ISRAELE E LA SINDROME IRANIANA
Il Premier israeliano Benjamin Netanyahu
Lo
sviluppo di un programma nucleare iraniano è un po’ la paranoia
di Israele e soprattutto del suo leader politico Netanyahu. Il
premier israeliano aveva osteggiato l’accordo nucleare del 2015
firmato dal Presidente Obama arrivando a parlare al Congresso
contro il Presidente stesso.
Aveva attivato la lobby ebraica dell’A.I.P.A.C. e quella delle armi in combine con gli interessi sauditi, cosa che continua a fare tuttora con l’Amministrazione Trump.
Nel 2011, ancor prima delle trattative nucleari tra Teheran, USA, Russia, Cina e UE, Netanyahu aveva dato mandato al Capo di stato maggiore dell’esercito israeliano Benny Gantz di studiare un piano per colpire l’Iran con breve preavviso esecutivo. Una scelta peraltro ostacolata dal Mossad nella persona di Tamir Pardo che aveva poi dato le sue dimissioni. Anche il predecessore di Pardo, Meir Degan, era sfavorevole all’iniziativa.
Ma Netanyahu ha continuato con pervicacia a perseguire l’obiettivo di impedire il programma nucleare iraniano, anche quando, con l’accordo del 2015, il Joint Comprehensive Plan of Action se non altro aveva il vantaggio di poter realmente controllare le strutture nucleari iraniane e le eventuali violazioni degli accordi.
L’arrivo
di Trump
Con l’avvicendamento di Obama - che era l’artefice dell’accordo -
e l’arrivo di Trump, si è rinfocolato il contrasto tra gli USA e
l’Iran. Trump ha interrotto una tradizione della politica estera
in Medio Oriente che mirava ad una equidistanza tra gli opposti
contenziosi e non, come avviene adesso, di totale appiattimento
sugli interessi israeliani.
E’ cambiato anche l’approccio nei rapporti bilaterali, fatto
adesso di minacce, contrasti, ritorsioni, imposizioni.
Privilegiando, in sintesi, un bullismo negoziale al silente lavoro
di una diplomazia.
Tutto questo ha ingenerato in Israele l’idea che adesso, rispetto
al passato, l’Iran possa essere fortemente ridimensionato nel suo
potere regionale, non precludendo anche l’ipotesi estrema di una
guerra.
Una coalizione innaturale
Oltre che sull’aggressività, sinora verbale, di Trump, Israele può
anche contare sull’interesse di altri Paesi della regione nel
contrastare l’egemonia iraniana.
E’ il caso dell’Arabia Saudita che in pratica è l’altro
contendente arabo nei rapporti di forza e di egemonia nel golfo.
E’ il caso degli Emirati Arabi Uniti, fedeli alleati dei sauditi
nella guerra in Yemen e che condividono con Ryadh il pericolo di
un allargamento del potere iraniano che potrebbe mettere in
pericolo la loro stessa esistenza.
Nel Golfo Persico si concentra il maggior traffico di idrocarburi
verso il resto del mondo. Lo stretto di Hormuz è un collo
geografico di 50 Km di cui una delle due sponde è sotto controllo
iraniano. Gli Emirati vi hanno tre loro piccole isole occupate
dall’Iran fin dai tempi dello Shah.
Il Gulf Cooperation Council, a cui dovrebbero aderire - anche nel
contenzioso militare con l’Iran - altri Paesi, si è nella pratica
smembrato: il Qatar è entrato in rotta di collisione con Ryadh e
ha ottenuto la protezione turca e iraniana; l’Oman, forte della
sua tradizione religiosa ibadita (una setta a metà strada tra lo
sciismo e il sunnismo) è sempre stato contrario a posizioni di
irrigidimento nei contenziosi arabi; il Kuwait si barcamena tra la
fedeltà alla causa saudita e l’imminente pericolo che potrebbero
subire i propri giacimenti che confinano con quelli iraniani; il
Bahrein, per quel che vale la sua forza militare, si dedica
prevalentemente a stroncare la dissidenza della maggioranza sciita
nel paese che rende instabile il potere del suo emiro sunnita.
L’innaturale convergenza di interessi che vede potenziali alleati
Paesi che nel passato si sono sempre schierati su fronti opposti
nelle vertenze regionali, nella regola che il nemico del mio
nemico è mio amico, può avere una valenza pratica ma non tiene
conto, almeno sinora, di quelle che potrebbero essere le reazioni
di una comunità araba regionale che si è alimentata per decenni
con la demonizzazione dello Stato ebraico. E in Arabia Saudita il
wahabismo – quello che ha alimentato la nascita di Al Qaida e
dell’ISIS – è elemento di coesione sociale e di legittimazione
della dinastia saudita.
Il collante che può legare non solo politicamente, ma anche
militarmente, Israele con altri Paesi arabi, è quindi un fattore
tutto da verificare. Ci sono state visite di emissari sauditi in
Israele e altri contatti di segno contrario in Arabia Saudita.
Circolano voci che questi contatti siano stati tenuti direttamente
dall’erede al trono saudita, Mohammed bin Salman.
Ma una cosa è avere contatti e portare avanti strategie comuni,
un’altra cosa è combattere fianco a fianco. Quando ci fu la guerra
contro Saddam Hussein, lo schieramento americano sul suolo saudita
fu oggetto di ricorrenti proteste popolari.
Il Presidente U.S.A. Donald Trump
Perché l’accordo nucleare è stato cancellato
Sicuramente un elemento che ha determinato la cancellazione da
parte di Trump dell’accordo è stato quello di contrastare con un
gesto eclatante quanto fatto dal presidente Obama.
Comunque l’accordo è stato cancellato dagli americani ma
considerato ancora valido da altri firmatari presenti alle
trattative: Unione Europea, Cina e Russia.
Come detto, l’accordo - che magari poteva essere anche migliorato
– aveva il pregio di rendere possibili i controlli sulle strutture
nucleari iraniane.
Israele ha sempre osteggiato l’accordo, soprattutto per una
questione ineludibile: con o senza l’arma nucleare, l’Iran ha la
capacità di acquisire esperienza e know-how nel settore nucleare
che ovviamente, all’occorrenza, potrebbe risultare utile nella
produzione di un ordigno nucleare senza bisogno di assistenza
straniera.
La sola idea che un altro paese nella regione possa ledere la
supremazia nucleare israeliana costituisce per Israele motivo di
forte preoccupazione.
Il problema è però questo: se si blocca l’accordo del 2015, come
ha fortemente voluto Israele, e non si mette in opera un’altra
forma di deterrenza contro l’Iran, si rischia di favorire lo
sviluppo nucleare di Teheran e non di bloccarlo.
Per bloccarlo occorrerebbe una guerra ed è forse quello che oggi
passa per la testa di Netaniahu e Trump.
Il fattore religioso
Il contenzioso tra l’Iran e le altre monarchie del Golfo non è
solo un problema di egemonia politico-militare o di interessi
economici. La linea che divide le parti in causa è anche
religiosa: sciismo contro sunnismo.
Come tutti i contrasti che si alimentano anche su connotazioni
religiose, le divergenze diventano legittimate su questo parametro
rendendo molto più difficile trovare una soluzione o una
convivenza. E’ l’estremismo che diventa centrale.
È oramai storicamente dimostrato che quando scoppiano queste tipo
di guerre esse sono tra le più cruente e sanguinose.
L'Ayatollah iraniano Ali Khamenei
Due teocrazie a confronto
Se non bastasse il contenzioso in ambito musulmano, un altro
contenzioso è quello che vede su fronti opposti due teocrazie:
quella israeliana e quella iraniana.
Recentemente Israele ha approvato una legge che definisce il Paese
lo “Stato del popolo ebraico”. E’ una norma che sancisce la
legittimazione degli insediamenti ebraici (con buona pace delle
proteste palestinesi e dei divieti internazionali). La lingua
ufficiale è quella ebraica, gli altri (arabi - circa il 18% della
popolazione - altre minoranze come i drusi, cristiani e musulmani)
avranno uno status “speciale” che è l’anticamera di una
emarginazione nel quadro sociale e politico di Israele.
Sul fronte opposto c’è la teocrazia iraniana che regge
politicamente e socialmente i destini del Paese. Anche qui è tale
la divaricazione tra i connotati religiosi dei due nemici che lo
spazio per una convivenza negoziata è praticamente ridotto a zero.
L’ipotesi di una guerra
L’Iran ha una popolazione di circa 80 milioni di abitanti ed è
quindi un paese enorme. Per vincere una guerra contro una nazione
di tale entità occorrerebbe un forte impegno militare. Per fare un
esempio: 4 volte quello messo in campo contro Saddam Hussein.
Ed è un Paese che la guerra la sa fare: lo ha dimostrato a suo
tempo contro il dittatore iracheno e anche nel teatro siriano e
nella lotta contro l’ISIS.
Può sopravvivere l’Iran a una guerra che lo veda sul fronte
opposto di coalizione tra americani e paesi arabi sunniti?
La risposta è che sicuramente l’Iran soccomberebbe.
Intanto bisogna dire che per rendere operativa sul fronte della
guerra a Teheran una coalizione così variegata occorrerebbe molto
tempo e molti preparativi.
Si può obiettare che l’opzione potrebbe non essere una guerra
convenzionale (con tutti i lunghi tempi tecnici di preparazione
che richiede) ma una serie di strikes missilistici, magari contro
strutture nucleari, centri di potere o infrastrutture del Paese
che potrebbero metterlo in ginocchio.
Questa ipotesi apparirebbe sul piano pratico più realistica e
troverebbe conforto anche nelle parole di Trump che inciterebbe la
popolazione a ribellarsi contro gli ayatollah .
Ma è ampiamente dimostrato che le guerre si vincono occupando
materialmente il suolo dell’avversario. Se ciò non avviene il
nemico non è sconfitto ma solo temporaneamente indebolito. Una
situazione che lascia ampio spazio alla rappresaglia, al rancore e
alla vendetta.
Nel caso iraniano può anche essere vero che il regime non è
liberale, che alcuni diritti umani vengono sistematicamente lesi
come ricorre spesso nelle teocrazie, ma il popolo iraniano ha già
dimostrato che di fronte ad un pericolo esterno ogni dissapore
sociale interno passa in secondo piano.
La forza dell’Iran
La forza dell’Iran non è misurabile sul solo parametro militare:
se questo fosse l’unico elemento di riferimento le monarchie del
golfo - in primis l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti -
dopo le ricorrenti debacle sul suolo yemenita non esiterebbero
più.
L’Iran ha elaborato e prodotto dei sistemi missilistici che
possono, come gittata, colpire anche Israele. Questo è un
deterrente che ha impedito sinora allo stato ebraico di colpire
l’Iran.
Netanyahu avrebbe già colpito le centrali nucleari iraniane se
avesse potuto farlo impunemente. E’ un tipo di opzione già
sperimentata nel passato.
L’Iran ha tanti nemici ma ha anche molti amici.
Gli amici corrono sul parametro religioso che accomuna paesi a
maggioranza sciita o comandati da sciiti: è il caso del regime
siriano, in mano ad una minoranza alawita, e dell’Iraq.
L’Iran può contare sulla benevolenza russa e sugli interessi
congiunti con la Turchia.
Può soprattutto contare sulle milizie di volontari sciiti che
hanno acquisito esperienza militare nella guerra in Siria e Iraq,
oltre che sugli Hezbollah che sono oggi l’unico nemico diretto di
Israele. Può contare anche sui buoni rapporti con Hamas (e quindi
istigare una intifada palestinese), può aizzare quel 20% di
minoranza sciita che occupa le aree petrolifere dell’Arabia
Saudita, può aizzare e aiutare l’opposizione sciita in Bahrein,
può assistere – come già fa – gli Houthi zaidi dello Yemen nel
combattere le truppe saudite.
Se la guerra tra l’Iran e i suoi nemici non si sviluppa in una
guerra convenzionale o se questa guerra convenzionale non implica
un’occupazione del territorio iraniano, in una guerra asimmetrica,
per interposte milizie, il potere dell’Iran è sicuramente
superiore a quello di qualsiasi paese arabo regionale e a quello
di Israele.
In altre parole, colpire l’Iran e non portare a compimento la sua
distruzione significherebbe esporsi a infinite forme di
rappresaglia.