IRAN, IL NUCLEARE DELLA DISCORDIA

Centrale nella provincia di Bushehr
C'è
sempre un sottofondo di ipocrisia quando si parla di armi
nucleari, delle limitazioni al loro uso o acquisizione, al diritto
o meno di svilupparne la tecnologia. Il settore è infatti regolato
da un Trattato di Non Proliferazione Nucleare, sottoscritto nel
luglio del 1968 da tre Paesi già dotati di armi atomiche, Unione
Sovietica, Stati Uniti e Inghilterra, a cui poi, nel 1992, si sono
aggiunti Francia e Cina. Il trattato parte dal presupposto che chi
aveva l’arma nucleare se la potesse tenere, mentre gli altri non
dovevano averla. Un dettame asimmetrico in 11 articoli, al cui
articolo 1 si vieta ai possessori di armi nucleari di trasferire
tali ordigni in altri Paese, o di fornire assistenza nel
costruirli. All’articolo 2 si obbliga i non-possessori a
sottoscrivere una dichiarazione di rinuncia al perseguimento di
armi nucleari.
Il risultato di questa disparità di trattamento ha portato ad
alcune nazioni non firmatarie dell'accordo, come India, Pakistan,
Corea del Nord e Israele, a dotarsi di bombe atomiche in deroga ai
controllo internazionali. Ad alcuni altri, invece, come Iraq e
Libia, è stato imposto il blocco di ogni velleità nucleare. Oggi
tocca all'Iran. Se l'obiettivo di impedire a Tehran l'acquisizione
di armamenti nucleari nel nome della pace nel mondo, l'iniziativa
è sicuramente pregevole. Tuttavia, in un'ottica di equo
trattamento internazionale, non si vede perché in alcuni casi si
sono chiusi entrambi gli occhi, mentre nel caso iraniano deve
essere imposto un veto.
Un veto discutibile
E' alquanto discutibile, inoltre, che sia proprio Israele, non
firmataria del Trattato di Non Proliferazione, a fare da arbitro
in Medio Oriente. Nel 1981 si sono attribuiti il diritto di
bombardare la centrale nucleare irachena di Osirak, analoghi raid
sono stati effettuati a più riprese in Siria, giudicando gli
altri, senza che altri potessero giudicare loro. Inoltre, ai tempo
dello Shah Mohammad Reza Pahlavi erano stati proprio gli
israeliani, nella persona di Shimon Peres, ad offrire agli
iraniani il know-how nucleare, sia civile che militare. Lo stesso
aveva fatto Tel Aviv con il Sud Africa ai tempi dell'apartheid.
Israele rivendica, pur non riconoscendo i vincoli internazionali
imposti dai trattati, il suo personale diritto ad impedire che
l’Iran possieda armi o tecnologie nucleari nel nome della propria
incolumità e sopravvivenza. Ma è più pericolosa per Tel Aviv una
bomba nucleare in mano agli ayatollah o nel caos politico a
rischio deriva islamista in Pakistan? Il concetto alla base del
Trattato di Non Proliferazione è giusto: meno bombe atomiche ci
sono nel mondo e meglio è. Tuttavia, il fatto che soltanto poche
nazioni possano usare le armi nucleari come un deterrente in
politica estera è altrettanto inquietante.
Sicuramente la bomba atomica israeliana garantisce la
sopravvivenza di Israele. Nel contempo ostacola, ovvero rallenta,
ogni possibile processo di pace con gli altri attori regionali.
Ponendo Tel Aviv in una posizione di forza, non lascia spazio
alcuno a concessioni di sorta. Benjamin Netanyahu impersonifica
l’intransigenza di chi si sente più forte, forza che condiziona in
maniera spiccata ogni anelito negoziale, non concede, ma pretende
nell’illusione, errata, che Israele possa sopravvivere senza
alcuna forma di convivenza con i Paesi limitrofi o con i
palestinesi solo perché più forte.
In questo quadro, l’accordo tra l’Iran e gli Stati Uniti è una
sconfitta per Israele. Non tanto per i termini dell’accordo,
ancora da stabilire nei dettagli tra le parti in causa, ma per il
principio politicamente implicito nell'esistenza stessa di un
accordo negoziato con Tehran. In primo luogo si accetta l’idea che
l’Iran possa comunque dotarsi di tecnologia nucleare per scopi
civili. In secondo luogo, si accetta che Tehran torni a pieno
titolo nel consesso internazionale e ritorni a recitare nel
prossimo futuro quel ruolo di potenza militare ed economica che
gli compete in Medio Oriente. L'antica Persia con oltre 77 milioni
di abitanti, quarto produttore mondiale di petrolio, circa il 16%
di riserve mondiali di gas, tornerà a splendere.
In altre parole, l'accordo cambia radicalmente la fisionomia
geo-strategica della regione. E se tutto questo preoccupa Israele
non è tanto per l’eventualità di un ordigno nucleare, ma per
quella influenza che un'Iran egemonico potrà esercitare sugli
equilibri mediorientali. Tra le due conseguenze, la seconda è
decisamente la più preoccupante per gli israeliani. Il pensiero va
in particolare agli Hezbollah libanesi, l'unica forza militare
credibile che opera ai confini dello Stato ebraico.

Benjamin Netanyahu
Una strategia sbagliata
Negli anni passati cyber-attacchi, virus informatici, attentati
contro strutture o scienziati e spionaggio tout-court hanno
continuamente monitorato e rallentato l’attività di ricerca
iraniana. Questo non ha impedito al premier Netanyahu di usare
toni apocalittici e di pensare ad un attacco preventivo contro le
centrali nucleari iraniane, azione poi bloccata all’ultimo momento
anche per il veto americano. Il pericolo nucleare iraniano è stato
anche politicamente enfatizzato da Netanyahu per motivi elettorali
durante la recente campagna elettorale. In questa suo foga contro
la presunta minaccia nucleare iraniana, portata fin dentro
l'Assemblea Generale dell'ONU con tanto di slide, il Primo
Ministro di Tel Aviv è stato però smentito dal Mossad e da altri
personaggi di spessore nel campo della sicurezza, come l’ex capo
dei servizi di intelligence militare israeliani Meir Dagan.
Israele, ma è meglio dire Netanyahu, ha anche sbagliato i termini
e i modi con i quali ha veicolato il pericolo nucleare iraniano
all’opinione pubblica americana. In un gesto di sfida verso il
presidente Barack Obama, il premier israeliano ha accettato
l'invito dei repubblicani ed ha tenuto un discorso davanti al
Congresso USA il 3 marzo 2015. In quella sede impropria, il primo
ministro israeliano si è espresso contro l’accordo con l’Iran. Il
fatto che i negoziati di Losanna siano stati spiati dal Mossad e
che le informazioni raccolte siano successivamente state portate a
conoscenza dei membri repubblicani filo-israeliani del Senato, nel
maldestro tentativo di impedire la riuscita dell’accordo, è un
ulteriore tassello nel gelo fra Washington e Tel Aviv. Sia come
sia, ora Israele dovrà ingoiare il rospo: nessuna struttura o
centro nucleare iraniano saranno distrutti e l’Iran potrà
continuare a dedicarsi alla tecnologia nucleare per finalità
civili.
L'ascesa dell'Iran preoccupa anche gli altri Paesi del Golfo,
Arabia Saudita in testa. Non casualmente il presidente americano
Obama ha sentito la necessità di organizzare un vertice dei Paesi
arabi a Camp David per spiegare i termini dell’intesa di Losanna.
Tuttavia, un quesito che forse è bene porsi è proprio questo:
perché gli Stati Uniti si sono prodigati in un accordo con l’Iran
scontentando alleati tradizionali come Israele e Arabia Saudita?

Barack Obama
Obama il negoziatore
La risposta è legata ad un principio ed a una necessità. Il
principio è che l’amministrazione di Barack Obama ha fin
dall’inizio cercato di svincolarsi e porre fine ai vari impegni
militari, talvolta disastrosi, lascito del predecessore George W.
Bush. Farsi coinvolgere in una guerra d’attrito con Tehran, magari
portata avanti per procura da Israele, avrebbe inficiato questo
principio e provocato ulteriore instabilità nella regione. La
necessità è dettata invece dalle priorità, che nel caso specifico
riguardano la sconfitta dell’ISIS di Abu Bakr al Baghdadi. E, in
questo caso, l’Iran è un alleato prezioso. E’ stato sinora l’unico
Paese musulmano a farsi carico del problema. Se l’Iran avesse
agevolato l’attività destabilizzante dell’ISIS, allora sì che
l’eradicazione del terrorismo islamico sarebbe stata veramente
difficile da risolvere.
Allo stato attuale i dettagli dell’accordo devono essere ancora
definiti e sottoscritti entro giugno. Benjamin Netanyahu
continuerà sicuramente a fare del suo meglio affinché l’accordo
venga bloccato o modificato in termini più restrittivi per l’Iran.
Lo farà operando attraverso le lobby ebraiche, AIPAC
(American-Israeli Public Affairs Committee) in testa, che tanto
peso hanno nel panorama politico americano. In questo sarà
agevolato dal fatto che la maggioranza nei due rami del Congresso
statunitense è ora in mano repubblicana. Un gioco audace,
sicuramente irrispettoso verso l’amministrazione Obama e nei
confronti della sovranità americana che potrebbe anche determinare
degli effetti controproducenti per il Premier israeliano.
Accordo o errore storico che sia, il negoziato con l'Iran va oltre
la questione specifica della non proliferazione nucleare e si
pone, invece, nella prospettiva di un Medio Oriente
auspicabilmente meno conflittuale e senza ISIS. L’esempio iraniano
rischia però di creare un effetto a catena nella Penisola Arabica.
Sembra infatti che siano stati avviati dei negoziati segreti tra
l'Arabia Saudita ed il Pakistan per acquisire tecnologia nucleare.
Barack Obama, a differenza delle amministrazioni americane che lo
hanno preceduto, ha inserito nella politica estera del suo Paese
un concetto innovativo: con il nemico si tratta, si negozia, ci si
confronta sulla rispettiva buona volontà, si lasciano da parte
giudizi e pregiudizi. Si cerca una qualsivoglia forma di
convivenza che non sia la guerra. Un approccio diametralmente
opposto alle idee di George Bush Junior e Benjamin Netanyahu.
E’ dal 1979 che erano interrotti i rapporti fra Stati Uniti ed
Iran. Da una parte uno “Stato Canaglia”, definizione americana,
dall’altra “il Grande satana”, definizione iraniana. Nel mezzo il
premier israeliano che l’Iran “lo Stato più terrorista del mondo”.
Una situazione durata oltre 35 anni e che non ha portato da
nessuna parte, né sul fronte nucleare, né in quello delle
relazioni in Medio Oriente.
In senso lato, questo stesso pragmatismo è stato attuato da Obama
nei rapporti con Cuba. In questo tipo di approccio non ci sono né
vincitori, né vinti. Vince solo il buon senso ed i rispettivi
estremismi ideologici sono lasciati da parte. A dare una ci hanno
pensato delle misure coercitive passive contro l'Iran come le
sanzioni, imposte dalle Nazioni Unite nel 2006 e reiterate nel
2008, messe in atto dall’Unione Europea a partire dal 2008, che
hanno avuto il loro peso in una trattativa che si trascinava da
oltre 12 anni.
C’è però voluto il coraggio di un presidente americano , forse non
casualmente Premio Nobel per la Pace, per rompere un circolo
vizioso fatto di tensioni, incomprensioni e guerre.