle barche di clandestini).

Cambiata la situazione interna in Libia, cambiati anche i referenti con cui l'Italia dialogava nel contrasto all'immigrazione clandestina, il nostro Paese non ha inteso cambiare approccio rispetto al fenomeno. Continua a ritenere che nel flusso di immigrati non vi sia, rispetto al passato, piu' presenza di rifugiati che scappano da guerre e dittature. Non e' soprattutto cambiata l'idea che il problema dell'immigrazione clandestina possa risolversi con i respingimenti. La presenza di funzionari di Polizia italiana sul suolo libico e' stata mantenuta (era stata anche incrementata, ma ragioni di sicurezza hanno consigliato diversamente). 5 delle 6 motovedette donate sono state affondate nel corso della guerra ma ora si parla di ripescarle nel perseguito interesse a ripristinare il pattugliamento congiunto. E' anche ricominciato l'afflusso di corsi, incontri bilaterali, finanziamenti, regalie. Anche se adesso, a differenza del passato, e' difficile trovare in Libia degli interlocutori affidabili ed una correlata cooperazione.

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Frontex, l'inutile

Nella pratica prevale ancora, da parte italiana, un approccio "repressivo" dello specifico fenomeno. Ne fanno fede, qualora esistessero dei dubbi, le dichiarazioni che il 4 ottobre 2013 il Ministro dell'Interno italiano, Angelino Alfano, ha fatto a Lampedusa evocando un rafforzamento dell'attivita' di "Frontex", l'agenzia di cooperazione europea per il controllo delle frontiere esterne all'Unione. E' un organismo che oggi svolge un pattugliamento marittimo del Mediterraneo anche per contrastare il fenomeno dell'immigrazione clandestina. Un dispiegamento di navigli, aerei, elicotteri, radar che non produce, anche per scarsa attitudine politica e la mancanza di impegno di molti Paesi europei, risultati.

Ma lo sbaglio non sta nell'inefficienza di "Frontex", ma nell'approccio alla problematica nel suo complesso. L'affermazione del Ministro dell'Interno italiano a Lampedusa e' stata nella sostanza questa: se si rafforza l'attivita' di "Frontex", si evitano e si contrastano i viaggi di clandestini in mare. Ergo ci saranno meno morti. L'equazione ha la sua logica matematica, ma trascura l'essenza del problema. La disperazione della gente non pone limiti a questi esodi ed ai rischi che l'utilizzo di barconi fatiscenti comportano. E' gente che scappa dalla poverta' e da soprusi, d'inverno ha attraversato i deserti libici e d'estate attraversa i mari, ha affrontato abusi, ruberie e stupri e coltiva la speranza di una vita migliore. Sa quello che lascia - e questo gli da' la forza per affrontare i rischi di questa transumanza - ma poi non sa quello che trovera'. Puo' trovare la morte, come e' capitato spesso, ma puo' anche trovare l'emarginazione che la aspetta all'arrivo.

Ed il problema e' tutto li'. L'Italia e l'Europa devono rendersi conto che il problema dell'immigrazione non si debella con la repressione e la politica dei respingimenti, ma solo riuscendo a contenere il fenomeno in una cornice di legalita' e regole senza disattendere quella solidarieta' dovuta a tutti quei drammi umani di cui e' pieno il mondo. In altre parole il fenomeno non puo' essere bloccato, ma solo pilotato ed indirizzato. La legge n. 189 del 30 luglio 2002, meglio conosciuta con il nome dei due ministri co-firmatari Bossi-Fini, prefigura il reato di immigrazione clandestina e l'espulsione del clandestino. E' una legge che si sviluppa nel solco "repressivo" (un po' come i respingimenti in mare) i cui limiti applicativi sono sotto gli occhi di tutti. Come si e' detto, e' un approccio sbagliato che puo' anche dare effimeri risultati in un lasso di tempo breve, ma non risolve il problema nel lungo periodo.

Ma allora, ed e' questo il quesito di fondo, cosa si puo' o si deve fare per risolvere questo problema? Se il clandestino non si riesce a convincerlo a non rischiare la vita su una barca che puo' affondare, se non puo' essere respinto perche' cosi' gli si infliggono altre sofferenze, se si vuole evitare che una volta sul suolo europeo sia socialmente emarginato o viva nell'illegalita', cosa bisogna fare?

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La ricerca di soluzioni

La soluzione risiede soprattutto a livello europeo. La prima iniziativa e' sul piano giuridico: una legge europea che valga per tutti i Paesi aderenti e che stabilisca un percorso comune e legalmente definito per l'ingresso dei migranti (cosi' da stabilire senza equivoci quando e come si manifesta l'illegalita'), la concessione di cittadinanze, i ricongiungimenti familiari, le pene per i trafficanti, l'applicazione di tutte quelle tutele internazionali che vengono riservate ai rifugiati ed ai richiedenti di asilo.

La seconda iniziativa e' sul piano assistenziale: il profugo non puo' arrivare in un Paese e trovarsi poi costretto a vivere illegalmente ai margini della societa'. Ha bisogno di essere seguito in un percorso di inserimento. Ha bisogno di aiuto sociale (capire le regole di dove vive adesso, parlare una lingua ecc.) e di sostegno finanziario finche' non sara' in grado di essere socialmente autonomo. Insomma, ha bisogno di strutture dedicate. Questo avviene in molti Paesi europei, ma non in tutti. Gli standard di accoglienza ed integrazione dovrebbero essere allineati. Cosi' come andrebbe superata la Convenzione di Dublino, un obbrobrio giuridico che vincola i richiedenti asilo al primo porto di arrivo - nel caso specifico Lampedusa e l'Italia - senza dargli la possibilita' di scegliere autonomamente il proprio destino. Il risultato ultimo e' quello di spingerli ulteriormente verso percorsi di illegalita', magari per raggiungere parenti o amici in altri Paesi Ue.

Poi e' possibile anche una terza forma di intervento che e' quella a suo tempo prefigurata dal governo di Romano Prodi quando decise di creare sul suolo libico strutture di accoglienza per i clandestini. Era stato finanziato un ospedale a Kufra, mentre altre strutture equivalenti non hanno poi mai visto la luce. Partiva dalla filosofia che invece di assistere i clandestini in Italia, era meglio assisterli in Libia. Un progetto per molti aspetti utopico anche perche' consegnato ai libici e da loro gestito senza che - oggi come ai tempi di Gheddafi - avessero acquisito una sufficiente sensibilita' per il rispetto dei diritti umani. C'e' ancora in quella parte di mondo arabo una diffusa cultura che vede l'africano sfruttato e vilipeso. Non tanto razzismo, ma pseudo-schiavismo. Pero' il progetto Prodi, benche' concettualmente giusto ma praticamente inattuabile, aveva il pregio di sollevare il problema delle condizioni dei clandestini prima del loro viaggio in mare.

L'Europa potrebbe fare qualcosa di simile, cioe' affrontare la problematica prima di risolverla sul proprio territorio. Se non e' possibile intervenire nei Paesi di origine per scongiurare l'immigrazione (difficile pensare di farlo nella Somalia di oggi o nell'Eritrea del dittatore Isaias Afeworki), e' forse possibile farlo in alcuni Paesi di transito. In Libia, per esempio, potrebbe pensarci la locale sede dell'ACNUR (Alto Commissariato Onu per i Rifugiati) a selezionare i richiedenti di asilo o istituire le pratiche per una richiesta di accesso all'area europea (con supporto finanziario europeo). La sede libica dell'organizzazione internazionale, ai tempi di Gheddafi, operava a Tripoli senza il riconoscimento ufficiale del governo libico (come detto il Rais aveva una forte avversione per il termine "rifugiato). Oggi potrebbe essere diverso.

Nella pratica, le migrazioni si devono affrontare con un mix di provvedimenti giuridici, assistenza, solidarieta', ma soprattutto umanita'. Perche' e' un fenomeno da capire e non da demonizzare. Lo spazio per la repressione deve essere ridotto al minimo. E soprattutto l'approccio deve essere affrancato dalle strumentalizzazioni e retoriche politiche che spesso l'accompagnano: il "buonismo" inconcludente di facciata e la xenofobia di un malcelato razzismo.