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DOVE PORTA LA DISPUTA TRA IRAN E ARABIA SAUDITA?


iran v saudi

Ci sono oggi due guerre principali in Medio Oriente: quella che si combatte contro l’ISIS e quella che fa riferimento al confronto tra sunnismo e sciismo. La prima combattuta direttamente, la seconda, sinora, per interposta nazione. Due fenomeni comunque interconnessi perché l’ISIS è una organizzazione sunnita che combatte anche lo sciismo.

Poi ci sono altre situazioni collaterali che vanno dalla guerra civile in Siria, il problema curdo, la ricollocazione politica dei Fratelli Musulmani, l’annoso problema palestinese, la sopravvivenza delle minoranze religiose alla luce delle persecuzioni, vari tentativi egemonici endogeni ed esogeni. Ma il problema più importante sono le due guerre principali e quella più pericolosa, perché ideologicamente/religiosamente più coinvolgente, è quella – sotto traccia – tra sunnismo e sciismo. Guerre che hanno comunque anche delle sovrapposizioni nel gioco degli interessi dei principali Paesi regionali.

E questa sovrapposizione implica il rischio che il campo di battaglia, oggi confinato essenzialmente solo in alcuni Paesi, possa domani estendersi in altri territori. Sono solo i prodromi di quello che potrebbe capitare altrove.

Una guerra sottotraccia

Sinora il confronto tra Riyadh e Teheran è solo indiretto e viene sviluppato in Paese terzi come la Siria (dove l’Iran appoggia il regime della minoranza – circa 13% - alawita di Assad contro la ribellione sunnita che invece riceve sostegno dalla Arabia Saudita e da altre nazioni della regione), l'Iraq (dove c’è anche qui un governo sciita ed una ribellione sunnita. Qui gli sciiti rappresentano il 60% della popolazione contro il 30/35% dei sunniti), lo Yemen (dove i sauditi hanno deciso di combattere, con scarso successo, gli zaidi sciiti – che insieme agli ismailiti sono circa il 47% della popolazione - per sostenere un deposto/reinsediato Presidente sunnita).

Per quanto riguarda l’Iraq – ed è forse il caso più emblematico – torna difficile regolare i rapporti infra-religiosi (che poi non sono distinti da quelli politici e militari) quando le forze in campo sono entrambe demograficamente consistenti. Nel caso specifico, inoltre, la pregressa storia di questo Paese, governato a lungo da una dittatura sunnita, rende il tutto ancor più difficile. Aggiungendo poi un dettaglio non irrilevante ed è che i sunniti iracheni, a differenza degli sciiti iracheni, la guerra la sanno fare. Ed è su queste premesse che si sta sviluppando la guerra civile nel Paese, di cui l’ISIS, movimento terroristico ma sempre di matrice sunnita, ne sfrutta la potenzialità per destabilizzare e guadagnare consensi.

Per meglio capire la pericolosità della guerra “religiosa” tra sunnismo e sciismo bisogna un po’ riferirsi ai numeri delle due comunità nella regione.

Intanto bisogna dire, tanto per misurare i valori di forza complessivi, che i sunniti rappresentano circa l’85/90% di quel mondo islamico composto da circa un miliardo e mezzo di persone.

Ma questo può essere anche un dato forviante perché, a parte la sproporzione numerica tra le due maggiori branche dell’Islam, il conflitto tra le due entità religiose si accende, nell’area mediorientale, per due essenziali motivi: uno di contrapposizione per una egemonia politico/religiosa; l’altro – in alternativa - di convivenza.

E’ comunque una guerra – oggi per interposta nazione ma domani non si sa – che crea tra i vari contendenti delle contraddizioni. L’Iran, sotto questo aspetto, non ha problemi, perché appoggia in guerra regimi sciiti (Siria e Iraq) e nello stesso tempo combatte l’ISIS, che è il terrorismo di matrice sunnita. Diverso è il discorso per l’Arabia Saudita, i vari emirati del Golfo e la Turchia perché, osteggiando i regimi sciiti, si trovano nella scomoda posizione di aiutare direttamente/indirettamente l’ISIS. La loro nota ambiguità nella lotta al terrorismo islamico nasce da questo.


nimr bakr al nimr
Nimr Bakr al Nimr


L'Iran sciita contro l'Arabia Saudita sunnita

Negli ultimi giorni il dissidio tra l’Arabia Saudita, che intende guidare le istanze del mondo sunnita, e l’Iran sciita è salito di livello.

L’esecuzione il 2 gennaio di 47 personaggi, di cui 43 sunniti e 4 sciiti, accusati a diverso titolo e valutazioni di merito, di terrorismo, tra cui l’imam sciita Nimr Bakr al Nimr, colpevole di essere l’ispiratore dell’opposizione sciita nella Eastern Province (area petrolifera principale del Paese ma a maggioranza sciita) è stata una premeditata provocazione.

I motivi di questa escalation saudita non sono solo di ordine teologico ma sono collegati ad altre circostanze: la paura dell’espansione iraniana in Siria e Iraq, i problemi interni nella successione al trono, il disimpegno militare americano che può essere impedito solo di fronte ad una necessaria scelta di campo, la guerra commerciale e petrolifera che, dopo l’accordo nucleare, rivede nel gioco internazionale il peso economico dell’Iran.

Anche la recente iniziativa di creare una cosiddetta Nato islamica a trazione saudita è parte di questo disegno di contrapposizione.

I problemi che adesso si pongono sono di due ordini diversi. Il primo è di verificare se questo innalzamento di tensione con accuse e minacce tra i due Paesi (con il dovuto concorso di altre nazioni che prendono posizione nei rispettivi campi) si esaurirà, lasciando spazio ad una diplomazia della moderazione che già si è attivata nel merito.

Essendo l’esecuzione dell’imam sciita saudita una deliberata provocazione (inoltre, una esecuzione di massa così rilevante non avveniva da almeno 30 anni), è nell’interesse iraniano non cadere nel gioco saudita che rimetterebbe in discussione quel che di buono l’accordo nucleare ha prodotto nelle relazioni internazionali del Paese (e l’ultima decretazione del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, dove si stigmatizza l’assalto all’ambasciata saudita di Teheran e invece non si fa menzione dell’esecuzione di 47 persone, è un segnale di quanto precaria sia tuttora la reputazione dell’Iran).

Sul fronte saudita, riattizzare ancor più il confronto con l’Iran potrebbe portare problemi alla stabilità interna del Paese, tenuto conto che gli sciiti rappresentano circa il 15/20% della popolazione e che nel contempo le ridotte risorse finanziare dalla vendita del petrolio hanno fatto ridimensionare quel sistema di welfare su cui sinora si è basato il consenso del regime. Stesse considerazioni potrebbero essere fatte sulla teocrazia iraniana, in cui si confrontano da tempo una corrente riformista e una conservatrice. Quindi, se si dà credito a tutto questo, uno scontro diretto tra i due Paesi potrebbe non verificarsi, salva la circostanza che altre provocazioni o incidenti possano avere luogo nel breve periodo.

L'incendio si propaga

Rimane quindi aperta, come seconda opzione (più verosimile e probabile) che il confronto che già avviene indirettamente in Paesi terzi (i nominati Siria, Iraq e Yemen) possa estendersi ed allargarsi ad altri Paesi. Se questo avverrà, l’elemento scatenante sarà la presenza della comunità sciita - come essenziale veicolo della protesta - nelle singole nazioni.

Intanto la prima valutazione viene fatta sull’Iran, dove su oltre 80 milioni di abitanti gli sciiti rappresentano circa il 95%. Quindi minore vulnerabilità rispetto alla Arabia Saudita dove gli sciiti sono quasi un quinto della popolazione e quel che è peggio, concentrati nel cuore della produzione energetica del Paese. Infatti, dalla zona a maggioranza sciita di Al Qatif, nell’Eastern Province, arriva circa l’80% della produzione petrolifera del Paese.

Essendo una “guerra” regionale, il confronto tra le due branche principali dell’Islam deve riferirsi a questa area geografica ma non solo. Nella regione, gli altri Paesi a rischio, per una presenza consistente della comunità sciita sono soprattutto il Bahrein (dove gli sciiti sono circa il 70% della popolazione), il Kuwait (con circa il 30% ), gli Emirati Arabi Uniti (con il 15% soprattutto nell’emirato di Dubai), il Qatar (10%), lo stesso Libano (con circa il 50%, elemento demografico che viene rafforzato dalla forza militare degli hezbollah).

Si esclude da questa casistica la Turchia (dove la setta degli aleviti e degli sciiti rappresentano complessivamente circa il 20/25% della popolazione) in quanto questo paese non può essere scientemente destabilizzato dall’Iran senza incorrere in una reazione militarmente insostenibile dalle FF.AA. di Teheran. Si esclude anche l’Oman che, guidato da un Sultano ibadita (setta vicina al sunnismo), ha sì una popolazione di circa il 10% di fede sciita, ma sviluppa da sempre una politica di neutralità (e quindi anche di mediazione) in tutte le vertenze regionali, compresa la contrapposizione tra sciiti e sunniti.

L'Iran destabilizzatore

Alla luce di quanto esposto, se l’Iran decidesse di fomentare un terrorismo di matrice sciita nel perseguito obiettivo di indebolire le varie monarchie del Golfo , avrebbe sulla carta tutta una serie di valide opzioni.

La prima opzione è proprio l’Eastern Province dell’Arabia Saudita perché colpirebbe nel luogo-simbolo dove l’iman al Nimr è stato eliminato ed avrebbe inoltre il vantaggio di colpire il cuore del sistema economico e finanziario sul quale prospera la monarchia saudita.

La seconda opzione, quella tecnicamente più facilmente perseguibile, è la destabilizzazione del Bahrein. Paese demograficamente piccolo (1,3 mil/abitanti) con una dittatura sunnita oppressiva. Nel 2011, a cavallo delle cosiddette primavere arabe, ci fu bisogno di un intervento militare di sostegno da parte di alcuni paesi del Gulf Cooperation Council per debellare la rivolta della popolazione sciita. Allo stato attuale stazionano ancora nel paese circa 5000 tra militari e poliziotti sauditi e emiratini per mantenere sul trono l’emiro al Khalifa. Unica controindicazione per l’eventuale attività sovversiva iraniana è la presenza di una base navale americana con circa 7000 militari (stesso discorso da applicare in una valutazione di intervento nel Qatar).

Per quanto riguarda il Bahrein e anche l’Eastern Province saudita vi è una diretta conferma di un coinvolgimento destabilizzante iraniano, essendo stati scoperti e sequestrati nel tempo depositi e navigli con carichi di armi di produzione iraniana per sostenere le comunità sciite di quelle aree.

Sicuramente l’attuale crisi relazionale tenderà ad accentuare queste iniziative.

La guerra del petrolio

Una “guerra”, ancora tutta da sviluppare è quella sul petrolio. Sui proventi petroliferi vivono economicamente tutte le maggiori potenze regionali. Ovviamente in prima fila troviamo l’Arabia Saudita e l’Iran. Sinora Riyadh ha condizionato il mercato con una sovrapproduzione di idrocarburi per mantenere il prezzo basso e rendere anti-economica la produzione degli scisti oleosi americani. Con l’arrivo sul mercato del petrolio iraniano, l’Arabia Saudita è ancor più intenzionata a vendere a prezzi bassi, sapendo di danneggiare la controparte iraniana. Ma nello stesso tempo danneggia anche le proprie finanze. Bisognerà vedere in questo contesto chi verrà maggiormente danneggiato, soprattutto nel relativo impatto sulle rispettive economiche nazionali.

C’è poi il problema del riflesso su varie iniziative diplomatiche in atto. La più danneggiata appare la trattativa per una soluzione della crisi siriana, dove un irrigidimento degli aventi titolo è fortemente prevedibile.


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Il presidente iraniano Rouhani con Vladimir Putin


Le posizioni della Russia e dell'America

E’ pur chiaro che in questa disputa irano/saudita avranno incidenza anche le posizioni di altri paesi che nelle vicende regionali hanno il loro peso contrattuale. Vi è la Russia che per tanti motivi – soprattutto la lotta al pericolo rappresentato dall’ISIS e ad sostegno al regime di Bashar Assad - è oggi schierata al fianco dell’Iran. Gli Stati Uniti giocano al momento la carta della diplomazia per evitare un ulteriore conflitto nell’area ma se domani fossero costretti a fare una scelta di parte, opterebbero per il sostegno all’Arabia Saudita. Con l’America, a fianco dei sauditi, ci sarebbero sicuramente la Francia (che ha recentemente sottoscritto accordi miliardari per vendite di armi sia ai sauditi che negli Emirati Arabi Uniti) sia il Regno Unito, a causa di legami storici ed economici.

Adesso è in atto solo una guerra di parole, minacce, accuse, chiusura di ambasciate o congelamento di rapporti diplomatici, boicottaggio della commercializzazione dei rispettivi prodotti. Iniziative che nel gioco delle parti coinvolgono anche attori minori di questo confronto, come i vari emirati del Golfo (ovviamente solidali con le istanze saudite perché coscienti del fatto che, se crolla il regime dei Saud, crollano subito anche loro). Poi si schierano con Riyadh anche quei Paesi aderenti alla “NATO islamica”, che vedono in questa scelta opportunità politiche ma soprattutto finanziarie (Somalia, Sudan, Gibuti, etc). Sul fronte opposto, ovviamente, ci sono Siria, Iraq e tutte quelle entità sciite che popolano la regione.

Solo per quest’ultimo dettaglio si può parlare di “guerra di religione” tra sunnismo e sciismo, ma il gioco degli interessi è di natura molto più prosaica che una disputa teologica risalente a circa 1400 anni fa.

E l'ISIS?

L’ultima considerazione va fatta sull’unico attore regionale che trarrà vantaggi da questa disputa, ed è l’ISIS. La divisione che esiste tra i vari Paesi della regione è elemento di garanzia per Al Baghdadi per una sua sopravvivenza militare. Una disputa settaria porta inoltre ancora più legittimazione a quella guerra di religione che il Califfo sta conducendo. Si stanno creando le premesse, un po’ come in Libia, perché il caos sociale, le divisioni ed i contrasti nel campo nemico, possano dare spazio alle conquiste militari dell’ISIS.

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