PERCHE’ L’ISIS CONTINUA A VINCERE
Le
vittorie militari che continuano a mietere sul terreno le milizie
dell’ISIS sono ascrivibili a diverse circostanze, sia di ordine
politico che militare.
Sul piano politico della valutazione del grado di pericolosità del
gruppo terrorista pesa la priorità che alcuni Paesi della regione,
come Turchia, Arabia Saudita e Qatar, danno alla minaccia
rappresentata da un potenziale futuro ruolo egemonico dell’Iran,
sia nel suo salvataggio del regime alawita siriano che a sostegno
del governo iracheno. Il timore ha preso forma quando Teheran è
riuscita a raggiungere con gli Stati Uniti un accordo di massima
sul suo programma nucleare. Ed è per questa valutazione di merito
che adesso Ankara, Riyadh e Doha hanno deciso di incrementare il
loro sostegno militare a quelle fazioni, anche radicali, che
combattono il regime di Bashar al Assad. Così facendo è chiaro che
a risultarne rafforzate sono anche l’ISIS e Jabhat al Nusra. La
guerra strisciante tra sunnismo e sciismo ha preso il sopravvento
sul pericolo jihadista, forse non casualmente di matrice sunnita.
Le paure di Ankara
La Turchia vive anche la paura che i curdi siriani possano
riuscire a controllare una porzione di territorio siriano lungo il
confine comune dove magari un domani instaurare un proprio Stato.
E' oramai di dominio pubblico come le ambiguità turche avessero
come finalità l'avverarsi di un tale evento. E’ stato permesso ai
volontari islamici di entrare ed uscire dal proprio territorio in
assoluta libertà, sui traffici di armi è stato posto un colpevole
silenzio, sui traffici e il contrabbando di petrolio proveniente
dai giacimenti sotto il controllo dello Stato islamico è stato
fatto altrettanto.
Ultimamente questo approccio ha subito un'evoluzione ancora più
negativa: la Turchia è diventata parte attiva nel rifornire armi
ai jihadisti e questo si traduce in un rafforzamento esponenziale
delle capacità militari delle milizie islamiche. Un lavoro sporco
portato a compimento dall’Organizzazione di Informazione
Nazionale, il MIT (Milli Istihbarat Teskilati), l'organismo di
intelligence turco fondato nel 1965, che, nonostante le
precauzioni di sicurezza con cui è stato condotto, è diventato
palese a seguito della confisca di alcuni carichi di armi nascoste
in mezzo alle medicine e bloccate dai doganieri ai confini con la
Siria.
Questa è la stessa Turchia che impedisce agli americani di
utilizzare la base aerea di Incirlik per bombardare l’ISIS
pretendendo, invece, che tali interventi vengano mirati
esclusivamente contro l’esercito di Assad. E non è forse casuale
che in una recente intervista alla televisione al Jazeera –
dettaglio non irrilevante: è sotto il controllo dell’emiro del
Qatar – il capo di al Nusra, Abu Mohamed al Golani, abbia più
volte sottolineato che la missione principale delle sue milizie è
quella di cacciare il regime di Assad e non di combattere gli
americani. Un messaggio rassicurante che mira a “tranquillizzare”
Washington che, invece, vede oggi con maggiore preoccupazione
l’avanzata delle milizie islamiche in tutta la regione piuttosto
che la permanenza al potere di Bashar al Assad a Damasco.
Ci si può oggettivamente domandare se l'attuale politica dei
maggiori Paesi sunniti della regione sia valida dal momento che il
pericolo attuale – quello dell’avanzata dell’ISIS – è
sottovalutato a favore di una minaccia potenziale futura:
l'egemonia dello sciismo iraniano in Medio Oriente.
Un gioco pericoloso
E’ un discorso che si applica soprattutto all’Arabia Saudita, dove
dei recenti attentati hanno preso di mira la minoranza sciita. E'
proprio sul tema del confronto tra sciiti e sunniti che trova
giustificazione la condiscendenza dei Paesi del Golfo verso
l’ISIS. Questo è ben chiaro anche nella strategia di Abu Bakr al
Baghdadi. Più la guerra diventa settaria, più acquista
connotazioni contro l’eresia o l'apostasia rappresentate dallo
sciismo (e dall'alawismo), maggiore è la simpatia e l’adesione
della popolazione sunnita alla causa dell’ISIS. Ed è forse ancora
una volta non casuale che la televisione dell’emiro del Qatar
abbia diffuso un sondaggio dove risulta che il Califfato di al
Baghdadi gode di una vasta popolarità, misurata sull’ordine
dell’80% tra la comunità sunnita.
Rimane poi da verificare, una volta caduto il regime di Assad in
Siria, se l’ondata di instabilità che questo evento determinerebbe
potrebbe giovare agli interessi di quei paesi che hanno
assecondato la caduta del regime. Una Siria distrutta dalla guerra
civile ed in mano alle fazioni radicali islamiche porterebbe
maggiore instabilità in una regione dove i focolai di tensione
certo non mancano. Rimane difficile capire che guadagno ne avrebbe
la Turchia, confinante con un Paese destabilizzato e guidato
dall’ISIS. Lo stesso discorso varrebbe per le monarchie del Golfo
perché il Califfato, nella sua essenza teologica, si vede, in
prospettiva, legittimato a prendere il comando delle masse
islamiche, la “umma”. Ed in quell’effetto domino che si creerebbe
con la disintegrazione della Siria varrebbe la pena anche
soffermarsi sulle conseguenze che questa circostanza avrebbe sulla
stabilità della Giordania, del Libano e sulla sicurezza di
Israele.
Saddam Hussein
Un'eredità pesante
Ma a parte le opzioni politiche dei paesi del Golfo che
sottovalutano il pericolo jihadista e sopravvalutano quello
sciita, le vittorie dell’ISIS sul terreno hanno anche diverse
motivazioni, soprattutto di ordine militare. La ragione principale
risiede nella scarsa affidabilità dell’esercito iracheno che a
Mosul e a Ramadi ha preferito scappare piuttosto che combattere
contro l’ISIS ed ha abbandonato durante la fuga un arsenale di
armi e mezzi. Nella sostanza oggi non è tanto la bravura militare
dell’ISIS a fare premio, quanto la scarsa belligeranza delle
truppe che lo combattono.
Qui il discorso parte da lontano: la caduta di Saddam nel 2003, il
conseguente scioglimento dell’esercito iracheno su decreto del
reggente americano del tempo, Paul Bremer, e la sua successiva
ricostituzione ad appannaggio quasi totalitario degli sciiti, fino
ad allora emarginati ed estromessi dalle vicende militari. In
pratica, nel 2003/2004 l’esercito iracheno rinasce dal nulla senza
quadri qualificati o con esperienze belliche pregresse. A questa
invalidità di partenza se ne aggiunge subito un’altra: la
Coalizione, soprattutto quella di estrazione anglo-americana, non
si fida di questa nuova Forza Armata. Ne consegue che non sono
forniti armamenti e/o addestramenti adeguati.
Dalla caduta di Saddam Hussein ad oggi, l’unica componente capace
di fare la guerra in Iraq sono i Peshmerga del Kurdistan. I curdi
sono gli stessi a cui sinora, per motivi politici legati alla
suscettibilità turca ed al pericolo di una spartizione etnica
dell’Iraq, gli americani si rifiutano di fornire armamenti
pesanti. Quel poco che viene passato transita prima per Bagdad e
non arriva direttamente. I sunniti che invece prima combattevano
per Saddam Hussein sono adesso, nella stragrande maggioranza,
confluiti nelle milizie dell’ISIS.
L’esercito iracheno è oggi la diretta conseguenza di queste
circostanze pregresse.
Lo stallo americano
Questo spiega le sconfitte e spiega anche i recenti commenti del
Segretario americano alla Difesa, Ashton Carter, che ha accusato
l’esercito iracheno di non aver voglia di combattere. Ovvie le
rimostranze del premier iracheno Haider al Abadi ed i tentativi
del Vice Presidente USA Joe Biden di attenuare la diatriba, ma
questo non cambia la sostanza delle cose. Sullo stesso argomento e
con analoghe conclusioni si è espresso anche il Capo di Stato
Maggiore Congiunto americano, Martin Dempsey.
Gli Stati Uniti, prima del loro ritiro dall'Iraq nel 2011, avevano
speso oltre 25 miliardi di dollari per addestrare ed equipaggiare
l’esercito iracheno . Uno sforzo economico che non aveva prodotto
i risultati sperati. E vale qui ricordare anche una recente
dichiarazione pubblica del Presidente americano Barack Obama: “Se
gli iracheni non hanno la volontà di combattere per la propria
sicurezza, non lo possiamo fare noi per loro”.
In altre parole, gli americani possono appoggiare la guerra del
governo iracheno contro i jihadisti, ma niente intervento diretto
delle truppe statunitensi sul terreno. Specie adesso che anche i
volontari sciiti, al Hashd al Shaabi ovvero milizie popolari, ed
anche iraniani affiancano le truppe regolari di Abadi. Si parla
complessivamente di quasi 100.000 uomini che militarmente tendono
ad operare autonomamente.
Oggi sono rimasti in Iraq circa 3.000 soldati americani, di cui
800 a protezione delle proprie strutture e personale e circa 2200
per dare supporto addestrativo e logistico alle forze di sicurezza
locali. Anche il sostegno fornito ai ribelli siriani incontra
molte difficoltà perché c’è molta diffidenza di fondo e c’è anche
una divergenza di principio: i ribelli vogliono combattere Assad e
non l’ISIS.
Haider al Abadi
Un esercito fantasma
E' oggi difficile stabilire il numero degli effettivi a
disposizione dell’esercito iracheno. Nel 2009 erano circa 210.000
uomini, stesso dato riconfermato nel 2011 all’atto del ritiro
americano. Oggi si parla di circa 140.000 uomini, di cui solo
48.000 in grado di combattere. Sulla carta esisterebbero 14
Divisioni composte complessivamente di 263 battaglioni, ma sono
dati empirici. Due Divisioni, circa 30.000 uomini, erano quelle
scappate nel giugno scorso da Mosul di fronte a circa 1.200
miliziani dell’ISIS. E non meraviglia che a Ramadi sia avvenuto
qualcosa di simile il 17 maggio scorso.
L’inefficienza dell’esercito iracheno ha però varie cause a
prescindere dagli errori di Bremer nel 2003. Intanto vi è il
problema della composizione etnica: il 90% degli effettivi sono
sciiti e quei pochi sunniti che vi rimangono sono restii ad essere
impiegati in aree sunnite sotto il comando di ufficiali sciiti. Lo
stesso discorso vale per gli sciiti quando combattono in aree a
maggioranza sciita. Oramai la frattura religiosa è così profonda
che nessuno intende combattere contro i propri confratelli.
Pertanto il tasso di diserzione nell’esercito iracheno è molto
alto, sull’ordine di 2/300 soldati al giorno, ed il correlato
problema del reclutamento risente delle divisione religiose. Poi
vi è la corruzione: molte volte gli ufficiali trattengono gli
stipendi dei soldati, lucrano sul vettovagliamento e sulle
forniture logistiche e creano disaffezione nella truppa. Un caso
eclatante è stato quello dei cosiddetti “soldati fantasma”, truppe
inesistenti che gonfiavano gli organici e di cui si pagavano
stipendi poi incamerati dagli ufficiali. Un fenomeno che è stato
combattuto dall’attuale Premier Abadi che ha cacciato una
quarantina di ufficiali. Sembra che i “soldati fantasma” siano
circa 50.000, circa un terzo dei presunti effettivi in armi.
Ma vi sono anche questioni organizzative irrisolte: la logistica
che non funziona, la manutenzione che non esiste, problemi di
comunicazione nella catena di comando, approssimata pianificazione
strategica, addestramenti limitati ed armamenti carenti.
Ad un esercito inefficiente si affiancano anche Servizi
Informativi inefficienti. Anche lì tutto inizia nel 2003/2004 con
lo scioglimento delle strutture pre-esistenti e la creazione di
nuove organizzazioni con personale dequalificato. I motivi:
mancanza di capacità e attitudine operativa e quindi sostanziale
inefficienza, scarsa vigilanza del territorio, nomina di vertici
su base etnico-religiosa e spartizione politica, mancanza di
coordinamento tra strutture sia nella parte operativa che di
analisi, duplicazioni sul piano tecnico ed amministrativo, carenze
organizzative e tecniche, burocrazia, addestramento approssimato e
scarsa tendenza all’utilizzo di nuove tecnologie.
L’unica linea di continuità tra i vecchi Servizi di Saddam e
quelli nuovi è stato il perdurante abuso di potere, il ricorso
alle torture, la violazione dei diritti umani.
Senza via d'uscita
Nel 2013, sotto la gestione dell’ex Premier Nouri al Maliki, si
era creata la figura del Commissario Politico nelle Forze Armate e
le promozioni non seguivano più criteri di meritocrazia, ma solo
di lealtà politica. Tutte situazioni ereditate da al Abadi e che
tuttora incidono negativamente sul morale dell’esercito iracheno.
Ed è soprattutto molto difficile che i sunniti siano invogliati a
combattere per il loro Paese quando la loro popolazione vive in
maggioranza in aree sotto controllo dell’ISIS. Questo dato dà
anche la misura del disfacimento sociale dello Stato iracheno
dalla caduta di Saddam Hussein: sunniti e sciiti si odiano ed i
curdi vivono in piena autonomia statuale. Ed adesso la presenza
nei combattimenti contro l’ISIS di unità paramilitari sciite a
fianco dell’esercito regolare sta aumentando queste differenze
religiose e settarie.
Tutto questo spiega oggi perché l’ISIS controlli un terzo
dell’Iraq e più di 2/3 della Siria. E più le milizie islamiche
mietono successi, più arrivano volontari a combattere nelle sue
fila. Oggi, secondo il Premier iracheno Haidar al Abadi, il 60%
dei combattenti dell’ISIS è straniero. Questo spiega anche la
riluttanza americana a fornire equipaggiamenti ed armamenti
sofisticati quando il rischio che finiscano in mano all’ISIS è
molto alto.