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GLI ACCORDI ITALIA - LIBIA

Il 29 dicembre 2007 il Ministro dell’Interno italiano, Giuliano Amato, arrivava  a Tripoli con un aereo Falcon dell’Aeronautica Militare per una  visita ufficiale. Al suo seguito erano il Capo della Polizia, Antonio Manganelli, il Capo di Gabinetto, Gianni De Gennaro, il Capo di Stato Maggiore della Guardia di Finanza, Gen. Paolo Poletti, oltre al Consigliere diplomatico del Ministero, Guido Lenzi. Amato veniva ricevuto dal Ministro degli Esteri libico, Abdurahman Mohamed Shalgam, e  sottoscriveva due protocolli di cooperazione per il contrasto all’immigrazione clandestina.
Il primo protocollo riguardava la cessione “temporanea” di sei motovedette della Guardia di Finanza (tre guardacoste classe “Bignami” e tre motovedette classe “V5000”) per il pattugliamento delle coste libiche. L'accordo prevedeva una serie di caveat: equipaggio misto, addestramento-assistenza-manutenzione a carico dell’Italia, area di intervento estesa dalle acque territoriali libiche a quelle internazionali, un comando operativo interforze (comandante libico; vice comandante italiano) per coordinare le operazioni in mare ed i contatti con le autorita' a Lampedusa.
L’accordo Italia-Libia nel campo dell’immigrazione clandestina era integrativo di un'iniziativa di marca europea: il Frontex, un sistema di pattugliamento congiunto di alcuni Paesi nel Mediterraneo messo in funzione dall’Europa nell’ottobre del 2005. Un pattugliamento che non aveva e non ha mai prodotto risultati apprezzabili.
Il Protocollo Amato-Shargam specificava anche che il problema dell’immigrazione non riguardava solamente i circa 2.000 km di coste libiche, ma anche i 5.000 km di frontiera meridionale e a tale riguardo citava un Memorandum firmato dalla Libia qualche mese prima con l’Unione Europea. Da qui la necessita' della messa in opera di un sistema di controllo radar su ambedue i settori.
Il secondo Protocollo siglato nel 2007 e firmato dal Capo della Polizia, Antonio Manganelli, con il Sottosegretario della Pubblica Sicurezza, Faraj Nasib Elqabaili, definiva dettagli e relative procedure di attuazione. Tra le altre cose si specifica che il naviglio fornito dall’Italia doveva essere privo di insegne e  distintivi. Venivano quindi inviati a Tripoli, come elementi di contatto, dei funzionari di Polizia.

Il cavallo di Troia

I protocolli sottoscritti facevano cenno anche ad altri aspetti che stavano a cuore alla Libia :
entro tre anni dalla firma del Protocollo, l’Italia avrebbe dovuto fornire a Tripoli, in forma definitiva, tre mezzi navali in sostituzione di quelli adibiti all'attivita' congiunta;
l’Italia si sarebbe inoltre adoperata, sempre nel campo dell’immigrazione clandestina, per favorire un accordo similare tra la Libia e l’Unione Europea e per far ottenere dei finanziamenti UE a favore di Tripoli.
A prescindere dall’opportunita' di acquisire tre imbarcazioni a titolo gratuito (fornite si senza armamenti di bordo, ma comunque sempre mezzi militari), era soprattutto questo secondo punto che interessava alla Libia: il riconoscimento del problema immigrazione – con Tripoli nel ruolo di paese penalizzato – non solo da parte dell'Italia, ma anche dall’Europa. In altre parole: internazionalizzazione del fenomeno, Libia che diventa interlocutore diretto dell’UE (con ricadute positive sull’immagine e sulla credibilita' del regime), soldi.
L’accordo Amato del dicembre 2007 non era stato il primo protocollo firmato tra Italia e Libia nello specifico settore: nel 2000 ne era stato sottoscritto uno dai rispettivi Primi Ministri (in sella Massimo D'Alema); altri due erano stati siglati a livello ministeriale nel 2002 e nel 2005. Ed e' proprio a cavallo di queste intese pregresse che l’Italia aveva gia' fornito alla controparte libica una vasta e variegata quantita' di materiali ed equipaggiamenti: battelli, veicoli  fuoristrada, veicoli pick-up, sistemi informatici per la gestione e protezione dei dati, piccole motovedette, sistemi fotovoltaici per l’illuminazione, gommoni, cani antidroga e anti-esplosivo, macchinari per il rilevamento delle impronte digitali, corsi per il personale della polizia (da quelli di lingua a quelli di investigazione, pilotaggio aerei leggeri, sicurezza aeroportuale, protezione VIP ecc.), messa in opera di tre strutture (una caserma di polizia a Gharyan portata a termine nel 2007, un centro sanitario a Ghat e Kufra in via di realizzazione), tende, pronto soccorsi mobili... In termini economici gli accordi precedenti a quello di Amato erano gia' costati all'Italia 50-60 milioni di euro.
Ed e' forse per questa disponibilita' acritica italiana a dare e pagare – peraltro in cambio di niente visto che l’arrivo di clandestini continuava ininterrotto – che la Libia voleva sempre piu monetizzare politicamente e finanziariamente il problema dell’immigrazione. Sapeva che l’arrivo di natanti in Italia era un problema di politica interna per il nostro Paese ed aveva uno strumento in mano per accentuarlo: quello di far partire piu barconi possibile verso Lampedusa. Nel contempo puntava il prossimo obiettivo di questo gioco al ricatto: l’Europa. E chi doveva aiutare la Libia a convincere l’UE? Ovviamente l’Italia.

L'arma dei barconi

Se il disegno libico si evidenziava chiaro, altrettanto evidente era il ruolo subalterno del nostro Paese. E siccome gli accordi sottoscritti non producevano – economicamente e politicamente – quello che Gheddafi si proponeva di ottenere, il flusso di migranti verso l’Italia continuava senza sosta e senza quei risultati attesi e correlati a quanto dato o addestrato:

13594 clandestini arrivati nel 2004
22824 nel 2005
21400  nel 2006
16875 nel 2007

L'arrivo nel 2008 in Italia di un nuovo governo di centrodestra a guida Berlusconi con il dicastero dell'Interno nella mani del leghista Roberto Maroni poneva ancora una volta la lotta all’immigrazione clandestina al centro delle politiche governative. Se l'Italia offriva il fianco, Geddafi ne approfittava per tirare la corda inondando Lampedusa di migranti. Nel 2008 toccavano la cifra record di 34.540 unita'. L'esodo spingeva Berlusconi a sottoscrivere con Geddafi, il 30 Agosto 2008 a Bengasi, il Trattato di amicizia, partenariato e cooperazione dove all’articolo 9 si parlava ancora una volta di cooperazione ed intensificazione della lotta al terrorismo, criminalita', traffico di droga e immigrazione clandestina.
Seguiranno tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009  tutta una serie di incontri incrociati tra Tripoli e Roma per addivenire ad un accordo operativo tra le parti. Ma l’evento politico piu eclatante fu la prima visita di Geddafi in Italia nel giugno del 2009.


Poche settimane prima, il 20  maggio del  2009, erano arrivate a Tripoli le prime 3 motovedette classe “Bignami”, in quanto la Libia non intendeva accettare natanti di minore stazza modificando nei fatti l’accordo Amato che si trasformera' in 6 motovedette “Bignami”. Furono dislocate nel porto di Zuwarah. Il pattugliamento congiunto iniziera' cinque giorni dopo. A rendere problematico fino all'ultimo momento l’accordo bilaterale non era stato solo il continuo mercanteggiamento libico, ma   anche i contrasti all’interno degli apparati di Tripoli. Le trattative, condotte inizialmente dal Ministero della pubblica sicurezza locale con l’omologo italiano, non erano state accettate dalla Marina Militare libica che era poi subentrata nella responsabilita' operativa della guardia costiera .
La cadenza degli eventi e dei negoziati non era casuale. Il 7 maggio 2009 la Libia aveva accettato  per la prima volta che dei clandestini intercettati dalle motovedette italiane fossero respinti. Nel porto di Tripoli arrivarono 210 clandestini riportati indietro da tre motovedette italiane: due della Guardia costiera ed una della Finanza. Erano migranti in maggioranza provenienti dall’Africa sub-sahariana e furono sbarcati dalle forze di sicurezza libica in modo brutale. Tra loro donne incinta, giovani e clandestini disidratati. Di loro, una volta internati dalle autorita' libiche, non si seppe piu niente.
Fino al respingimento del primo natante, i clandestini arrivati in Italia dalla Libia erano stati 6.340. Da quella data fino alla fine del 2009 ne arrivarono in Italia non piu di 1.800. Buona parte degli altri tentativi furono bloccati in mare dal pattugliamento congiunto (con ricorrenti trasbordi dei malcapitati in acque internazionali) e riportati in terra libica.

Ricatto mercanteggiato

La Libia, per evidenziare ancor piu la sua disponibilita' a collaborare con l'Italia, creava anche un organismo ad hoc denominato “Alto Comitato per la Lotta all’immigrazione clandestina”. Lo presiedeva il cognato di Geddafi, Abdallah Senussi. Il personaggio era (ed e') all’indice della comunita' internazionale in quanto oggetto di un mandato di cattura internazionale per l’implicazione in un atto di terrorismo. Questo non gli aveva impedito di diventare interlocutore diretto delle piu alte autorita' di sicurezza italiane.
Del resto la Libia intendeva presentare il conto per tutti gli sforzi profusi (e per i benefici politici ottenuti dai suoi interlocutori). In una visita ufficiale in Italia presso il Ministero dell’Interno nel giugno del 2009 il regime libico si presentava con una richiesta di svariati miliardi di euro. Tripoli voleva ancora natanti e piu grandi (4 navi da 60-70 metri, 10 motovedette fino a 35 metri, 2 rimorchiatori ), aerei (2 velivoli bimotore, 6 elicotteri Agusta 109, altri non meglio definiti velivoli per ricognizione e soccorso), un numero spropositato di veicoli (70 jeep 4x4, 40 veicoli per appoggio e combattimento, altri 800 veicoli fuoristrada non meglio precisati, 250 pick up 4x4, 120 camion 6x6 a cui aggiungere – per le  esigenze che loro definivano di secondo intervento – 550 veicoli per impiego nel deserto e altri 120 veicoli tematici come autobotti/autofficine/ambulanze). Basti pensare, in riferimento solo ai veicoli, che fino ad allora l’Italia aveva gia' fornito a Tripoli 80 fuoristrada, 150 pick up e 4 land cruiser.
Questa situazione di “cooperazione a fronte di ricatto mercanteggiato” andra' avanti fino all’inizio  della cosiddetta “Primavera Araba “ in Libia. Il Paese nel frattempo ricevera' altre 3 motovedette e si dara' inizio al progetto, fortemente voluto da Geddafi, di finanziare un sistema radar da installare ai confini sud della Libia. Ufficialmente la realizzazione doveva essere inquadrata nella lotta all’immigrazione clandestina, ma era noto – anche all’Italia - che un sistema radar e' notoriamente non idoneo contro obiettivi puntiformi come potrebbero essere dei clandestini in marcia tra le dune di un deserto. Un appalto da circa 350 milioni di euro che l’Italia aveva deciso di commissionare alla Selex Sistemi Integrati di Finmeccanica. La meta' dell'importo era a carico del contribuente italiano, una minima parte della Libia e il resto doveva venire dall’Europa (peraltro contraria ad una assegnazione del progetto senza tender internazionale e quindi fortemente restia all’esborso prefigurato). Questo progetto sembra tuttora in essere dopo la caduta di Geddafi. A tal proposito dei funzionari di Polizia sono stati nuovamente posizionati in questi giorni a Tripoli per la specifica cooperazione.

Un silenzio assordante

Non e' al momento noto come si comportera' la nuova dirigenza libica sul problema dell’immigrazione clandestina. Al momento ci sono altre priorita' nazionali con cui si deve confrontare e comunque il problema e' oggi meno immanente perche' la presenza di clandestini in Libia si e' fortemente ridotta. La guerra civile, il pericolo di essere confusi con i mercenari nigerini o maliani, la dissoluzione di quelle strutture di trafficanti operanti nel Paese con la connivenza delle forze di sicurezza locale hanno nei fatti bloccato questo esodo.
Le iniziative italiane – protratte a lungo nel tempo - per una cooperazione con la Libia nel campo dell’immigrazione clandestina sono sempre state focalizzate sugli aspetti operativi del contrasto del fenomeno migratorio, ma non  hanno mai contemplato gli aspetti afferenti la tutela di quei diritti fondamentali  come il rispetto dei diritti umani, a cui tutti – anche i clandestini – avevano diritto. Nella pratica, quando sono iniziati i respingimenti ed i rimpatri dei clandestini, non sono mai state richieste alle autorita' libiche garanzie per questa massa di diseredati.
Nel 2009 c’erano in Libia una ventina di centri di detenzione per immigrati dove, ripetutamente, avvenivano abusi, pestaggi, violenze carnali e maltrattamenti. Il tutto in condizioni igieniche inadeguate e di sovraffollamento, senza nessuna assistenza sanitaria, con talvolta uomini e donne insieme, adulti e minorenni mai separati, persecuzioni religiose per chi si dichiarava cristiano e in assenza di regole sulla durata della detenzione (il piu delle volte correlata al pagamento delle guardie carcerarie ovvero all’utilizzo dei detenuti per dei lavori in nero presso i potentati locali).
Solo pochissimi organismi internazionale erano – in linea di principio – abilitati a visitare le carceri. Se autorizzati – e limitatamente ad alcune strutture – era nell’interesse di quegli stessi enti non segnalare quanto osservato nel reale timore di essere cacciati dal Paese.
Era il caso dell’Alto Commissariato per i Rifugiati, presente in Libia dal 1991, che operava senza un memorandum d’intesa che ne autorizzasse l’attivita'. L'ACNUR svolgeva quindi la propria attivita' di verifica con dei limiti oggettivi e senza la possibilita' di divulgare i risultati delle proprie inchieste, pena la cacciata immediata da Tripoli. Del resto il regime non mancava si sottolineare una  pregiudiziale ideologica: la Libia non ha mai accettato il termine di rifugiato, soprattutto se abbinato all’aggettivo “politico”. 
Un altro organismo presente a Tripoli dal 2005 come l’IOM (Organizzazione Internazionale per  le Migrazioni), il cui scopo era quello di facilitare il rimpatrio volontario dei migranti, faceva anch’esso prevalere motivi di opportunita' sulla reale condizione dei migranti. In primis per poter continuare a operare in Libia, ma anche perche' – in qualita' di ente intergovernativo – aveva l’Italia  (Ministero dell’Interno) tra i suoi principali finanziatori e la diffusione di informazioni scomode sullo stato dei diritti umani in Libia avrebbe potuto mettere in forte imbarazzo il governo italiano.
C’era poi il Consiglio Italiano per i Rifugiati (CIR) che operava per il tramite di una Ong locale, la International Organization for Peace, Care and Development (IOPCD), nota soprattutto per essere guidata dal figlio di un membro del Consiglio della Rivoluzione, Khaled Kweldi al Humaidi. Era quindi altamente improbabile che una Ong para-governativa potesse denunciare violazioni dei diritti umani.
In ultimo vi era la Croce Rossa Internazionale che pero' non aveva sede a Tripoli, ma a Tunisi e che non era autorizzata a visitare le carceri. Questo stato di cose ha permesso che sul calvario dei clandestini scendesse un colpevole silenzio.

Cambiare tutto per non cambiare niente?

Oggi Geddafi non c'e' piu. La sua sanguinosa fine ha aperto la Libia ad un cambio di regime. Per suggellare la riapertura e la continuita' dei rapporti, il 21 Gennaio 2012 il premier Mario Monti si e' recato a Tripoli. La base di partenza e' ancora quel Trattato di Partenariato Amicizia e Cooperazione sottoscritto da Geddafi e Berlusconi il 30 Agosto del 2008. Per motivi di opportunita' ne e' stato peroƬ cambiato il nome in Tripoli Declaration.
Nelle prossime settimane e' prevista nella capitale libica la visita del Ministro dell’Interno italiano per cercare di ripristinare le basi per una cooperazione nel campo della lotta all’immigrazione clandestina. Tuttavia, le recenti dichiarazioni (24 gennaio 2012) del Ministro dell’Interno libico, Fawzi Abdelali, non lasciano ben sperare. Abdelali ha gia' ribadito che la Libia non e' “la guardia di frontiera dell’Europa” e che per combattere l’immigrazione clandestina il suo Paese ha bisogno di soldi e mezzi. Cambiare tutto per non cambiare niente?