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OLTRE L'ACCORDO SUL NUCLEARE IRANIANO : PAURE E CONVENIENZE


geneva talks

Meeting di Ginevra, Ottobre-Novembre 2013


L'accordo sul programma nucleare iraniano sottoscritto il 24 ottobre 2013 a Ginevra e' un patto dal valore temporaneo e che deve essere completato nell'arco di 6 mesi. E' stato preceduto, fin dal marzo scorso, da tutta una serie di contatti segreti tra rappresentanti americani e iraniani. Vi sono stati coinvolti, da parte americana, il Vice Segretario di Stato, William Burns, il consigliere di politica estera, Jake Sullivan, vari esperti ed anche lo stesso Vice Presidente Joe Biden. Gli incontri segreti si sono svolti nei Paesi del Golfo (Oman in primis con l'intervento diretto del Sultano Qaboos bin Said al Said) ed anche forse in Svizzera. Solo nell'ultima fase, quella dei negoziati ufficiali, c'e' stato il coinvolgimento degli altri Paesi del Consiglio di Sicurezza dell'Onu e della Germania.

Il do ut des

L'accelerazione, in positivo, degli sviluppi di questo negoziato e' stata determinata dall'elezione di Hassan Rouhani a Presidente dell'Iran nell'agosto 2013. Uomo considerato, nel contesto politico iraniano, come un moderato, Rouhani aveva, piu' che del suo predecessore Mahmoud Ahmadinejad, una maggiore predisposizione ad una trattativa sulla vertenza nucleare iraniana. Negoziato comunque condotto con il beneplacito della Guida Suprema Khamenei (altrimenti niente avrebbe potuto fare).

La trattativa si giocava su due elementi contrastanti, ma anche sovrapponibili: l'impegno iraniano a non rifornirsi dell'arma nucleare a fronte del diritto di Tehran all'acquisizione della tecnologia nucleare per scopi pacifici. Un percorso stretto tra due attivita' contigue, dove l'unico elemento che puo' renderle compatibili sono i controlli internazionali (ovviamente senza travalicare i limiti della sovranita'). Su questi aspetti si confronteranno i negoziatori nei prossimi mesi.

Ad oggi l'accordo e' ancora nel campo piu' delle intenzioni e delle reciproche promesse che non dei fatti. Nel dare e avere che ogni negoziato comporta, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama e' intervenuto personalmente non solo per bloccare al Senato una richiesta di nuove sanzioni (la sospensiva durera' 6 mesi come il tempo previsto per il completamento dell'accordo), ma anche per ricevere l'autorizzazione all'alleggerimento delle stesse. L'effetto economico del solo intervento americano e' stimato in 4,2 miliardi di dollari per Tehran solo dai maggiori incassi energetici. L'accordo prevede infatti un limite di 1 milione di barili al giorno di esportazione autorizzata, contro una produzione giornaliera di 2,5 milioni di barili. Se in campo finanziario e bancario le sanzioni sono inalterate, sono invece sospese in alcuni settori commerciali: autovetture, preziosi, manutenzione e ricambi per aerei civili, e lo scongelamento dei fondi iraniani all'estero (stimati in 100 miliardi di dollari) per il pagamento di rette studentesche e transazioni umanitarie. Nel complesso l'alleggerimento delle sanzioni degli Stati Uniti potrebbe portare nelle casse dello Stato iraniano introiti per sette miliardi di dollari.

La controparte iraniana dovra' invece cedere una serie di concessioni in campo nucleare: blocco dell'arricchimento dell'uranio al di sopra del 5% e smantellamento delle strutture tecniche che lo permettono, smaltimento di quelle scorte superiori a tale livello, blocco della produzione e dell'installazione di altre centrifughe (fermando nel contempo il 50% della operativita' delle stesse in Natanz e del 75% in Fordow), nessuna nuova costruzione di installazioni di arricchimento, bloccaggio della produzione di plutonio nel reattore di Arak e, soprattutto, libero accesso agli ispettori della AIEA alle varie strutture nucleari.

benjamin netanyahu

Benjamin Netanyahu

Le paure

A parte gli aspetti tecnici tipici del negoziato, l'accordo sul nucleare iraniano e' figlio di molte paure, ma coltiva anche diverse speranze ed asseconda anche tante convenienze.

La prima paura era quella dei Paesi che desideravano eliminare la minaccia nucleare iraniana e che, nel contempo, speravano che insieme alle velleita' di Tehran si potesse, con un intervento armato, anche circoscriverne il potere militare (a prescindere dal nucleare).

Erano queste le aspettative di Israele, unico Paese della regione in possesso di ordigni nucleari, un deterrente militare che ne garantisce ed enfatizza la sicurezza. Ed e' per questo che il primo commento negativo agli accordi di Ginevra e' venuto proprio dal Primo Ministro Benjamin Netanyahu. Israele teme, a ragione o a torto, che nelle intese tra Tehran e il gruppo dei 5 + 1 (i cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu a cui si e' aggiunta la Germania) ci sia molta diplomazia e poche garanzie che la controparte metta un effettivo stop al proprio programma nucleare militare. La diffidenza e i sospetti israeliani nascono dalla paura della dissimulazione tipica del credo sciita. La cosiddetta "taqiya" che permette allo sciita di nascondere la propria religione mostrando l'adesione ad altri riti. Tel Aviv teme anche gli interessi e le convenienze politiche contingenti, volte piu' al guadagno politico immediato che non all'attenta valutazione della pericolosita' di un possibile stratagemma iraniano.

Ovviamente Israele si sente direttamente minacciato dalla potenza militare - nucleare e non - dell'Iran. Non e' casuale che ultimamente lo stesso Netanyahu si sia spesso riunito con i vertici della sicurezza, dei Servizi e delle Forze Armate. Il fatto stesso che Israele sia stato tenuto all'oscuro dei progressi delle trattative e' motivo di preoccupazione per il deterioramento dei rapporti bilaterali con gli Usa. Sono note le scarse simpatie tra il Premier israeliano e il presidente Obama. Il paventato timore e' che lo Stato ebraico possa domani perdere il suo status di pilastro insostituibile della presenza e politica estera americana nella regione. Ma Benjamin Netanyahu ha comunque ottenuto qualcosa dagli Stati Uniti: una partecipazione "mascherata" di propri esperti nei team che effettueranno le ispezioni.

Altrettanto preoccupata e' l'Arabia Saudita, non solo dal punto di vista del dispositivo militare. C'e', tra i due Paesi, anche una questione di contenuto religioso. L'Arabia Saudita e' il Paese dove ci sono i luoghi ed i simboli del sunnismo, e' la patria del wahabismo con il suo integralismo parte integrante del sistema di potere e di legittimazione della dinastia Saud. Dall'altro lato c'e' invece il Paese culla e leader dello sciismo mondiale. Entrambe le maggiori correnti dell'Islam rivendicano il primato del proprio credo e non lo fanno solo con l'arma della dottrina e dei princi'pi religiosi. Lo fanno anche attraverso il confronto sul terreno, nei rapporti di forza, nelle minacce piu' o meno velate che le parti si scambiano. E Tehran mantiene la sua deterrenza anche fomentando quelle minoranze sciite che sono presenti in Arabia Saudita, in Bahrein ed in altri Stati del Golfo guidati da monarchie sunnite.

Ci sono poi i timori degli altri attori internazionali, Stati Uniti in primis. Barack Obama ha sempre perseguito, a differenza del suo predecessore guerrafondaio, un approccio di politica estera negoziale nelle aree di crisi. Strumenti come lunghe trattative, uso abbondante della diplomazia e delle sanzioni sono stati parte integrante della strategia nei confronti dell'Iran. Un approccio necessario legato anche alle promesse elettorali di Obama che comprendevano il disimpegno dall'Iraq e dall'Afghanistan e che non avrebbero potuto giustificare il trascinare gli Stati Uniti in un conflitto con l'Iran, direttamente o indirettamente in Siria.

Su questo stretto e tortuoso cammino, Barack Obama ha avuto molte difficolta' nel bloccare le velleita' di Israele. Il Presidente degli Stati Uniti ha pero' fatto tesoro di quello che e' successo in Libia, dove l'intervento armato per l'eliminazione di Muammar Gheddafi ha prodotto piu' danni (in termini di minaccia terroristica e di instabilita' sociale) che guadagni. E' per questo che l'amministrazione Usa ha optato per l'appoggio alle varie primavere arabe e anche se, come nel caso egiziano, si e' ritrovata sul lato sbagliato degli eventi, ha evitato a fatica di intervenire in Siria (dove adesso partiranno i negoziati del "Ginevra 2 " il 22 gennaio 2014) proprio per non rifare, all'ennesima potenza, gli errori libici. In ultima analisi, Washington ha ed aveva tutto l'interesse a giocare un ruolo negli eventi mediorientali con piu' diplomazia e meno armi. Magari, come temono gli israeliani, facendo finta di non vedere i rischi che un accordo troppo ampio ed un controllo poco adeguato con l'Iran potrebbero causare.

Poi ci sono anche le paure dell'Iran di una guerra che lo vedrebbe perdente militarmente di fronte a Usa, Arabia Saudita e Israele. Il regime e' percorso da contrapposizioni e contrasti interni, vi sono segnali di malessere sociale crescente. Aumentano anche i pericoli che un certo coinvolgimento nelle crisi regionali comporta (vedasi anche il sanguinoso attentato a Beirut del 20 novembre 2013 contro l'ambasciata iraniana).

Timori vengono infine anche da parte della Turchia, che ha nell'Iran, insieme alla Russia, uno dei suoi maggiori fornitori di prodotti energetici. Prodotti oggi piu' che necessari per sostenere la forte crescita economica del Paese. Ankara teme una crisi regionale che uno scontro armato contro Tehran potrebbe determinare. Ci sono troppe aree di crisi ai confini della Turchia, dalla Siria all'Iraq, dai curdi all'espansione dei terroristi islamici. Cosi' come neanche Ankara ha interesse affinche' Tehran diventi una potenza nucleare.

hezbollah

La realpolitik

Che piaccia o meno, l'Iran e' una potenza regionale di prima grandezza. Ha uno strumento militare di tutto rispetto, sistemi missilistici ad ampio raggio, soldi da spendere (anche nel campo del terrorismo islamico), un forte peso e credito nel mondo arabo dove incute timore e, soprattutto, una capacita' dirimente in molte vertenze e crisi mediorientali.

L'Iran ha una presenza fattiva - militare e non - in Siria (Paese con cui e' legato anche da un accordo militare) e una soluzione alla guerra civile siriana e' difficilmente ottenibile senza il consenso o la disponibilita' iraniana. Gli accordi sul nucleare potrebbero aprire la strada ad una partecipazione iraniana ai negoziati tra il regime di Bashar al Assad e l'opposizione. Se cio' avvenisse, si moltiplicherebbero esponenzialmente le possibilita' di un successo negoziale, ma l'aspetto negativo sarebbe il riconoscimento di Tehran come insostituibile potenza regionale (con relativo malessere di Ryadh e Tel Aviv).

C'e' poi lo stretto legame tra Hezbollah e Tehran. Gli Hezbollah stanno combattendo al fianco di Assad, sono al fronte contro Israele e rappresentano oggi il maggior pericolo per la sicurezza ebraica e hanno infine un forte potere condizionante nelle vicende interne libanesi. Per la proprieta' transitiva quindi la stabilita' del Libano, una escalation degli scontri con Israele e le sorti dei combattimenti in Siria passano tutte per le mani degli Hezbollah, che rispondono agli interessi e alle direttive di Tehran. L'Iran fornisce al movimento sciita libanese finanziamenti, armamenti e quanto altro possa servire alla loro forza e sopravvivenza.

Lo stesso dicasi del legame tra Hamas e la dirigenza iraniana. Un comunione di interessi che ultimamente si era rafforzata con la fornitura di razzi e missili, ma che ora trova difficolta' con il ritorno al potere dei militari in Egitto. Anche la longa manus iraniana nelle vicende palestinesi postula che una risoluzione del problema palestinese non potra' realizzarsi se non con il concorso fattivo dell'Iran.

L'Iran e' a pieno titolo coinvolto nelle vicende irachene da quando e' stato defenestrato Saddam Hussein e ora a Bagdad vi e' una dirigenza sciita. A dieci anni dalla guerra, il Paese e' ancora in mano alla violenza settaria tra sunniti e sciiti. Nell'ottobre 2013, tanto per citare un esempio, ci sono stati 964 morti in attentati. Una carneficina che non finisce mai. Un Paese destabilizzato, in mano al disordine sociale, percorso da faide, lotte e terrorismo. Anche qui senza un coinvolgimento dell'Iran una soluzione e' difficile da trovare. Ed e' bene ricordare che gli americani hanno pensato bene di lasciare l'Iraq prima che fosse ripristinata una pace sociale. Anche questo e' un fulgido esempio di una guerra sbagliata di marca americana che ha prodotto piu' danni che guadagni. Un ulteriore elemento a sostegno della scelta negoziale e non bellicosa di Barack Obama.

Vi e' poi la questione afghana, altra nazione da dove gli Stati Uniti usciranno senza lasciare dietro di se' una situazione sociale pacificata, un'autorita' in grado di gestire il futuro, un terrorismo debellato o sconfitto. Se ne vanno ed hanno peraltro fretta di andarsene. L'Iran, almeno apparentemente, non e' molto coinvolto nelle vicende afghane, ma ha un confine comune di 936 km, ospita sul proprio territorio 2,5 milioni di rifugiati afghani (800 mila in via ufficiale ed il resto come illegali) e inevitabili affinita' con gli Hazara di fede sciita che rappresentano il 20% dell'intera popolazione afghana. Il peso potenziale dell'Iran nelle vicende interne di Kabul ci sara' se volutamente esercitato, anche se gli Hazara, tradizionalmente, hanno un ruolo sociale alquanto circoscritto nonostante un peso demografico consistente.

L'Iran e' parte attiva anche nelle vicende curde, con una minoranza di questa etnia che vive sul proprio territorio. Il mondo curdo e' oggi in ebollizione, con i curdi in Siria che perseguono una propria autonomia, quelli iracheni che gia' sono uno Stato nello Stato, quelli turchi divisi tra chi vuole trovare un accordo con Ankara e chi vorrebbe invece proseguire la lotta armata. Un mondo ed una questione storica irrisolta che puo' trovare soluzione, ma anche creare tensioni.

Anche se l'Iran e' spesso accusato di fomentare un certo tipo di terrorismo in Medio Oriente come braccio armato delle proprie mire ed espansioni politiche, non bisogna mai scordare che Tehran e' anche oggetto di terrorismo da parte di Al Qaeda, di cui e' uno dei piu' acerrimi nemici nel solco della faida tra sunnismo e sciismo. Una sinergia nella lotta contro questo comune nemico dell'Occidente potrebbe aiutare a sconfiggere questa minaccia.

In ultima analisi, avere l'Iran dalla propria parte e poterne sfruttare il potere dirimente in molte aree di crisi del Medio Oriente e' oggi molto piu' pagante che averlo sul fronte opposto della barricata. Il nucleare, se visto in questo contesto di realpolitik, puo' diventare non piu' un fatto centrale o essenziale, ma collaterale ad altre convenienze. Certo, questo assunto non certifica che gli Stati Uniti o altri Paesi vedano con piacere o senza preoccupazione la possibilita' che Tehran si doti di capacita' nucleare. Anzi. Ma le opportunita' che offrono il potere e il ruolo iraniano sono sicuramente importanti.