IRAQ : L'ANELLO DEBOLE DELLA LOTTA CONTRO L'ISIS
La
guerra contro l'ISIS si combatte sul suolo siriano ed irakeno. Sul lato
siriano l'esercito di Damasco ed i suoi alleati stanno creando grosse
difficoltà alle milizie di Al Baghadi. Sul fronte irakeno ancora non
avviene altrettanto in uguale misura. Il motivo? La debolezza
dell'esercito irakeno fondato su base settaria, i mai risolti problemi
tra sciiti e sunniti, le spinte autonomistiche dei curdi, la corruzione
e le faide politiche.
L'arrivo di Haider al Abadi alla guida del governo, con l'estromissione
di un personaggio settario come Nouri al Maliki, non ha ancora prodotto
quella riconciliazione nazionale tra sciiti e sunniti tanto auspicata e
tanto necessaria per ridare autorevolezza al governo centrale. Che ci
sia in atto una guerra civile strisciante lo dimostrano le cifre: 1320
morti in gennaio, 1090 in febbraio, circa 1200 in marzo.
Dopo 13 anni di guerre e lotte interne, dall'estromissione di Saddam
Hussein, circa 175 mila persone sono morte ammazzate. Una cifra enorme
che incide sulla coesione sociale di questa nazione.
Non sono tutti morti attribuibili alla lotta contro l’ISIS, che
comunque trova spazio per le sue efferatezze nel contesto di questo
dissidio sociale. Nel 2015 , quando le vittime sono state quasi 22 mila
(a cui aggiungere oltre 17 mila feriti), le esecuzioni che sono state
perpetrate dall'ISIS sono state circa 7 mila. Ed altrettante 36 mila
persone erano state uccise o ferite nel 2014.
C'è ovviamente un concentramento di queste morti in prevalenza nelle
aree dove si combatte (Anbar, Ninive, Diyala, Saleheddin) ma quel che
più preoccupa è che circa il 23% delle vittime sono incorse nell'area
di Baghdad. Questo dimostra che la presenza del terrorismo islamico nel
Paese è ben radicata e si avvale, ancora oggi, dell'omertà dei sunniti
e non solo quelli che avevano in passato simpatie baathiste.
Alla luce di queste circostanze e con un esercito che quota parte della
popolazione considera ostile (almeno quel 35/37% di sunniti che
compongono la popolazione irakena), peraltro scarsamente addestrato
(nonostante gli sforzi americani) ovvero sicuramente meno professionale
di quello che operava ai tempi di Saddam Hussein, dove la maggioranza
dei soldati erano sunniti, caratterizzato da ricorrenti fenomeni di
corruzione (come la storia dei soldati "fantasma", cioè soldati
inesistenti ma pagati dallo Stato 600 dollari al mese con il salario
incamerato dai comandanti. Uno scandalo riferito a circa 50 mila
uomini), è difficile poter combattere con efficacia l'ISIS. E -
dettaglio da non dimenticare - i combattimenti sono adesso concentrati
in aree a prevalenza sunnita.
Questo è lo stato dei fatti nel momento in cui si sta approntando uno
sforzo bellico per la riconquista di Mosul, una città di quasi due
milioni di abitanti, dove i miliziani islamici si sono asserragliati
per quella che molti hanno definito la madre di tutte le battaglie. Se
l'esercito irakeno riconquista Mosul, la disfatta dell'ISIS diventa
concreta, salvo il fatto che gli attentati continueranno come sta
avvenendo dal 2003 con o senza Al Baghdadi (e prima di lui Abu Musab al
Zarqawi).
A Baghdad, dove dovrebbe aver luogo l'organizzazione dello sforzo
bellico, c'è una paralisi politica che impedisce al primo ministro di
prendere decisioni. Ne risente anche la mobilitazione e la coscrizione
delle truppe.
IL premier Abadi si confronta oggi con una dissidenza all'interno della
comunità politica sciita che viene strumentalizzata da un personaggio
come Moqtada al Badr, un esponente clericale noto per le sue idee
radicali e soprattutto perchè le rafforza con la presenza di una
propria milizia armata, la "Saraya al Salam" ( la "Brigata della pace"
).
E' lo stesso personaggio che subito dopo la guerra del 2003 era a capo
di un'altra milizia, "L'esercito del Madhi", e che più volte gli
americani avevano cercato di eliminare. Per circa 5 anni (dal 2004 al
2009) l'uomo ha combattuto contro i sunniti e gli americani, poi è
stato alcuni anni nell'ombra ed adesso ricompare in chiave
"riformista", professandosi paladino della lotta alla corruzione.
Ma non è solo la contestazione politica di al Sadr (che ovviamente si è
associato in questa disputa a Al Maliki) che divide l'alleanza dei
partiti sciiti che guidano il Paese. C'è anche il disagio economico che
colpisce la popolazione; disoccupazione, corruzione dei funzionari
statali, servizi sociali fatiscenti, riforme che non vengono fatte.
Anche l'Iran ha cercato sinora di mediare su queste differenze
all'interno della comunità sciita ma senza particolare successo,
inviando recentemente, in missione "diplomatica", il Generale Qassem
Suleimani, comandante delle Guardie Rivoluzionarie.
Ma Abadi ha difficoltà relazionali anche con la componente politica
curda all'interno del Parlamento irakeno e questo rischia ancor più di
attizzare quelle diversità tra il Kurdistan, con le sue mire
autonomistiche o indipendentistiche, e Baghdad. A novembre in Kurdistan
si dovrebbe tenere un referendum per l'indipendenza dall'Iraq.
E non bisogna dimenticare che la riconquista di Mosul sarà possibile
solo con il contributo militare dei peshmerga curdi che si
affiancheranno ai quei 30/35 mila soldati (una stima fatta dai generali
americani) che dovrebbe mettere in campo Baghdad ma che ha difficoltà a
reclutare. Inoltre, nella riconquista di Mosul bisognerà anche stare
molto attenti alle sensibilità sociali perché la popolazione della
città, a maggioranza sunnita, vede con particolare diffidenza una
coalizione militare costituita da un esercito a trazione sciita, una
serie di milizie volontarie sciite (le "forze di mobilitazione
popolare", alias "al Hashd al shaabi", a cui aggiungere i pasdaran
iraniani) ed i peshmerga, che non sono molto amati nella zona. Esistono
peraltro anche contrasti nella pianificazione della battaglia tra i
peshmerga e l'esercito di Baghdad.
Vari tentativi, da parte americana, di addestrare milizie di volontari
sunniti hanno avuto sinora scarsi risultati (dal 2003 ad oggi gli
U.S.A. hanno speso circa 20 miliardi per ricostruire le forze di
sicurezza e l'esercito irakeno). Ma qui c'è anche un problema di fondo:
si paventa sempre il pericolo che armando tribù sunnite si possa
mettere a rischio la stabilità del governo sciita a Baghdad. Questa è
una circostanza che si trascina fin dal 2004, quando è iniziata la
ricostruzione dell'esercito irakeno, e già a quei tempi si paventava
anche l'esatto contrario, cioè che l'esercito non diventasse uno
strumento settario in mano agli sciiti. E fin da allora, oltre a
diffidare dall'armare le milizie sunnite, nel contempo, per analoghi
dubbi, non si armava adeguatamente l'esercito irakeno.
Se questa cautela etnico/religiosa non verrà attuata c'è il rischio che
l'ISIS, con la connivenza di buona parte della cittadinanza, possa
anche riuscire a resistere. Dopotutto il combattimento negli abitati,
che è una forma di guerra asimmetrica, favorisce la difesa e non
l'attacco. Inoltre bisogna considerare che un ISIS in difficoltà tende
ad essere più aggressivo: nel primo trimestre del 2016 gli attacchi
delle milizie del Califfo contro obiettivi irakeni sono aumentati di
oltre il 40%.
E qui varrebbe anche la pena di ricordare una affermazione pubblica del
Segretario per la Difesa americano Ash Carter, che lo scorso anno aveva
stigmatizzato il fatto che l'esercito irakeno non aveva voglia di
combattere. Una accusa che aveva sollevato le rimostranze di Abadi e
che aveva costretto il vice Presidente americano Biden, in visita a
Baghdad, a sconfessare la circostanza. E' però un fatto inequivocabile
che Mosul e Ramadi erano state precedentemente conquistate dall'ISIS
grazie alla fuga dell'esercito irakeno dalle città senza combattere.
L'ISIS in Iraq ha potuto vincere ed estendersi territorialmente grazie
alla connivenza della popolazione sunnita (soprattutto i quadri del
disciolto partito Baath) ed il supporto militare degli ex militari del
disciolto esercito di Saddam Hussein. E si è alimentato logisticamente
soprattutto con le armi catturate al nemico.
L'Iraq è anche il Paese dove sono più marcate le contraddizioni di un
mondo che cambia e dove la linea di demarcazione che divideva in
passato gli schieramenti tra amici e nemici è diventata labile. Oggi
stanno sulla stessa parte della guerra gli americani che aiutano gli
irakeni, i pasdaran iraniani e le milizie sciite che combattono l'ISIS.
I raid aerei che partono dall'Iraq e colpiscono le basi dell'ISIS in
Siria vengono coordinati con i russi.
Ad oggi stazionano in Iraq circa 5000 soldati americani non impiegati
in combattimenti (almeno non direttamente, salvo il fatto che
stazionano in prima linea ed è per questo che hanno subito anche
vittime) ma a supporto addestrativo e tecnico dell'esercito irakeno.
Molto più presenti in confronto a quei 200/250 soldati che affiancano i
curdi dell'YPG in Siria.
Oggi la maggioranza delle milizie del Califfo, circa due terzi dei
circa 30/35 mila combattenti, sono dislocate in Siria, soprattutto a
difesa della cosiddetta "capitale" Raqqa. Anche perché l'unica catena
di alimentazione logistica e di manovalanza umana su cui si basa la
sopravvivenza di Al Baghadi passa attraverso il confine con la Turchia,
in un corridoio oggi di circa 70 km. Perso quello, ogni velleità
militare dell'ISIS è votata alla sconfitta. Ma le sorti di Raqqa e
Mosul sono tra loro interdipendenti. L'una rappresenta il simbolo del
nascente califfato, l'altra la città più importante del califfato
stesso.
Dietro le sorti militari dell'ISIS in Siria e Iraq c'è però un'altra
battaglia strisciante che si gioca sugli assetti futuri del Medio
Oriente, tra gli U.S.A. e la Russia. Nella pratica c'è una specie di
competizione tra le due superpotenze su chi potrà avere un maggior peso
negoziale nella regione. Sotto questo aspetto la Russia è avvantaggiata
dal fatto di essere intervenuta direttamente al fianco dell'esercito di
Assad e quindi tutte le vittorie sul territorio siriano producono in
prospettiva un aumento di prestigio. Non altrettanto possono vantare
gli americani che invece, sotto l'amministrazione di Obama, hanno
deciso per una linea non interventista e di disimpegno salvi ovviamente
i sostegni addestrativi, le forniture di armi ed i raid aerei. Chi
riuscirà a dare per primo una spallata definitiva al califfato con la
conquista di Raqqa o di Mosul, avrà sicuramente vantaggi politici in un
prossimo futuro.
Quindi le difficoltà attuali dell'esercito irakeno ad impegnarsi nella
conquista di Mosul incidono negativamente, in prospettiva, anche sulle
velleità politiche americane. E non è un caso che ultimamente siano
arrivati a Baghdad, in sequenza, il Segretario di Stato John Kerry, poi
il Segretario per la difesa Ashton Carter ed infine il vice Presidente
Joe Biden.
Come detto il problema per il premier Abadi è riuscire oggi a formare
un nuovo governo di tecnici che possa portare avanti le riforme che la
popolazione sta chiedendo, anche con manifestazioni di piazza, di
portare avanti. E poichè Abadi è un politico moderato e
filo-occidentale queste proteste, frutto di evidenti disagi sociali,
sono strumentalizzate da personaggi notoriamente settari come Moqtada
al Sadr e con lui l'ex premier al Maliki.
Entrambi mirano ad una leadership politica nel Paese con l'ovvia
defenestrazione di Abadi. L'uno con la forza di "dissuasione " della
citata milizia "Saraya al Salam", l'altro con altrettanto potere
contrattuale in virtù del fatto che le "forze di mobilitazione
popolare" sono state da lui create e supportate.
E questa strumentalizzazione è stata così forte che i manifestanti sono
riusciti, nei giorni scorsi , ad entrare nella green zone e ad occupare
momentaneamente il parlamento. Una situazione che ha spinto le autorità
di polizia a dichiarare lo stato di emergenza.
Strumentalizzazioni politiche a parte, il Paese sta risentendo molto di
13 anni di guerra. E dietro tutto questo c'è anche una crisi
finanziaria in quanto un Paese come l'Ira , che vive dei proventi del
petrolio, risente oggi del prezzo basso del greggio. Quindi ritardi nei
pagamenti degli stipendi degli impiegati pubblici che a causa del
sistema clientelare arrivano ad essere una moltitudine in continua
crescita a cui aggiungere il costo della ricostruzione e della guerra.
Anche qui il settarismo strisciante crea discriminazioni e risentimenti.
Da quel fatidico 20 Marzo 2003, quando una coalizione internazionale di
"volenterosi" aveva iniziato la sua seconda guerra per estromettere
Saddam Hussein, passando per il 29 Giugno 2014, quando Al Baghdadi
aveva annunciato la creazione di un califfato in una moschea di Mosul,
ed arrivando ai nostri giorni, il popolo irakeno non ha conosciuto
altro che sofferenze, lutti, disagi, guerre, faide e violenze. Sono
passati da una disgrazia sociale all'altra senza vedere ancora la fine
di questo calvario.
Non solo morti, feriti, soprusi, ma anche distruzioni e circa un
milione di sfollati che hanno perso tutto. Ci si è dedicati solo alla
guerra e nessuno si è poi dedicato a costruire una pace.
Disintegrando un regime autoritario e sanguinario come quello di Saddam
Hussein che comunque - bisogna specificarlo - garantiva anche se
brutalmente una coesione sociale, si è alimentata una guerra civile,
sono emerse le rivalse settarie, le spinte autonomistiche ed
indipendentiste, la sicurezza ha lasciato il campo alle prevaricazioni.
Bastava ricordarsi questo per evitare di incorrere, 8 anni dopo, a
qualcosa di simile in Libia. Purtroppo, in Medio Oriente, la storia non
insegna.