LA LIBIA DEL DOPO GHEDDAFI
La Libia di oggi e' fatta di 250 diverse milizie che non prendono ordini da nessuno e tantomeno dalle autorita' costituite. Sono diversamente aggregate a seconda di ricorrenti parametri di riferimento: base clanica e tribale, orientamenti politici o religiosi, estremismi e terrorismo, talvolta solo su una comune militanza criminale o su preminenti interessi familiari. Poche - sicuramente una esigua minoranza - sono le milizie che perseguono finalita' lealiste verso lo Stato centrale. Campano in quota parte con i soldi dello Stato che continua a finanziarle nell'intenzione - pro-tempore - di ammortizzarne gli eccessi e, in un futuro ancora indefinito, di disarmarle.
Ma le fazioni libiche hanno anche altre forme di sostentamento economico: taglieggiamenti, estorsioni, sequestri di persona, rapimenti. Applicano una loro giustizia, che pero' non coincide mai con la giustizia dello Stato. Vendette, rivalita', arresti arbitrari e faide familiari trovano spesso e volentieri conclusioni cruente. Morti ammazzati sono merce quotidiana in un Paese ormai allo sbando. Molti sono i conti in sospeso di una guerra civile che si sta rivelando tra le piu' sanguinarie. E l'eliminazione di membri degli apparati di sicurezza ha ormai assunto caratteristiche di sistematicita' nella Cirenaica.
Senza uno Stato
Lo Stato - se cosi' si puo' chiamare quella parvenza di autorita' centrale che cerca oggi di governare il Paese - non ha la forza militare o persuasiva di sciogliere le milizie. Aveva cercato di inglobarle in un sistema di sicurezza legale, ma senza successo. Le milizie si sentono legittimate dall'aver combattuto i lealisti di Muammar Gheddafi. A chi ha effettivamente combattuto, si sono poi aggiunti tutti quei criminali che sono scappati o sono stati liberati dalle carceri durante la guerra civile. La maggioranza di questi ultimi e' ancora in circolazione. Hanno creato bande che cercano legittimazione auto-definendosi milizie.
La Polizia non e' in grado di contrastarle. Non ha la forza per farlo e non sa da chi prendere ordini. L'impunita' regna quindi sovrana. Nell'aprile 2013 la vendita di alcool con presenza di metanolo aveva causato oltre 100 morti per avvelenamento. Il tentativo della polizia di catturare i banditi responsabili e' sfociato in uno scontro armato vinto dai criminali. Era dovuto intervenire un esponente governativo per negoziare un cessate il fuoco tra le parti. Ed ovviamente nessuno dei colpevoli, da allora, e' stato arrestato.
Molte volte sono insorte competizioni tra milizie per il controllo del territorio. E le dispute sono state risolte manu militari. Nelle grandi citta' (Tripoli, Misurata, Benghazi, Zintan) e' un fenomeno molto ricorrente. Basti ricordare la guerra intercorsa tra milizie per il controllo dell'aeroporto di Tripoli nel giugno del 2012. E la chiusura temporanea dell'altro aeroporto, quello di Mitiga, il 9 gennaio 2013.
E' saltato anche l'equilibrio che esistevano tra le varie cabile (tribu') del Paese. Su di esso Muammar Gheddafi era riuscito a controllare e gestire il proprio potere, che esulava dalle secolari rivalita' tra Cirenaica, Fezzan e Tripolitania. Era la base su cui si sviluppava la coesione e la convivenza sociale fra la popolazione libica. Una societa' per molti versi arcaica, conservatrice, gerarchizzata e retta da leggi e comportamenti tribali. La guerra civile ha costellato questi rapporti di morti e vendette, con strascichi che continuano tuttora nelle attivita' delle milizie claniche.
Esistono stime diverse su quanti uomini siano inquadrati nelle milizie armate libiche. Le autorita' di Tripoli parlano di circa 40.000 uomini. Stime esterne indicano una cifra superiore al doppio. Comunque tantissimi. Oramai fare il miliziano e' diventato un mestiere come un altro che assicura un reddito di tutto rispetto. Si acquartierano in case sequestrate, rispondono al loro capo ed ai loro interessi. Gestiscono propri luoghi di detenzione, come scoperto recentemente dalle autorita' governative e come fortemente denunciato da organizzazioni umanitarie internazionali.
Abu
Anas al Libi
Via libera al terrorismo
Uno Stato debole che non riesce a governare e a comandare lascia ampi spazi al terrorismo, come l'uccisione dell'ambasciatore americano Christopher Stevens, l'11 settembre 2012 a Benghazi, ha dimostrato. Criminalita' e terrorismo si confondono e si intersecano. L'arresto di Nazih Abdul Hamed Nabih al Ruqai, meglio noto con il nome di battaglia di Abu Anas al Libi, il 5 Ottobre 2013 nei pressi di Tripoli e' la conferma - qualora occorresse - che oggi il Paese e' tornato ad essere rifugio o obiettivo di al Qaeda. Al Libi e' un terrorista di prima grandezza, ricercato da oltre 15 anni e con una taglia sulla sua testa di 15 milioni di dollari. Era residente in Libia da oltre un anno, luogo ove si sentiva evidentemente protetto viste le sue precedenti peregrinazioni in Sudan, Pakistan e Afghanistan.
Brigate salafite spadroneggiano nella Cirenaica, compresa la milizia di Ansar al Sharia responsabile dell'uccisione del diplomatico americano. Circa 200 uomini ben armati ed equipaggiati che le forze di sicurezza non sono state sinora in grado di fronteggiare. Un altro gruppo estremista, "L'avanguardia del Califfato", nel settembre 2013 ha rivendicato l'uccisione di un esponente religioso a Derna, lo Sceicco Mustafa Rajab al Mahjoubi. Un omicidio frutto della lotta tra estremisti Salafiti e Sufi moderati.
Abdul Hakim Belhaj, gia' esponente del Gruppo Islamico Combattente Libico e coinvolto in attivita' terroristiche, dopo anni in galera e' diventato uno degli esponenti di rilievo dopo la guerra civile. Belhaj ha oggi un suo partito, il Nation Party, e gode di prestigio nonostante ultimamente sia stato accusato di essere coinvolto nell'uccisione, nel Marzo 2013, dell'esponente di sinistra tunisino Chokri Belaid. Accusa da lui negata.
Alcune milizie hanno dichiarato la loro affiliazione ad Al Qaeda. Oramai la Libia e' diventata, in questo settore, un vivaio di terroristi che vengono addestrati e poi inviati in quei teatri di guerra di cui e' pieno il Medio Oriente. Il rischio contagio per i Paesi - altrettanto deboli ed instabili - che confinano con la Libia e' molto alto. La Tunisia chiude spesso il suo confine principale a Ras Jader, sia per il pericolo derivante dal traffico d'armi che per la paura di infiltrazioni terroristiche. L'Algeria e l'Egitto, per lo stesso motivo, hanno rafforzato i propri controlli confinari.
Il sud della Libia e' stato invece dichiarato off-limits (termine ufficiale "zona militare chiusa") dalle stesse autorita' libiche perche' fuori dal controllo centrale. Vi spadroneggiano bande di predoni e si coltivano istanze autonomistiche da parte delle popolazioni berbere locali. Vi prosperano traffici di armi, droga e clandestini. Nella pratica, i confini libici con Sudan, Chad e Niger sono chiusi. Intanto a Kufra ricorrono spesso e volentieri scontri tra le tribu' degli Zuwiya e quella berbera, di origine ciadiana, dei Tebou.
Il fattore petrolio
Un Paese che produceva ed in buona parte esportava circa 1,5 milioni di barili al giorno (e che nel 2012 ha introitato circa 50 miliardi di dollari), ha oggi una produzione giornaliera di 150.000 barili, di cui solo 80.000 per l'esportazione. Motivo di questo calo? Le milizie controllano i terminali ed i luoghi di produzione e vogliono soprattutto una maggiore condivisione dei profitti. Richiesta poi diluita da collaterali richieste "politiche", come una investigazione su che fine fanno i proventi petroliferi - in una presunta lotta alla corruzione - e sulla necessita' che parte di essi vengano dirottati alle autorita' federali. Non e' un caso che in Libia oggi affiorino spinte autonomistiche e federaliste. La Cirenaica rivendica il fatto che l'80% della produzione petrolifera proviene dalla sua regione. E' un po' il prodromo di uno Stato che si sfalda. Un film gia' visto in Somalia.
Lo Stato libico, o quel che ne resta, paga le milizie per garantire la sicurezza delle installazioni, ma loro vogliono di piu'. Tripoli non e' in grado di farle sloggiare da queste infrastrutture (ammesso e non concesso abbia la forza militare per farlo), anche nel paventato pericolo di danneggiare le strutture qualora fosse necessario un intervento armato. Si e' poi arrivati al paradosso che il governo libico ha dovuto minacciare le navi petroliere di non avvicinarsi - pena attacco armato - ai terminali petroliferi per rifornirsi di petrolio venduto dai miliziani. I quali intenderebbero cosi' compensare la temporanea perdita del salario governativo.
Ma lo Stato libico - dettaglio non trascurabile - si autofinanzia, oggi come ieri, soprattutto con i proventi della vendita di prodotti energetici. Mancando questi, c'e' il rischio di un tracollo finanziario che metterebbe il governo nella impossibilita' di pagare stipendi e servizi sociali. In piu' mancherebbero anche i soldi necessari a pagare le importazioni di prodotti raffinati (benzina e gasolio) che alimentano il mercato interno. E qui corre il parallelismo con l'Iraq, uno dei maggiori Paesi esportatori di petrolio al mondo, dove tutt'oggi la benzina viene venduta soprattutto al mercato nero. Altrettanto sta avvenendo oggi in Libia.
Ali
Zeidan
La direzione sbagliata
C'e' poi il fenomeno macroscopico della corruzione. Neanche Muammar Gheddafi era riuscito a debellarlo, ma solo a strumentalizzarlo nell'esercizio del proprio potere. Oggi la corruzione e' cosi' dilagante da rappresentare il principale parametro economico di sussistenza sociale. La Libia figura infatti gia' ai primi posti fra i Paesi piu' corrotti al mondo.
In tal senso, una legge approvata dal Parlamento libico (Congresso Generale Nazionale) nel luglio del 2012, meglio conosciuta con il termine di "legge di esclusione politica", ha stabilito la non eleggibilita' a cariche pubbliche degli ex appartenenti al regime. Una iniziativa in contrasto con ogni tentativo di riconciliazione nazionale e che ha avuto il risultato di esasperare i rapporti sociali. Una delle principali pecche della legge e' il non aver contemplato coloro che, durante la guerra civile, hanno poi optato per transitare e combattere nelle fila dei ribelli. Ma forse l'obiettivo era quello di estromettere dalla vita politica personaggi come Ali Zeidan (gia' ex ambasciatore di Gheddafi), Mohammed Megaryef (anche lui ex ambasciatore del regime ed al momento della stesura della legge Speaker del Parlamento) ed un'altra trentina di deputati. Un iter parlamentare tribolato e forzato dalla presa in ostaggio temporaneo di alcuni deputati e da pressioni di ogni genere. E non e' un fatto casuale che Megaryef, dall'entrata in vigore della legge, sia scampato ad un paio di attentati.
Intanto la Corte suprema di Tripoli, Sezione costituzionale, ha recentemente reintrodotto la poligamia. Anche quel poco di buono che Gheddafi aveva fatto nei suoi 40 anni di potere per elevare lo status sociale delle donne libiche e' andato perduto. Lo stesso vale per l'erogazione della corrente elettrica, soprattutto nella capitale, oramai razionata. Nelle ore serali e' ritenuto prioritario starsene a casa e non circolare. Di notte il rischio di muoversi e' troppo alto.
Non a caso, l'ambasciata italiana ha confinato tutto il personale della sede diplomatica in un hotel, il Watan, sull'altro lato della strada di fronte all'edifico stesso. Nella pratica gli italiani, tra ufficio e sede di lavoro, percorrono solo 3-4 metri di suolo pubblico. Le misure di sicurezza sono state rafforzate dopo l'attacco al consolato generale di Bengasi il 12 gennaio 2013. Tripoli, infatti, e' ormai in balia della milizie. Nell'agosto 2012 erano scoppiate tre autobombe nella capitale libiche alle quali sono poi seguiti ripetuti scontri clanici in varie aree della capitale. Alcuni quartieri, come Souk al Juma, sono ritenuti tuttora off-limits.
E' in questo contesto di dissoluzione che, il 10 ottobre 2012, e' stato sequestrato per alcune ore il Primo Ministro Ali Zeidan all'uscita dall'hotel dove risiedeva, il Corinthia, nel centro della citta'. Sequestro avvenuto impunemente, senza nemmeno un minimo di reazione da parte delle guardie del corpo, come se si fosse trattato di un evento di normale ricorrenza nel panorama sociale libico.
Qualcuno aveva anche ipotizzato che potesse trattarsi dell'esecuzione di un mandato di cattura da parte della magistratura. Altri, in alternativa, hanno invece sollevato la possibilita' che il gesto fosse la reazione di una milizia islamica alla cattura di Abu Anas Al Libi da parte americana. Gli Stati Uniti avevano carinamente e pubblicamente fatto sapere che la extraordinary rendition aveva ricevuto il beneplacito del Primo Ministro. Cosi' come si e' parlato di un tentativo di costringere Ali Zeidan alle dimissioni. In questo caso ci sarebbe stata la longa manus del leader berbero Nouri Abusahmasin, personaggio legato ai Fratelli Musulmani, Presidente del Congresso Nazionale e quindi la persona deputata istituzionalmente a sostituire Zeidan, leader laico di ispirazione liberale.
Ma qualunque sia stata la motivazione, qualche ora piu' tardi l'esponente politico e' stato rilasciato. Pentimento da parte dei miliziani sequestratori? Assolutamente no, ma solo il risultato della minacce di intervento a favore del Premier da parte delle milizie di Misurata e di Zintan. E nel gioco dei rapporti di forza, quella di Tripoli (una milizia autodefinitasi "Camera dei rivoluzionari di Libia") era sicuramente perdente. Anche la carcerazione e il relativo processo ai personaggi del vecchio regime e' oggetto di contrasto. Zintan rifiuta tuttora di trasferire il figlio di Gheddafi, Seif al Islam, al tribunale di Tripoli. Sempre a Zintan e' in corso una faida contro la popolazione di etnia Mashasha, di origine nigerina.
La balcanizzazione della Libia e' un fatto oramai incontrovertibile. Dal 17 marzo 2011, quando e' iniziata la rivoluzione, passando per il 20 ottobre 2011, quando Gheddafi e' stato eliminato, il Paese ha fatto molta strada, ma nella direzione sbagliata. Ad un leader sanguinario, che comunque garantiva l'ordine e la tenuta del Paese, e' subentrato il caos sociale. La Libia oggi e' una nazione allo sbando ove si assiste alla dissoluzione della legalita' e del diritto.
Chi aveva combattuto a fianco dei ribelli, nell'afflato utopico di dare supporto ad una primavera araba nascente, si e' poi trovato di fronte ad uno Stato in disintegrazione, con una democrazia mai nata o desiderata, un terrorismo risorgente e un fondamentalismo islamico dilagante. Se il bilancio fosse fatto su questi parametri, il risultato sarebbe ed e' disastroso.
E' forse sulla scorta dell'esperienza libica che gli Usa hanno deciso di evitare un ulteriore coinvolgimento nelle vicende siriane. Perche' oramai la storia insegna, per chi sa leggerla o interpretarla, che ogni volta che un Paese esce da un sistema totalitario, con una popolazione che non ha acquisito sufficiente sensibilita' ai concetti di democrazia e convivenza civile, il risultato e' sempre quello di una anarchia sociale. Iraq, Siria, Libia, Egitto, Tunisia ne sono diretti testimoni.