LA DOMANDA E'
ADESSO : QUANDO ISRAELE ATTACCHERA' L'IRAN ?

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Con il passare del tempo e senza
che si intraveda una soluzione negoziata alla sospensione del
programma nucleare iraniano, la determinazione israeliana ad
attaccare l'Iran diventa ogni giorno sempre piu' impellente e piu'
manifesta.
Pressioni diplomatiche, sanzioni, minacce piu' o meno velate, sabotaggi, attentati, guerra cibernetica, non sono altro che il prologo di quello che nel prossimo futuro potra' essere uno scontro armato tra Tel Aviv e Teheran.
Netanyahu non ha mai fatto mistero delle sue intenzioni, appoggiato dal Ministro della Difesa Ehud Barak e da una serie di personaggi politici come Avigdor Lieberman e da formazioni politiche di estrema destra. Ha nominato il 14 agosto al Ministero della difesa interna un altro interventista come Ben Avi Ditcher, ex capo dello Shin Bet ("Servizio di Sicurezza Generale" ovvero Servizio Interno). Nelle sue linee essenziali, la recente creazione di un governo di unita' nazionale e l'appoggio ottenuto del "Kadima" di Shaul Mofaz (altro interventista) rendono maggioritaria la fazione interventista da chi invece si oppone ad un'ulteriore avventura militare paventandone i pericoli.
Nella Knesset il Premier ha adesso una maggioranza che gli garantisce un'ampia discrezionalita' e per questo, almeno sul piano politico interno, non incontra seri ostacoli. Peraltro, modificando in agosto alcune procedure governative, adesso il Primo Ministro potra' ordinare una operazione militare senza il parere dell'Esecutivo o dei vertici militari.
Tuttavia, ci sono anche una serie di personalita' importanti che sono ostili ad un intervento armato: l'ex Capo di Stato Maggiore (dal 2007 fino al febbraio 2011) Gavriel Ashkenazi, l'ex Capo Capo dello Shin Bet (dal 2005 fino al maggio 2011) Yuval Diskin, l'ex Capo del Mossad Meir Dagan, l'ex Capo dei Servizi Militari Amos Yadlin, l'ex consigliere Uzi Arad. Tutte persone altamente qualificate e del cui parere Netanyahu non sta tenendo assolutamente conto.
I preparativi della popolazione
Nel gennaio di quest'anno e' stata condotta in Israele una esercitazione che prefigurava un attacco missilistico con ordigni radioattivi e/o chimici. L'esercitazione denominata "Nube oscura" aveva lo scopo di addestrare la cittadinanza ad affrontare una emergenza di questo tipo in caso di ostilita'. La dualita' della minaccia (chimica o radioattiva) configurava un pericolo proveniente alternativamente dalla Siria e dall'Iran.
In giugno ha avuto luogo un'altra esercitazione, la "Turning point 5", sullo scenario di un possibile attacco missilistico da parte di forze ostili vicine (Hamas e Hezbollah ) e lontane (Iran). Pur essendo una esercitazione di routine (e' dal 2006 che viene riproposta annualmente), quest'anno ha avuto particolare enfasi nel coinvolgimento della popolazione.
Intanto sta continuando la distribuzione di maschere antigas alla popolazione (siamo sull'ordine del 70% delle consegne), sono stati distribuiti opuscoli dove vengono spiegate le modalita' di comportamento in caso di attacco, le rappresentanza diplomatiche sono state informate sui rifugi dove devono recarsi, sono in costruzione nuovi rifugi ed ospedali sotterranei, per il Governo e' stata approntata una sede alternativa protetta in Giudea (costo di 250 milioni di dollari, puo' ospitare centinaia di persone), e' stato predisposto un sistema di comunicazione di immediato pericolo con lancio di messaggi su tutti i telefonini, sono stati aggiornati i piani di evacuazione, e' in via di completamento un nuovo sistema di allarme nel Negev che calcolando in tempo reale la traiettoria dei missili in arrivo da' poi informazioni e disposizioni alla popolazione per favorirne la protezione.
Ma a parte i preparativi tecnici, la popolazione viene adesso psicologicamente preparata, in modo sistematico, ad un prossimo intervento armato. L'opzione militare viene presentata come ineludibile. Netanyahu ricorre in continuazione, nelle sue esternazioni pubbliche, sul pericolo rappresentato dall'Iran, paragona la minaccia nucleare di Teheran all'Olocausto, pone in correlazione l'opzione militare alla sopravvivenza della popolazione. E molte volte, sotto questo aspetto, i suoi discorsi acquistano toni messianici perche' volutamente alterna il destino degli israeliani a quello degli ebrei.
Anche Ehud Barak, che asseconda il Premier in questi scenari apocalittici, quando accenna alla possibilita' che da una ipotetica reazione missilistica iraniana possano scaturire vittime tra la popolazione sull'ordine di circa 500 persone (in realta' lo studio al riguarda ipotizza dalle 500 alle 3000 vittime) per un conflitto che potrebbe durare 30 giorni, mette in atto una strategia psicologica allo scopo di rendere ancora piu' immanente l'opzione militare quantificandone, in anticipo, i costi umani e la durata (quindi si tratta di un progetto in avanzato stato di attuazione). Secondo indiscrezioni di alcuni giornali israeliani, sarebbe anche stato stimato il costo giornaliero di una operazione militare contro l'Iran: 375 milioni di dollari (spese militari) a cui aggiungere il costo di un bloccaggio temporaneo dell'economia (250 milioni di dollari al giorno).

La preparazione militare
Vi sono, da parte di Israele, tutte una serie di iniziative e predisposizioni che postulano una prossima avventura militare: batterie missilistiche approntate per offesa missilistica e difesa antimissile ("Iron Dome", il sistema "Homa"), acquisizione di bombe e testate di profondita' per colpire installazioni sotterranee (da montare sui missili "Jericho"), la configurazione del drone "Heron" per il trasporto di sistemi di disturbo elettronico, le ripetute esercitazioni di aerei da combattimento israeliani per attacchi al suolo, l'acquisizione di aerei cisterna per rifornimenti in volo, esercitazioni nell'utilizzo di munizioni in fibra di carbonio per mettere fuori uso la rete ed il sistema elettrico iraniano, acquisizione ed impiego di sistemi ed armamenti elettronici, l'impiego di satelliti spia ("Ofeq", "Tecsar" "Blue and White"), l'approntamento - con l'aiuto tedesco - di testate nucleari sui sottomarini Dolphin.
Ma nonostante tutto questo Israele ha bisogno anche di altri supporti americani: l'utilizzo dei sistemi radar dislocati in Qatar, altri dispositivi tecnologici per arrivare sugli obiettivi in modo simulato, accesso alle intercettazioni delle comunicazioni che gravitano nel Golfo, accesso alla raccolta di intelligence in modo continuativo e non filtrato, ausilio dei drone che girano sopra l'Iran.
Il rapporto con gli Stati Uniti
I grossi problemi che Netanyahu sta affrontando sono soprattutto con gli Stati Uniti. Il Presidente Barack Obama e' particolarmente ostile ad avventurarsi in un'altra guerra dagli esiti incerti non solo sul piano militare, ma soprattutto sul piano della stabilita' della regione. L'ondata di risentimento che ultimamente si e' riversata contro gli Stati Uniti in molti Paesi musulmani per il film blasfemo su Maometto e' sicuramente il campanello d'allarme di una tensione sociale che si configura in chiave anti-americana e che quindi potrebbe ulteriormente accentuarsi se Washington affiancasse Tel Aviv in un'altra avventura militare.
Israele vorrebbe ottenere dagli U.S.A. la definizione di una linea temporale rossa oltre la quale, in assenza di risultati tangibili, dovrebbe automaticamente scattare un attacco alle infrastrutture nucleari iraniane. Si tratta di una concessione che gli Stati Uniti non intendono fare, soprattutto in questo momento in cui e' in corso la campagna per il mandato presidenziale. Netanyahu, che nel tempo e per i suoi atteggiamenti provocatori, si e' guadagnato l'antipatia del Presidente americano (e non solo visto che l'ex Presidente francese Sarkozy lo definiva un bugiardo) ha cercato di inserire, meglio dire interferire, nella campagna elettorale americana portando avanti il problema del nucleare iraniano abbinato alla fedelta' statunitense verso il maggiore alleato mediorientale. Nella piattaforma elettorale del Partito Democratico si e' dovuto in fretta apporre una correzione laddove non si citava Gerusalemme come capitale di Israele.
Ovviamente, il Premier israeliano ha ottenuto l'appoggio del candidato repubblicano (che gia' a luglio ha visitato Israele mentre Obama non l'ha mai fatto. Romney e Netanyahu si conoscono bene per aver lavorato in passato in una stessa societa' americana), ha attivato la lobby ebraica per appoggiare Mitt Romney, ma cosi' facendo ha sicuramente peggiorato i rapporti inter-personali con il Presidente Obama che tra l'altro imputa all'intransigenza israeliana i mancati progressi nei negoziati con i palestinesi.
La diretta conseguenza di questa situazione e' che il previsto incontro tra Netanyahu e Obama ai margini dell'assemblea generale dell'ONU a New York non avra' piu' luogo. Netanyahu incontrera' solo il Segretario di Stato Hillary Clinton. C'e' poi anche il rischio che se Obama verra' riconfermato per un secondo mandato presidenziale, questa frattura tra Israele e Stati Uniti possa ulteriormente allargarsi.
Altra conseguenza e' che, nelle prevista esercitazione congiunta israelo-americana di ottobre (la "Austere challenge 2"), il contingente U.S.A. sara' fortemente ridimensionato (1500 uomini anziche' 5000, un solo incrociatore anziche' 2, i sistemi anti-missile Patriot arriveranno probabilmente senza personale americano di sostegno). L'esercitazione che nei fatti doveva evidenziare l'impegno comune contro l'Iran , mostrera' invece una divergenza tra i due alleati.
Ma tutte queste manifestazioni di contrarieta' ad un intervento armato - almeno in questo momento - sembrano non distogliere Benjamin Netanyahu dal proseguire nelle sue velleita' militari. C'e' stato nei giorni scorsi anche uno scontro verbale tra l'ambasciatore americano a Tel Aviv, Dan Shapiro, e il Premier israeliano che accusava gli U.S.A. di inadempienza nei riguardi del programma nucleare iraniano. E questo atteggiamento provocatorio di Netanyahu continua a preoccupare fortemente gli americani che temono un colpo di testa da parte di Israele.
Il capo della C.I.A. Petraeus ha visitato Israele ai primi di settembre per un incontro con i capi dell'intelligence israeliani, ci sono state pregresse telefonate della Cancelliera tedesca Angela Merkel per convincere Netanyahu a lasciare spazio ad attivita' diplomatiche e alle sanzioni, il Capo di Stato Maggiore americano Gen. Martin Dempsey (anche lui corso a Tel Aviv nei giorni scorsi) aveva reso noto a fine agosto che gli Stati Uniti non sarebbero stati complici di un attacco israeliano contro l'Iran, ma il leader israeliano ha dichiarato pubblicamente che per la salvaguardia di Israele, non esistono vincoli morali.
Quando potra' essere fatto quest'attacco?
La scelta del momento dell'attacco gira sostanzialmente intorno a due tipi di valutazioni: di ordine militare (quando viene supposto che il programma iraniano sia vicino alla realizzazione) e di opportunita' politica.
Sul primo fattore, Israele ha fatto recentemente divulgare documenti di intelligence americani in cui si sottolineavano i progressi iraniani nel portare avanti il programma nucleare. A parte la scorrettezza di una simile iniziativa e la conseguente accusa di manipolare le informazioni, rimane il fatto che gli iraniani vanno avanti nell'acquisizione della bomba atomica. Secondo alcuni esperti, sempre israeliani, entro ottobre l'Iran dovrebbe raggiungere quello che tecnicamente viene indicato come il punto di non ritorno, cioe' il momento in cui - avendo a disposizione oltre 200 kg di uranio arricchito al 20% - potrebbe in poche settimane (5 -7) ottenere la sua bomba nucleare. Poi pero' agli iraniani occorrerebbe altro tempo tecnico per riuscire a installare le testate nucleari sui missili "Shebab 3", una testata di media gittata (1280 km) che pero' nella versione migliorata puo' arrivare a quasi 2000 km.
Sulla base di questi dati puo' essere stabilita, da parte israeliana, la citata "linea rossa", cioe' l'evento che postula l'intervento armato. Un altro elemento e' da tener conto e lo ha citato recentemente l'ex capo del Mossad, Efrain Halevyal: Israele per ragioni climatiche e meteorologiche e' contrario ad attacchi nel periodo invernale. Se si sommano tutti questi elementi si potrebbe ipotizzare un intervento armato nei prossimi 2-3 mesi. Comunque le pregresse operazioni israeliane contro i siti nucleari iracheni e siriani sono avvenute tutte in Settembre e quest'anno le festivita' dello Yom, Kippur terminano il 26 settembre.
Ma, come accennato, c'e' una valutazione di opportunita' politica. Qui entrano in gioco i rapporti con gli Stati Uniti. Conviene fare l'attacco prima delle elezioni presidenziali americane del 6 novembre, quindi con la palese ostilita' dell'amministrazione U.S.A., oppure conviene aspettare che venga eletto il nuovo Presidente? Ma se il prossimo Presidente e' sempre Obama, qual e' il guadagno per un Netanyahu che comunque non gode della simpatia della controparte? Ovviamente l'ipotesi relazionale peggiore si avrebbe con un attacco precedente alle elezioni (quindi osteggiato dall'attuale Presidente ) ed una riconferma di Obama. In quel caso l'esistente scarsa simpatia si trasformerebbe in ostilita'.
Poi c'e' da valutare l'opportunita' nel contesto regionale, dove gia' l'insorgere della cosiddetta primavera araba ha gia' creato molta instabilita' sociale. Israele ha perso il sostegno quasi acritico dell'Egitto di Mubarak e ha un rapporto alquanto difficile con il neo-presidente Morsi. Quest'ultimo e' stato recentemente a Teheran al vertice dei Paesi non allineati (e ci sono stati anche contatti recenti tra i rispettivi Servizi di Informazione). Con la primavera araba sono sorti maggioranze islamiche in molte altre nazioni, il cui collante principale e' l'ostilita' verso Israele. La Siria si sta avviando verso scenari analoghi, la Turchia non e' piu' l' alleato di una volta, i palestinesi diventano sempre piu' insofferenti di fronte a negoziati inutili. Sono tutte situazioni che creano per Israele il senso dell'isolamento e dell'accerchiamento e conseguentemente di pericolo. Un sentimento che puo' portare alla prudenza, ma anche ad una dimostrazione di forza.

Come potrebbe realizzarsi l'attacco
Israele non e' nuovo ad attacchi improvvisi verso installazioni nucleare di Paesi limitrofi. Lo ha fatto nel settembre del 1980 contro le strutture di Osiraq in Iraq (operazione "Babilonia"), lo ha fatto piu' recentemente, nel settembre del 2007, contro il sito nucleare siriano di Deir el Zor (operazione "Orchard"). Delle due operazioni quella che rappresenta caratteristiche operative simili e' quella irachena perche' si riferisce ad un obiettivo lontano che implica il passaggio sopra altri Paesi con tutte le limitazioni e precauzioni che tale circostanza comporta.
Intanto, ora come allora, l'operazione fu preceduta da una serie di operazioni clandestine (la distruzione in Francia di materiale in partenza per l'Iraq, l'eliminazione di personaggi legati al programma nucleare iracheno come lo scienziato egiziano Yehia al Mashad, sabotaggi, l'invio di minacce a tecnici e societa' straniere implicate nel progetto). L'unica differenza, tra ora e allora, e' l'utilizzo di una guerra cibernetica che allora non si configurava tecnologicamente. Quindi niente spyware o malware come "Flame", "Stuxnet", "Duqu" o "Stars". Sono cambiate, tra allora ed ora, anche gli strumenti tecnologici per bloccare i sistemi di comando e controllo della controparte.
Anche allora, alla decisione del Primo Ministro Begin e di Ariel Sharon di attaccare l'Iraq si erano elevate posizioni contrarie di altri esponenti politici (Dayan, Ezer Weizman, Yagzel Yadin) che non vennero tenute in debito conto.
Nel 1980 la distanza dell'obiettivo era sull'ordine dei 1600 km e questo implicava sia la violazione dello spazio aereo giordano e saudita, nonche' la necessita' di un rifornimento in volo per gli aerei da combattimento. Furono impiegati 8 F-16A per l'attacco (dotati di missili "Mark-84") e 6 F-15 per la copertura. In totale 14 aerei.
Per superare lo spazio aereo di Giordania e Arabia Saudita, i piloti usarono conversare in arabo con accento saudita con le varie torri di controllo durante l'attraversamento della Giordania (dando l'idea di essere aerei sauditi sconfinati nel Paese vicino), e poi, al contrario, usando linguaggio giordano (nonche' segnali radio e frequenze) per confondere i sauditi.
L'attacco fu condotto di domenica per evitare l'eventuale presenza di tecnici stranieri (e qui, invece, per l'Iran potrebbe essere utilizzato un venerdi' per sfruttare un giorno di minore vigilanza).
Una volta raggiunto lo spazio aereo iracheno, gli F-16A volarono verso l'obiettivo con volo radente per non essere intercettati dai radar o dalla difesa aerea, mentre gli F-15 si sparpagliarono nello spazio aereo per confondere il nemico. L'attacco duro' circa 2 minuti, 8 missili (dei 16 lanciati) colpirono la struttura, dopodiche' gli aerei israeliani fecero ritorno alle loro basi viaggiando ad alta quota.
Nel presumibile prossimo attacco, Israele dovra' affrontare gli stessi problemi: non farsi riconoscere durante il raggiungimento dell'obiettivo (anche se l'Arabia Saudita potrebbe essere disponibile a non "vedere" il loro passaggio) ed il rifornimento in volo (vedasi il coinvolgimento di aerei cisterna o l'utilizzo di serbatoi piu' grandi che comunque inciderebbero sulla maneggevolezza dei velivoli).
Poi si aggiungono altri grossi problemi. Il piu' grosso e' che questa volta l'obiettivo non e' puntiforme: ci sono varie strutture da colpire. Le alternative sono sostanzialmente due: fare una operazione chirurgica solo su quei siti che possano maggiormente ritardare il programma iraniano, o optare per un impiego massiccio di aerei. Probabilmente la prima opzione e' la piu' verosimile.
Un altro problema e' che alcune strutture sono sotterranee, occorrono quindi bombe di profondita' e dopo il lancio di missile non sara' possibile verificare se si sono raggiunti i risultati sperati.
Per controbilanciare la reazione iraniana, nel momento dell'attacco Israele ha bisogno di poter usufruire di una grossa potenza di fuoco che potrebbe essere assicurata posizionando i suoi sommergibili nelle acque del Golfo. e' possibile farlo senza che gli iraniani se ne accorgano?
L'attacco aereo contro Osiraq del 1980 fu condotto quando l'Iraq era distratto da una guerra contro l'Iran. Qui invece il fattore sorpresa ha una valenza minore. Gli iraniani sanno che Israele li vuole attaccare, hanno gia' predisposto le contromisure e soprattutto hanno uno strumento militare di assoluto rispetto. Proprio per evitare il collasso del sistema di comando e controllo il dispositivo militare e' stato decentralizzato e diviso in 31 distretti, ognuno con una propria autonomia operativa.
Sulla eventuale condotta di un attacco c'e' oggi l'impatto delle tecnologie. Le due guerre del Golfo sono state precedute da un disturbo ("jamming") dei sistemi di comunicazione, dalla successiva distruzione dei sistemi di comando e controllo, da un black out della rete elettrica, dalla distruzione dei piu' importanti centri militari dei siti missilistici e dei loro depositi. Senza queste precauzioni il rischio di un velivolo di essere intercettato e abbattuto sono molte alte perche' rimarrebbe operativa la difesa aerea ed altrettanto alte sono le probabilita' di una immediata reazione missilistica. Nella pratica, oggi, un attacco israeliano alle strutture nucleari iraniane comporta una serie di predisposizioni tipiche di una guerra totale.
A questo punto e' bene domandarsi se un'operazione cosi' complessa possa essere condotta solo da Israele senza il supporto o il coordinamento con gli U.S.A..
Conclusioni
Un prevedibile attacco israeliano alle strutture nucleari iraniane pone una serie di problemi ed una serie di conseguenti risposte.
Benche' riluttanti e magari non consenzienti, in caso di conflitto anche gli Stati Uniti sarebbero costretti a dare aiuto a Israele. Ma a questo punto il problema e' configurare quale sarebbe il tipo di reazione da parte di Teheran: circoscritto ad un lancio di missili contro Israele ? Allargato ad un lancio di missili anche contro gli altri Paesi del Golfo e le loro strutture petrolifere (nel 2011 Arabia saudita, Emirati Arabi Uniti e Oman hanno triplicato i loro acquisti di armamenti americani)? Lo stretto di Hormuz verra' minato o bloccato dall'Iran strozzando l'export dei prodotti energetici? Hezbollah (accreditati di circa 1600 missili) apriranno un nuovo fronte armato contro Israele (Nasrallah ha gia' minacciato di colpire anche altri Paesi)? Altrettanto fara' Hamas? L'Egitto blocchera' l'afflusso di petrolio a Israele nel Sinai? Cosa succedera' nelle varie pseudo-teocrazie che si stanno sviluppando dopo la primavera araba?
Gli scenari su cui confrontarsi sono tanti e altrettante potrebbero essere le contromisure. Ma, a fattor comune, rimane la deflagrazione di una regione vitale per gli interessi economici dell'Occidente. E poi trattandosi comunque di un'operazione non risolutiva, mirata molto probabilmente a ritardare ma non a bloccare il programma nucleare iraniano, il gioco vale la posta?
Ed anche qui si sollevano le questioni collaterali: un peggioramento della recessione economica mondiale, i rifornimenti petroliferi, la stabilita' dei Paesi del Golfo Persico, una possibile alleanza sunnita-sciita in chiave anti-americana e anti-israeliana, la diffusione del terrorismo di al Qaeda con il presumibile contagio ad altri gruppi salafiti, le ripercussioni in Afghanistan.
Pur nella comune valutazione di un pericolo rappresentato dall'Iran in possesso di ordigni atomici, la sostanziale differenza di vedute tra Israele e gli Stati Uniti e' nella soluzione del problema: operazione militare massiva nel primo caso, sanzioni + diplomazia + eventuale intervento armato nel secondo. Tel Aviv ne fa un problema di sopravvivenza (che confonde spesso con la supremazia militare), Washington ne antepone un approccio geo-strategico con valutazioni di convenienza ora soprattutto che il mondo musulmano e' percorso da sentimenti anti-americani.
Al momento le due posizioni si confrontano in una posizione di apparente stallo. Unico segnale mandato da Washington e' stato un grosso dispiegamento di mezzi navali nel Golfo nell'esercitazione "International Mine Countermeasures Excercise 2012" che vede il coinvolgimento di molti Paesi dell'area e che durera' fino alla fine di settembre. Sicuramente un monito a Teheran, ma niente di piu'. Benjamin Netanyahu invece si sta dedicando ad una serie di interviste sulle maggiori emittenti americane per ribadire il pericolo iraniano e portare su posizioni interventiste l'opinione pubblica statunitense. Sulla base di chi prevarra' tra queste due visioni antitetiche del problema iraniano, si stabilira' la data dell'intervento militare.
Pressioni diplomatiche, sanzioni, minacce piu' o meno velate, sabotaggi, attentati, guerra cibernetica, non sono altro che il prologo di quello che nel prossimo futuro potra' essere uno scontro armato tra Tel Aviv e Teheran.
Netanyahu non ha mai fatto mistero delle sue intenzioni, appoggiato dal Ministro della Difesa Ehud Barak e da una serie di personaggi politici come Avigdor Lieberman e da formazioni politiche di estrema destra. Ha nominato il 14 agosto al Ministero della difesa interna un altro interventista come Ben Avi Ditcher, ex capo dello Shin Bet ("Servizio di Sicurezza Generale" ovvero Servizio Interno). Nelle sue linee essenziali, la recente creazione di un governo di unita' nazionale e l'appoggio ottenuto del "Kadima" di Shaul Mofaz (altro interventista) rendono maggioritaria la fazione interventista da chi invece si oppone ad un'ulteriore avventura militare paventandone i pericoli.
Nella Knesset il Premier ha adesso una maggioranza che gli garantisce un'ampia discrezionalita' e per questo, almeno sul piano politico interno, non incontra seri ostacoli. Peraltro, modificando in agosto alcune procedure governative, adesso il Primo Ministro potra' ordinare una operazione militare senza il parere dell'Esecutivo o dei vertici militari.
Tuttavia, ci sono anche una serie di personalita' importanti che sono ostili ad un intervento armato: l'ex Capo di Stato Maggiore (dal 2007 fino al febbraio 2011) Gavriel Ashkenazi, l'ex Capo Capo dello Shin Bet (dal 2005 fino al maggio 2011) Yuval Diskin, l'ex Capo del Mossad Meir Dagan, l'ex Capo dei Servizi Militari Amos Yadlin, l'ex consigliere Uzi Arad. Tutte persone altamente qualificate e del cui parere Netanyahu non sta tenendo assolutamente conto.
I preparativi della popolazione
Nel gennaio di quest'anno e' stata condotta in Israele una esercitazione che prefigurava un attacco missilistico con ordigni radioattivi e/o chimici. L'esercitazione denominata "Nube oscura" aveva lo scopo di addestrare la cittadinanza ad affrontare una emergenza di questo tipo in caso di ostilita'. La dualita' della minaccia (chimica o radioattiva) configurava un pericolo proveniente alternativamente dalla Siria e dall'Iran.
In giugno ha avuto luogo un'altra esercitazione, la "Turning point 5", sullo scenario di un possibile attacco missilistico da parte di forze ostili vicine (Hamas e Hezbollah ) e lontane (Iran). Pur essendo una esercitazione di routine (e' dal 2006 che viene riproposta annualmente), quest'anno ha avuto particolare enfasi nel coinvolgimento della popolazione.
Intanto sta continuando la distribuzione di maschere antigas alla popolazione (siamo sull'ordine del 70% delle consegne), sono stati distribuiti opuscoli dove vengono spiegate le modalita' di comportamento in caso di attacco, le rappresentanza diplomatiche sono state informate sui rifugi dove devono recarsi, sono in costruzione nuovi rifugi ed ospedali sotterranei, per il Governo e' stata approntata una sede alternativa protetta in Giudea (costo di 250 milioni di dollari, puo' ospitare centinaia di persone), e' stato predisposto un sistema di comunicazione di immediato pericolo con lancio di messaggi su tutti i telefonini, sono stati aggiornati i piani di evacuazione, e' in via di completamento un nuovo sistema di allarme nel Negev che calcolando in tempo reale la traiettoria dei missili in arrivo da' poi informazioni e disposizioni alla popolazione per favorirne la protezione.
Ma a parte i preparativi tecnici, la popolazione viene adesso psicologicamente preparata, in modo sistematico, ad un prossimo intervento armato. L'opzione militare viene presentata come ineludibile. Netanyahu ricorre in continuazione, nelle sue esternazioni pubbliche, sul pericolo rappresentato dall'Iran, paragona la minaccia nucleare di Teheran all'Olocausto, pone in correlazione l'opzione militare alla sopravvivenza della popolazione. E molte volte, sotto questo aspetto, i suoi discorsi acquistano toni messianici perche' volutamente alterna il destino degli israeliani a quello degli ebrei.
Anche Ehud Barak, che asseconda il Premier in questi scenari apocalittici, quando accenna alla possibilita' che da una ipotetica reazione missilistica iraniana possano scaturire vittime tra la popolazione sull'ordine di circa 500 persone (in realta' lo studio al riguarda ipotizza dalle 500 alle 3000 vittime) per un conflitto che potrebbe durare 30 giorni, mette in atto una strategia psicologica allo scopo di rendere ancora piu' immanente l'opzione militare quantificandone, in anticipo, i costi umani e la durata (quindi si tratta di un progetto in avanzato stato di attuazione). Secondo indiscrezioni di alcuni giornali israeliani, sarebbe anche stato stimato il costo giornaliero di una operazione militare contro l'Iran: 375 milioni di dollari (spese militari) a cui aggiungere il costo di un bloccaggio temporaneo dell'economia (250 milioni di dollari al giorno).

La preparazione militare
Vi sono, da parte di Israele, tutte una serie di iniziative e predisposizioni che postulano una prossima avventura militare: batterie missilistiche approntate per offesa missilistica e difesa antimissile ("Iron Dome", il sistema "Homa"), acquisizione di bombe e testate di profondita' per colpire installazioni sotterranee (da montare sui missili "Jericho"), la configurazione del drone "Heron" per il trasporto di sistemi di disturbo elettronico, le ripetute esercitazioni di aerei da combattimento israeliani per attacchi al suolo, l'acquisizione di aerei cisterna per rifornimenti in volo, esercitazioni nell'utilizzo di munizioni in fibra di carbonio per mettere fuori uso la rete ed il sistema elettrico iraniano, acquisizione ed impiego di sistemi ed armamenti elettronici, l'impiego di satelliti spia ("Ofeq", "Tecsar" "Blue and White"), l'approntamento - con l'aiuto tedesco - di testate nucleari sui sottomarini Dolphin.
Ma nonostante tutto questo Israele ha bisogno anche di altri supporti americani: l'utilizzo dei sistemi radar dislocati in Qatar, altri dispositivi tecnologici per arrivare sugli obiettivi in modo simulato, accesso alle intercettazioni delle comunicazioni che gravitano nel Golfo, accesso alla raccolta di intelligence in modo continuativo e non filtrato, ausilio dei drone che girano sopra l'Iran.
Il rapporto con gli Stati Uniti
I grossi problemi che Netanyahu sta affrontando sono soprattutto con gli Stati Uniti. Il Presidente Barack Obama e' particolarmente ostile ad avventurarsi in un'altra guerra dagli esiti incerti non solo sul piano militare, ma soprattutto sul piano della stabilita' della regione. L'ondata di risentimento che ultimamente si e' riversata contro gli Stati Uniti in molti Paesi musulmani per il film blasfemo su Maometto e' sicuramente il campanello d'allarme di una tensione sociale che si configura in chiave anti-americana e che quindi potrebbe ulteriormente accentuarsi se Washington affiancasse Tel Aviv in un'altra avventura militare.
Israele vorrebbe ottenere dagli U.S.A. la definizione di una linea temporale rossa oltre la quale, in assenza di risultati tangibili, dovrebbe automaticamente scattare un attacco alle infrastrutture nucleari iraniane. Si tratta di una concessione che gli Stati Uniti non intendono fare, soprattutto in questo momento in cui e' in corso la campagna per il mandato presidenziale. Netanyahu, che nel tempo e per i suoi atteggiamenti provocatori, si e' guadagnato l'antipatia del Presidente americano (e non solo visto che l'ex Presidente francese Sarkozy lo definiva un bugiardo) ha cercato di inserire, meglio dire interferire, nella campagna elettorale americana portando avanti il problema del nucleare iraniano abbinato alla fedelta' statunitense verso il maggiore alleato mediorientale. Nella piattaforma elettorale del Partito Democratico si e' dovuto in fretta apporre una correzione laddove non si citava Gerusalemme come capitale di Israele.
Ovviamente, il Premier israeliano ha ottenuto l'appoggio del candidato repubblicano (che gia' a luglio ha visitato Israele mentre Obama non l'ha mai fatto. Romney e Netanyahu si conoscono bene per aver lavorato in passato in una stessa societa' americana), ha attivato la lobby ebraica per appoggiare Mitt Romney, ma cosi' facendo ha sicuramente peggiorato i rapporti inter-personali con il Presidente Obama che tra l'altro imputa all'intransigenza israeliana i mancati progressi nei negoziati con i palestinesi.
La diretta conseguenza di questa situazione e' che il previsto incontro tra Netanyahu e Obama ai margini dell'assemblea generale dell'ONU a New York non avra' piu' luogo. Netanyahu incontrera' solo il Segretario di Stato Hillary Clinton. C'e' poi anche il rischio che se Obama verra' riconfermato per un secondo mandato presidenziale, questa frattura tra Israele e Stati Uniti possa ulteriormente allargarsi.
Altra conseguenza e' che, nelle prevista esercitazione congiunta israelo-americana di ottobre (la "Austere challenge 2"), il contingente U.S.A. sara' fortemente ridimensionato (1500 uomini anziche' 5000, un solo incrociatore anziche' 2, i sistemi anti-missile Patriot arriveranno probabilmente senza personale americano di sostegno). L'esercitazione che nei fatti doveva evidenziare l'impegno comune contro l'Iran , mostrera' invece una divergenza tra i due alleati.
Ma tutte queste manifestazioni di contrarieta' ad un intervento armato - almeno in questo momento - sembrano non distogliere Benjamin Netanyahu dal proseguire nelle sue velleita' militari. C'e' stato nei giorni scorsi anche uno scontro verbale tra l'ambasciatore americano a Tel Aviv, Dan Shapiro, e il Premier israeliano che accusava gli U.S.A. di inadempienza nei riguardi del programma nucleare iraniano. E questo atteggiamento provocatorio di Netanyahu continua a preoccupare fortemente gli americani che temono un colpo di testa da parte di Israele.
Il capo della C.I.A. Petraeus ha visitato Israele ai primi di settembre per un incontro con i capi dell'intelligence israeliani, ci sono state pregresse telefonate della Cancelliera tedesca Angela Merkel per convincere Netanyahu a lasciare spazio ad attivita' diplomatiche e alle sanzioni, il Capo di Stato Maggiore americano Gen. Martin Dempsey (anche lui corso a Tel Aviv nei giorni scorsi) aveva reso noto a fine agosto che gli Stati Uniti non sarebbero stati complici di un attacco israeliano contro l'Iran, ma il leader israeliano ha dichiarato pubblicamente che per la salvaguardia di Israele, non esistono vincoli morali.
Quando potra' essere fatto quest'attacco?
La scelta del momento dell'attacco gira sostanzialmente intorno a due tipi di valutazioni: di ordine militare (quando viene supposto che il programma iraniano sia vicino alla realizzazione) e di opportunita' politica.
Sul primo fattore, Israele ha fatto recentemente divulgare documenti di intelligence americani in cui si sottolineavano i progressi iraniani nel portare avanti il programma nucleare. A parte la scorrettezza di una simile iniziativa e la conseguente accusa di manipolare le informazioni, rimane il fatto che gli iraniani vanno avanti nell'acquisizione della bomba atomica. Secondo alcuni esperti, sempre israeliani, entro ottobre l'Iran dovrebbe raggiungere quello che tecnicamente viene indicato come il punto di non ritorno, cioe' il momento in cui - avendo a disposizione oltre 200 kg di uranio arricchito al 20% - potrebbe in poche settimane (5 -7) ottenere la sua bomba nucleare. Poi pero' agli iraniani occorrerebbe altro tempo tecnico per riuscire a installare le testate nucleari sui missili "Shebab 3", una testata di media gittata (1280 km) che pero' nella versione migliorata puo' arrivare a quasi 2000 km.
Sulla base di questi dati puo' essere stabilita, da parte israeliana, la citata "linea rossa", cioe' l'evento che postula l'intervento armato. Un altro elemento e' da tener conto e lo ha citato recentemente l'ex capo del Mossad, Efrain Halevyal: Israele per ragioni climatiche e meteorologiche e' contrario ad attacchi nel periodo invernale. Se si sommano tutti questi elementi si potrebbe ipotizzare un intervento armato nei prossimi 2-3 mesi. Comunque le pregresse operazioni israeliane contro i siti nucleari iracheni e siriani sono avvenute tutte in Settembre e quest'anno le festivita' dello Yom, Kippur terminano il 26 settembre.
Ma, come accennato, c'e' una valutazione di opportunita' politica. Qui entrano in gioco i rapporti con gli Stati Uniti. Conviene fare l'attacco prima delle elezioni presidenziali americane del 6 novembre, quindi con la palese ostilita' dell'amministrazione U.S.A., oppure conviene aspettare che venga eletto il nuovo Presidente? Ma se il prossimo Presidente e' sempre Obama, qual e' il guadagno per un Netanyahu che comunque non gode della simpatia della controparte? Ovviamente l'ipotesi relazionale peggiore si avrebbe con un attacco precedente alle elezioni (quindi osteggiato dall'attuale Presidente ) ed una riconferma di Obama. In quel caso l'esistente scarsa simpatia si trasformerebbe in ostilita'.
Poi c'e' da valutare l'opportunita' nel contesto regionale, dove gia' l'insorgere della cosiddetta primavera araba ha gia' creato molta instabilita' sociale. Israele ha perso il sostegno quasi acritico dell'Egitto di Mubarak e ha un rapporto alquanto difficile con il neo-presidente Morsi. Quest'ultimo e' stato recentemente a Teheran al vertice dei Paesi non allineati (e ci sono stati anche contatti recenti tra i rispettivi Servizi di Informazione). Con la primavera araba sono sorti maggioranze islamiche in molte altre nazioni, il cui collante principale e' l'ostilita' verso Israele. La Siria si sta avviando verso scenari analoghi, la Turchia non e' piu' l' alleato di una volta, i palestinesi diventano sempre piu' insofferenti di fronte a negoziati inutili. Sono tutte situazioni che creano per Israele il senso dell'isolamento e dell'accerchiamento e conseguentemente di pericolo. Un sentimento che puo' portare alla prudenza, ma anche ad una dimostrazione di forza.

Come potrebbe realizzarsi l'attacco
Israele non e' nuovo ad attacchi improvvisi verso installazioni nucleare di Paesi limitrofi. Lo ha fatto nel settembre del 1980 contro le strutture di Osiraq in Iraq (operazione "Babilonia"), lo ha fatto piu' recentemente, nel settembre del 2007, contro il sito nucleare siriano di Deir el Zor (operazione "Orchard"). Delle due operazioni quella che rappresenta caratteristiche operative simili e' quella irachena perche' si riferisce ad un obiettivo lontano che implica il passaggio sopra altri Paesi con tutte le limitazioni e precauzioni che tale circostanza comporta.
Intanto, ora come allora, l'operazione fu preceduta da una serie di operazioni clandestine (la distruzione in Francia di materiale in partenza per l'Iraq, l'eliminazione di personaggi legati al programma nucleare iracheno come lo scienziato egiziano Yehia al Mashad, sabotaggi, l'invio di minacce a tecnici e societa' straniere implicate nel progetto). L'unica differenza, tra ora e allora, e' l'utilizzo di una guerra cibernetica che allora non si configurava tecnologicamente. Quindi niente spyware o malware come "Flame", "Stuxnet", "Duqu" o "Stars". Sono cambiate, tra allora ed ora, anche gli strumenti tecnologici per bloccare i sistemi di comando e controllo della controparte.
Anche allora, alla decisione del Primo Ministro Begin e di Ariel Sharon di attaccare l'Iraq si erano elevate posizioni contrarie di altri esponenti politici (Dayan, Ezer Weizman, Yagzel Yadin) che non vennero tenute in debito conto.
Nel 1980 la distanza dell'obiettivo era sull'ordine dei 1600 km e questo implicava sia la violazione dello spazio aereo giordano e saudita, nonche' la necessita' di un rifornimento in volo per gli aerei da combattimento. Furono impiegati 8 F-16A per l'attacco (dotati di missili "Mark-84") e 6 F-15 per la copertura. In totale 14 aerei.
Per superare lo spazio aereo di Giordania e Arabia Saudita, i piloti usarono conversare in arabo con accento saudita con le varie torri di controllo durante l'attraversamento della Giordania (dando l'idea di essere aerei sauditi sconfinati nel Paese vicino), e poi, al contrario, usando linguaggio giordano (nonche' segnali radio e frequenze) per confondere i sauditi.
L'attacco fu condotto di domenica per evitare l'eventuale presenza di tecnici stranieri (e qui, invece, per l'Iran potrebbe essere utilizzato un venerdi' per sfruttare un giorno di minore vigilanza).
Una volta raggiunto lo spazio aereo iracheno, gli F-16A volarono verso l'obiettivo con volo radente per non essere intercettati dai radar o dalla difesa aerea, mentre gli F-15 si sparpagliarono nello spazio aereo per confondere il nemico. L'attacco duro' circa 2 minuti, 8 missili (dei 16 lanciati) colpirono la struttura, dopodiche' gli aerei israeliani fecero ritorno alle loro basi viaggiando ad alta quota.
Nel presumibile prossimo attacco, Israele dovra' affrontare gli stessi problemi: non farsi riconoscere durante il raggiungimento dell'obiettivo (anche se l'Arabia Saudita potrebbe essere disponibile a non "vedere" il loro passaggio) ed il rifornimento in volo (vedasi il coinvolgimento di aerei cisterna o l'utilizzo di serbatoi piu' grandi che comunque inciderebbero sulla maneggevolezza dei velivoli).
Poi si aggiungono altri grossi problemi. Il piu' grosso e' che questa volta l'obiettivo non e' puntiforme: ci sono varie strutture da colpire. Le alternative sono sostanzialmente due: fare una operazione chirurgica solo su quei siti che possano maggiormente ritardare il programma iraniano, o optare per un impiego massiccio di aerei. Probabilmente la prima opzione e' la piu' verosimile.
Un altro problema e' che alcune strutture sono sotterranee, occorrono quindi bombe di profondita' e dopo il lancio di missile non sara' possibile verificare se si sono raggiunti i risultati sperati.
Per controbilanciare la reazione iraniana, nel momento dell'attacco Israele ha bisogno di poter usufruire di una grossa potenza di fuoco che potrebbe essere assicurata posizionando i suoi sommergibili nelle acque del Golfo. e' possibile farlo senza che gli iraniani se ne accorgano?
L'attacco aereo contro Osiraq del 1980 fu condotto quando l'Iraq era distratto da una guerra contro l'Iran. Qui invece il fattore sorpresa ha una valenza minore. Gli iraniani sanno che Israele li vuole attaccare, hanno gia' predisposto le contromisure e soprattutto hanno uno strumento militare di assoluto rispetto. Proprio per evitare il collasso del sistema di comando e controllo il dispositivo militare e' stato decentralizzato e diviso in 31 distretti, ognuno con una propria autonomia operativa.
Sulla eventuale condotta di un attacco c'e' oggi l'impatto delle tecnologie. Le due guerre del Golfo sono state precedute da un disturbo ("jamming") dei sistemi di comunicazione, dalla successiva distruzione dei sistemi di comando e controllo, da un black out della rete elettrica, dalla distruzione dei piu' importanti centri militari dei siti missilistici e dei loro depositi. Senza queste precauzioni il rischio di un velivolo di essere intercettato e abbattuto sono molte alte perche' rimarrebbe operativa la difesa aerea ed altrettanto alte sono le probabilita' di una immediata reazione missilistica. Nella pratica, oggi, un attacco israeliano alle strutture nucleari iraniane comporta una serie di predisposizioni tipiche di una guerra totale.
A questo punto e' bene domandarsi se un'operazione cosi' complessa possa essere condotta solo da Israele senza il supporto o il coordinamento con gli U.S.A..
Conclusioni
Un prevedibile attacco israeliano alle strutture nucleari iraniane pone una serie di problemi ed una serie di conseguenti risposte.
Benche' riluttanti e magari non consenzienti, in caso di conflitto anche gli Stati Uniti sarebbero costretti a dare aiuto a Israele. Ma a questo punto il problema e' configurare quale sarebbe il tipo di reazione da parte di Teheran: circoscritto ad un lancio di missili contro Israele ? Allargato ad un lancio di missili anche contro gli altri Paesi del Golfo e le loro strutture petrolifere (nel 2011 Arabia saudita, Emirati Arabi Uniti e Oman hanno triplicato i loro acquisti di armamenti americani)? Lo stretto di Hormuz verra' minato o bloccato dall'Iran strozzando l'export dei prodotti energetici? Hezbollah (accreditati di circa 1600 missili) apriranno un nuovo fronte armato contro Israele (Nasrallah ha gia' minacciato di colpire anche altri Paesi)? Altrettanto fara' Hamas? L'Egitto blocchera' l'afflusso di petrolio a Israele nel Sinai? Cosa succedera' nelle varie pseudo-teocrazie che si stanno sviluppando dopo la primavera araba?
Gli scenari su cui confrontarsi sono tanti e altrettante potrebbero essere le contromisure. Ma, a fattor comune, rimane la deflagrazione di una regione vitale per gli interessi economici dell'Occidente. E poi trattandosi comunque di un'operazione non risolutiva, mirata molto probabilmente a ritardare ma non a bloccare il programma nucleare iraniano, il gioco vale la posta?
Ed anche qui si sollevano le questioni collaterali: un peggioramento della recessione economica mondiale, i rifornimenti petroliferi, la stabilita' dei Paesi del Golfo Persico, una possibile alleanza sunnita-sciita in chiave anti-americana e anti-israeliana, la diffusione del terrorismo di al Qaeda con il presumibile contagio ad altri gruppi salafiti, le ripercussioni in Afghanistan.
Pur nella comune valutazione di un pericolo rappresentato dall'Iran in possesso di ordigni atomici, la sostanziale differenza di vedute tra Israele e gli Stati Uniti e' nella soluzione del problema: operazione militare massiva nel primo caso, sanzioni + diplomazia + eventuale intervento armato nel secondo. Tel Aviv ne fa un problema di sopravvivenza (che confonde spesso con la supremazia militare), Washington ne antepone un approccio geo-strategico con valutazioni di convenienza ora soprattutto che il mondo musulmano e' percorso da sentimenti anti-americani.
Al momento le due posizioni si confrontano in una posizione di apparente stallo. Unico segnale mandato da Washington e' stato un grosso dispiegamento di mezzi navali nel Golfo nell'esercitazione "International Mine Countermeasures Excercise 2012" che vede il coinvolgimento di molti Paesi dell'area e che durera' fino alla fine di settembre. Sicuramente un monito a Teheran, ma niente di piu'. Benjamin Netanyahu invece si sta dedicando ad una serie di interviste sulle maggiori emittenti americane per ribadire il pericolo iraniano e portare su posizioni interventiste l'opinione pubblica statunitense. Sulla base di chi prevarra' tra queste due visioni antitetiche del problema iraniano, si stabilira' la data dell'intervento militare.
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