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LIBIA: UNA GIUSTIZIA CHE SA DI VENDETTA


khadafi children
I figli di Gheddafi: (in senso orario dall'alto a sinistra)
Saif al-Islam, Saif al-Arab, Saadi, Ayesha, Hannibal,
Khamis, Mu'tassim e Muhammad

La giustizia che fa seguito ad una guerra è sempre la giustizia dei vincitori. E più che giustizia è soprattutto vendetta. Chi vince giudica e condanna, chi perde paga, anche con la vita. E se la guerra, come nel caso libico, è stata molto cruenta, la giustizia che ne deriva appare ancora più vendicativa. Dall’aprile 2014 è stato portato avanti dal tribunale di Tripoli un processo contro i gerarchi di Muammar Gheddafi. Le accuse: crimini di guerra, omicidio, complicità nell'incitamento agli stupri durante la rivoluzione.

Il 28 luglio 2015 il tribunale ha emesso la sua sentenza: 9 condanne a morte, 8 condanne all’ergastolo, 7 imputati hanno avuto una condanna a 12 anni, 4 a 10 anni, 3 a 6 anni, uno a 5 anni e 4 prosciolti (più uno internato per infermità mentale). Condanne graduate ed imparziali secondo gli accertamenti di colpa, un iter processuale durato più di un anno, il diritto degli imputati a fare ricorso entro 60 giorni. Verrebbe da dire che la giustizia è stata equa, ma in realtà non è proprio così.

Intanto un processo condotto in un contesto di guerra civile come è oggi la situazione libica manca dei fondamentali presupposti di serenità anche da parte di chi giudica. Sono anche stati lesi i diritti degli imputati, come pubblicizzato da varie organizzazioni umanitarie internazionali (Human Rights Watch e Amnesty International) e dallo stesso Commissario ONU per i Diritti Umani: maltrattamenti dei detenuti, divieto di accesso agli avvocati difensori ai propri assistiti, processi condotti in assenza degli imputati.

Ma la legittimità della sentenza di Tripoli viene meno anche per un’altra circostanza: il governo di Tripoli, il suo Congresso Generale, i suoi apparati giudiziari e di polizia non sono internazionalmente riconosciuti in quanto il governo libico legittimo è quello di stanza a Tobruk. Quindi una sentenza emessa a Tripoli, anche dal punto di vista del diritto internazionale, è abusiva.

Ma entriamo nel merito delle condanne (non delle motivazioni delle sentenze che verranno rese note in un momento successivo) alla pena capitale.

Seif al Islam è il figlio maggiore (della seconda moglie) di Gheddafi. Quando il padre era al potere era in competizione col fratello Mutassim in qualità di aspirante erede al posto del padre. Era sicuramente il più moderato della famiglia, aveva studiato all’estero ed era portatore di una visione più occidentale del mondo libico. Aveva cercato di dare al regime caratteristiche di maggiore democraticità cercando di limitare gli abusi nel campo dei diritti umani. Era anche favorevole al dialogo con l’opposizione e per tutto questo era anche entrato in rotta di collisione con la vecchia guardia al potere.

Non era sicuramente un uomo d’armi. Sono state le circostanza belliche e le regole della tradizione familiare araba (il primogenito che prende il posto del padre) a farlo diventare tale. Né era mai rimasto coinvolto nelle efferatezze del regime. Certo, nel corso della guerra , soprattutto per il fatto di essere il figlio maggiore, Seif al Islam ha svolto un ruolo di primo piano. Se qualcuno della famiglia doveva trovarsi sul banco degli imputati non era certo lui.

Ma oggi Seif è un simbolo e come tale è stato giudicato. Oramai la famiglia Gheddafi è smembrata e decimata. Dopo una prolungata permanenza in Algeria, il fratellastro Mohammed con il fratello Hannibal, la sorella Aisha e la madre Safiya sono rifugiati dal 2013 in Oman; il padre ed fratelli Mutassim, Khamis, Seif al Arabi sono morti nel corso della guerra.

Seif era stato catturato il 19 novembre 2011 durante la fuga verso il Niger (il padre era stato ucciso un mese prima) dalle milizie di Zintan.

Nelle mani dei libici di Tripoli vi è anche il fratello Saadi, estradato dal Niger (si parla anche di una elargizione di 2 milioni di dollari alle autorità nigerine per tale circostanza) nel marzo del 2014. Saadi, per questioni temporali, non è stato inserito in questo processo, ma verrà giudicato a parte. Anche se il personaggio è più noto per le sue trasgressioni alle regole della famiglia, per le liti con la moglie e per la sua passione calcistica che non per i misfatti del regime (durante la guerra rivestiva comunque il grado di colonnello) è fortemente prevedibile che anche lui nel prossimo futuro verrà condannato a morte. Simbolo minore della deprecata famiglia Gheddafi, ma pur sempre simbolo.

La condanna di Seif implica anche altre situazioni di contrasto. Intanto, se la pena di morte verrà confermata lui non potrà essere giustiziato in quanto detenuto nelle carceri delle milizie di Zintan (quelle che lo avevano catturato) che sono in contrasto con quelle di Tripoli ed alleate con il governo riconosciuto di Tobruk. Zintan ha fatto già sapere che non lo consegnerà, ma, nello stesso tempo, aveva dato a suo tempo l’autorizzazione a Tripoli di giudicarlo.


senussi
Abdullah al Senussi


L’altra questione è che dal 27 giugno 2011 è attiva anche una richiesta di giudizio da parte della Corte Penale Internazionale (ICC) de L’Aia su Seif. E’ imputato per crimini contro l’umanità (assassinio, persecuzione) in qualità di “de facto Primo Ministro” libico. Con lui era stato incriminato il padre (poi morto) e lo zio Abdullah al Senussi (tuttavia nel luglio 2014 l’ICC ha dichiarato inammissibile il suo giudizio sul personaggio e ha fatto quindi decadere la richiesta di estradizione). Si può facilmente arguire che la credibilità coercitiva dell’ICC nella giustizia internazionale è alquanto bassa (ne fanno fede il caso del Presidente sudanese Omar Bashir, andato e rientrato dal Sudafrica nei mesi scorsi nonostante il mandato di cattura internazionale e gli stretti incontri del Presidente americano Barack Obama durante il suo recente viaggio in Africa col Presidente keniota Uhuru Kenyatta, anch'egli incriminato dall’ICC), ma nel caso libico vi è dietro anche un’altra contraddizione: l’avvocato che ha presentato i dossier all’ICC per conto della Libia era stato autorizzato sia da Tripoli che da Tobruk e tuttora rappresenta i due governi contrapposti nella specifica sede internazionale. Quindi su Seif, oltre al fatto della legittimità del tribunale di Tripoli, si aggiungono la mancata estradizione da Zintan e la richiesta di estradizione dell’ICC.

Se, come detto, Seif sarà condannato a morte (per fucilazione) in quanto simbolo, suo zio Abdullah Senussi (anche lui estradato dalla Mauritania su elargizione finanziaria libica alle autorità di Nouakchott nel settembre del 2012) è invece sicuramente colpevole di tali e tante efferatezze al fianco di Gheddafi che sicuramente merita una dura condanna, anche a prescindere dalla legittimità del tribunale giudicante. Senussi è sempre stato l’uomo del lavoro sporco per conto del dittatore. Su di lui pendeva un mandato di cattura internazionale da parte francese per l’abbattimento di un aereo di linea sui cieli del Niger nel 1989 (volo UTA, 170 morti). E sempre Senussi aveva guidato la repressione contro la rivolta nel carcere di Abu Salim nel 1996 dove erano stati massacrati oltre 1200 detenuti. Comunque fosse stato condotto il processo ed in qualunque parte del Paese, Senussi era già un predestinato alla pena capitale anche perché processualmente indifendibile. La sua famiglia, scappata a Londra, ha giustamente stigmatizzato il trattamento riservato al personaggio che probabilmente più di altri ha subito le angherie dei suoi attuali carcerieri (basterebbe confrontare le foto del suo arrivo dalla Mauritania con quelle apparse durante il processo).

Per probabili coinvolgimenti in massacri ed abusi anche Mansour Dhao Ibrahim, che durante la guerra civile guidava le cosiddette “guardie popolari” (le milizie volontarie che affiancavano l’esercito di Gheddafi) ed era capo della sicurezza del dittatore (era con Gheddafi quando fu catturato a Sirte), si è guadagnato la pena di morte. Sullo stesso livello di colpa può essere considerato Milad Daman, ex direttore del famigerato carcere di Abu Salim dove la tortura era elemento di routine, e altrettanto può essere addebitato a Abdulhamid Ohida, stretto collaboratore di Senussi.

Gli altri imputati minori condannati a morte sono Oweidat Gandour al Nobi (responsabile amministrativo dei Comitati Rivoluzionari a Tripoli) e Munder Mukhtar al Ghanimy. Bisognerà aspettare l’articolato della sentenza per capire di quali colpe si siano macchiati per meritarsi il plotone di esecuzione.

Ma nella lista dei condannati a morte figurano altri due personaggi eccellenti: l’ex premier Mahmoud al Baghdadi e l’ex capo dell’External Security Service, Abuzied Durda. Baghdadi è stato a lungo Primo Ministro (alias Segretario Generale del Congresso Generale del Popolo) dal marzo 2006 fino alla caduta di Tripoli nel 2011. Poi era scappato in Tunisia dove era stato condannato per ingresso illegale e poi estradato nuovamente in Libia nel giugno del 2012 quando a Tunisi governava l’Ennadha di Ghannouchi (anche in questo caso si parlava di una elargizione di 200 milioni di dollari per convincere Tunisi a restituirlo).

Per chi conosce il sistema di potere che vigeva nella Jamahiriyah sa che il potere di un Primo Ministro era pressoché nullo. Non decideva né comandava nulla, soprattutto nel campo della sicurezza o in quello militare. Certo, Baghdadi era un uomo di Gheddafi, ma ricopriva quell’incarico non per le sue efferatezze a supporto del dittatore, ma probabilmente per il suo servilismo al regime. Condannarlo per i crimini della dittatura è sicuramente una forzatura ed è forse il caso più eclatante in cui la giustizia dei vincitori si trasforma in vendetta sui vinti. Anche lui è diventato un simbolo da colpire.


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Abuzied Durda


L’ultimo caso, sempre parlando di simboli, riguarda Abuzied Durda che sicuramente era un sodale del dittatore fin dai primi giorni del colpo di Stato avendo ricoperto negli anni tutta una serie di incarichi civili, politici, amministrativi e diplomatici importanti. Durda era un fedelissimo, ma non era però mai stato implicato in attività repressive o variamente assimilabili. La sua nomina a Direttore dell’External Security Service – incarico che ricopriva durante la guerra civile – era stata motivata, agli occhi di Gheddafi, dalla necessità di ripulire l’organismo dalle efferatezze perpetrate dal suo predecessore, Moussa Koussa. L’ironia del destino vuole adesso che Durda sia stato condannato alla pena capitale, mentre il suo predecessore, scappato all’estero e che ha tradito il suo capo vendendosi agli inglesi, si gode una serena e facoltosa pensione sulle spiagge del Qatar.

Sicuramente, al pari di Moussa Koussa, sono assenti dal banco degli imputati a Tripoli molti personaggi che invece si sono macchiati di delitti e che sono tuttora latitanti. Primo fra tutti vi è Khaled Tuhami, capo dell’Internal Security Service, che invece vive tranquillo al Cairo. Con lui tanti altri personaggi minori con cui Gheddafi attuava la repressione. Quel che colpisce è che di questo entourage né Tripoli né Tobruk abbiano mai richiesto l’estradizione o la consegna all’ICC. Se questo può trovare una qualsivoglia giustificazione nelle fila del governo di Tobruk, visto che vi hanno aderito vari ex gheddafiani tra cui il noto Generale Khalifa Haftar che ne comanda le Forze Armate (non dimenticando il dettaglio che i maggiori esponenti del regime stazionano oggi in Egitto, il maggior sponsor della compagine di Haftar), analoga dimenticanza a Tripoli risulta più discutibile. Forse a Tripoli, anche per dare risonanza internazionale al proprio ruolo, ancorché considerato “illegittimo”, basta la pubblicità che il processo ai gerarchi di Gheddafi ha procurato.

La giustizia tripolina risponde quindi a delle logiche che in alcuni casi hanno poco a che fare con i parametri di una giustizia equa.

Un'ultima annotazione riguarda le manifestazioni da parte di ex gheddafiani a Sirte, Tobruk e Sebha (dove è stanziale la kabila dell’ex dittatore) ed anche al Cairo. Perché comunque oggi molti libici, anche quelli che osteggiavano la brutalità del regime, visto quel che è capitato al Paese con la guerra civile, cominciano a nutrire una certa nostalgia.

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