ABDEL FATTAH AL SISI, IL NUOVO KINGMAKER MEDIORIENTALE

La Primavera Araba inizia in Egitto il 25 gennaio 2011 con proteste e manifestazioni locali che poi, a macchia d’olio, si estendono in tutto il Paese. Il Cairo, Alessandria, Suez: come aumenta la partecipazione popolare alla rivolta, aumenta automaticamente anche il livello di violenza. Il 27 gennaio è assaltata la sede del Partito Nazionale Democratico al potere. Dietro questa rivolta popolare, che affrettatamente molti analisti occidentali etichettano come sete di libertà e democrazia, c’è invece una povertà diffusa, poche aspettative per un futuro migliore, il senso di ingiustizia e di rivalsa coltivato nei confronti di una élite di pochi fortunati, legati principalmente all’establishment militare, che si arricchiscono con la corruzione mentre molti altri muoiono di fame. L'Egitto è infatti un Paese di oltre 80 milioni di abitanti con un reddito medio annuale pro capite di circa 3000 dollari malamente distribuito con macroscopiche diseguaglianze sociali. Il 30% della popolazione, ad esempio, è analfabeta.
Un uomo “affidabile”
Il regime militare che governa il Paese da circa 60 anni tenta di sedare la rivolta nel sangue, poi, in alternativa, di intraprendere una velata forma di negoziato per garantire la propria sopravvivenza. Si tenta anche, detronizzando e mettendo sotto accusa il presidente Hosni Mubarak, di scaricare le colpe di un sistema su di un capro espiatorio. Ma la protesta non si ferma, Piazza Tahrir al Cairo, diventata il simbolo della ribellione, è sempre piena di manifestanti. Compaiono sulla scena i Fratelli Musulmani che fino a quel momento non erano stati parte attiva della protesta. Danno ad una rivolta generica senza capi o programmi, il know-how di un'organizzazione solida, strutturata e radicata sul territorio, abituata da decenni di opposizione a gestire i rapporti con il regime. E’ il loro momento. Emarginano l’élite militare e il suo sistema di potere. Mubarak ed i figli finiscono sotto processo. La Fratellanza prende le redini del Paese grazie ad un largo consenso elettorale.
Mohammed Morsi diventa presidente nel giugno 2012. Un nuovo generale, Abdel Fattah al Sisi, viene nominato nell’agosto del 2012 Ministro della Difesa e Capo di Stato Maggiore dell’esercito. E’ considerato dai Fratelli Musulmani “affidabile”. Ha una moglie va in giro velata, altrettanto fa la figlia. Un cugino di Al Sisi, Khaled Lufti, muore durante i disordini per lo sgombero di una moschea a Nasr City. Il generale fa circolare l’idea di essere ideologicamente molto vicino alla Fratellanza. In più ha un curriculum di tutto rispetto: ha guidato l’intelligence militare, ha frequentato la scuola di guerra negli Usa e corsi in Inghilterra (ed in quel momento non era un dettaglio trascurabile stante il sostegno americano ed inglese alla nuova leadership egiziana), proviene da una famiglia di commercianti (quindi “rappresenta” il popolo). Al Sisi è ritenuto dai Fratelli Musulmani l’uomo giusto per sbarazzarsi di Mubarak e, con lui, del generale Mohamed Hussein Tantawi, fino ad allora Capo di Stato Maggiore dell'esercito, messo in pensione da Morsi.
Il golpe
Il nuovo presidente egiziano si ritiene così al riparo da eventuali ritorsioni da parte delle Forze Armate e, forte di questo convincimento, si dedica a tempo pieno all'islamizzazione forzata della società egiziana. Lo fa senza scrupoli e senza ricorrere al dialogo.
E’ l’inizio del suo declino perché la componente laica ed illuminata del Paese vede nelle azioni di Morsi e della Fratellanza un minare sul nascere quella democrazia del consenso ai cui molti egiziani aspiravano. I cristiani, il 10% della popolazione, gli sono contro. I problemi economici non vengono risolti e le aspettative del popolo per un futuro migliore vengono progressivamente frustrate. La corruzione, antica piaga del sistema clientelare dei militari, non viene né combattuta né sradicata. Cambiano solo i nomi di quei pochi che la esercitano, mentre la popolazione continua ad essere emarginata.
Cavalcando il crescente risentimento popolare, l’affidabile Al Sisi effettua un colpo di Stato il 3 luglio 2013. Chi credeva nell'affermazioni di una svolta definitiva nel sistema politico dell’Egitto, la via del non ritorno verso una futura democrazia, si dovrà ricredere.
Mohamed
Morsi
Un “nuovo” inizio
Dopo due anni le lancette della Primavera Araba egiziana tornano al punto di partenza. I militari riprendono le redini di quel potere che detengono dal 1952 e che solo temporaneamente avevano dovuto cedere agli oppositori di sempre: i Fratelli Musulmani. Tutti i vertici della Fratellanza sono arrestati. Molti militanti islamici vengono condannati alla pena di morte. Mubarak viene riabilitato. Il 14 agosto 2013, ad un mese dal colpo di Stato, il nuovo regime usa la mano pesante contro gli oppositori, la repressione ed i bagni di sangue vanno di pari passo.
Ci sono proteste internazionali, viene stigmatizzata la sistematica violazione dei diritti e l’abuso di potere. Ma Al Sisi va avanti per la sua strada, guadagnando da subito la stima ed il sostegno finanziario dell’Arabia Saudita. Anche gli Stati Uniti protestano. Avevano inopinatamente appoggiato fin dal primo momento l’avvento al potere dei Fratelli Musulmani e si trovano quindi in difficoltà nel cambiare nuovamente cavallo. La loro è più una protesta di principio che di sostanza.
Il 14 gennaio 2014 Morsi viene imprigionato e, al suo posto, viene nominato ad interim il presidente della Corte Costituzionale, Adly Mansour. Viene riscritta la Costituzione ed indetto un referendum per legittimare il nuovo potere. Le elezioni presidenziali del giugno 2014, anche se con un'adesione elettorale limitata (44%), danno ad Al Sisi ed al suo potere una parvenza di legalità (ottiene il 93% dei suffragi).
La stabilità nel caos
Gli abusi e le efferatezze commesse dai militari egiziani diventano presto un trascurabile dettaglio a fronte delle aree di crisi che si aprono nella regione: il conflitto tra Gaza e Israele, la guerra civile in Siria, l'avanzata dell'ISIS in Iraq, il collasso della Libia... I conflitti in corso ridisegnano anche gli scenari e le alleanze in Medio Oriente. Oltre al sostegno saudita, il Cairo si riavvicina a Tel Aviv. Il risultato è la chiusura dei ponti con Hamas, la distruzione dei tunnel con la Striscia di Gaza e la chiusura del valico di frontiera di Rafah. Sul fronte opposto, Qatar e Turchia continuano invece a sostenere i Fratelli Musulmani, ormai ricaduti in disgrazia.
La cancellerie occidentali e l'opinione pubblica sono costrette a ricredersi sul ruolo positivo che hanno i militari egiziani nel riportare ordine in patria. Alla faccia dei cultori dell'irenismo e della democrazia, Al Sisi assicura stabilità in uno dei Paesi più popolosi del Medio Oriente. Lo fa calpestando i diritti umani e con l’uso sproporzionato della forza? Non importa. I morti della restaurazione – 1150 stimati soltanto a cavallo del colpo di stato – le migliaia di arresti illegali, le torture e gli abusi sessuali delle forze speciali, i processi sommari dei tribunali militari sono presto dimenticati. I rapporti di Human Rights Watch ed Amnesty International sono presto buttati nel cestino.
Il neo-dittatore Al Sisi diventa così un uomo per tutte le stagioni: negoziatore, interventista, garante degli interessi occidentali.
Da paria a kingmaker
Nell’arco egiziano ci sono tante frecce. La prima è la lotta contro l’estremismo ed il terrorismo islamico. I militari egiziani stanno dalla parte giusta della guerra contro i nascenti califfati in Iraq, Siria, Yemen, Nigeria e Mali. L'Egitto, cosa mai avvenuta in passato, ha addirittura concesso ad Israele la possibilità di intervenire nel Sinai con i propri droni contro obiettivi islamici.
La seconda è il ruolo negoziale che la guerra dell'estate 2014 tra Hamas e Israele ha concesso al regime militare. E’ un ruolo enfatizzato dal mancato potere dirimente degli Stati Uniti. Il Cairo ha in mano la sopravvivenza di Hamas, riesce ad imporre le sue condizioni, può essere, in prospettiva, la chiave di volta di quella richiesta israeliana di de-militarizzare la Striscia. L'Egitto può anche giocare un ruolo centrale, nel prossimo futuro, tra Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese.
Poi c’è il ruolo egiziano nelle vicende libiche. Il Paese è sull’orlo della disintegrazione. In Cirenaica (area che confina appunto con l’Egitto) spadroneggiano le milizie islamiche e Ansar al Sharia, gruppi che godono del sostegno dei Fratelli Musulmani. La notte del 18 agosto 2014 non meglio identificati aerei hanno bombardato alcuni obiettivi islamici in Tripoli. L'episodio si è ripetuto pochi giorni dopo. La capacità di impiego di aerei in interventi notturni non è nelle disponibilità delle forze aeree gestite dal generale libico Khalifa Haftar. Senza sollevare problemi di sovranità (che nel caso libico appare oggi un esercizio decisamente futile), gli aerei egiziani sono intervenuti in Libia anche se la circostanza è stata ufficialmente smentita. Un'iniziativa del genere ha sorpreso gli Stati Uniti, non preventivamente avvertiti, nonostante il loro aperto sostegno all’apparato militare del Generale Haftar e a quelle milizie laiche, come quelle di Zintan, che si contrappongono a quelle filo-islamiche di Misurata (che non casualmente sono state accusate di fare arrivare armi ad Hamas attraverso il Sinai). Haftar al potere in Libia con il sostegno di Al Sisi in Egitto potrebbe costituire l’asse portante della lotta al terrorismo islamico che oggi colpisce la fascia sub-sahariana dell'Africa e la Penisola arabica.
Abdel Fattah al Sisi non disdegna il culto della personalità ed è oggi uno dei personaggi più importanti ed ascoltati della regione mediorientale. Ha avuto l’abilità di rimanere nell’ombra quando il potere dei militari sembrava in declino, ha assecondato l'emergere dei Fratelli Musulmani facendo loro credere di aderire ai loro ideali, ne ha guadagnato la fiducia per poi colpirli quando la Fratellanza si sentiva invincibile. L’unico ad aver capito fino in fondo il personaggio era stato Hosni Mubarak che aveva definito Al Sisi “astuto come un serpente”. E come il rettile, il generale ha aspettato nell'ombra per colpire la preda al momento più opportuno.
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