VELLEITÀ E INTERESSI FRANCESI IN LIBIA

Emmanuel Macron
La
Libia continua ad essere un non Stato. Fayez al Sarraj, il
presidente riconosciuto dalla comunità internazionale, non comanda
a Tripoli. A Benghazi anche il cosiddetto Comandante del Libyan
National Army, Khalifa Haftar, l’uomo forte della Cirenaica, ha
anch’esso problemi nel controllo del suo territorio: non riesce ad
estirpare completamente le bande islamiche da Derna ed ha
recentemente perso il controllo di alcuni pozzi e terminali
petroliferi.
Il Paese è in mano a bande e milizie, le maggiori fonti di reddito su cui sopravvivono i libici sono il traffico di esseri umani e il contrabbando di petrolio. Ci sono poi le fazioni armate straniere – sudanesi, del Darfour, ciadiani ed elementi palestinesi. Oltre ai loro interessi diretti, svolgono la funzione di mercenari.
La sovranità del Paese è oramai condizionata, sul piano internazionale, dalle ingerenze di nazioni straniere: Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Francia e Egitto in Cirenaica (con il sostegno indiretto anche del Ciad), Turchia e Qatar in Tripolitania, presenza di reparti speciali francesi, saltuari bombardamenti americani.
Alla luce di questo stato di cose l’iniziativa del Presidente Emmanuel Macron che ha indetto, il 29 maggio scorso a Parigi sotto l’egida delle Nazioni Unite, una Conferenza internazionale sulla Libia per trovare un “percorso politico comune” e trovare una soluzione che possa ricomporre le divisioni che lacerano socialmente, militarmente e politicamente il Paese, è apparsa più come una forma di narcisismo politico che spesso alimenta la grandeur francese.
Un
tentativo messo in atto forse per sottolineare che la Francia ha
il suo peso contrattuale nelle vicende libiche, obiettivo
perseguito nel tempo anche dal predecessore Nicolas Sarkozy e poi
tracimato nell’intervento militare che ha portato all’eliminazione
del regime di Gheddafi.
Una mossa favorita dalla momentanea mancanza di un governo a Roma
che ha fornito a Parigi l’opportunità di giocare sulle vicende
libiche senza il ruolo del Paese più implicato nel processo di
pace: l’Italia.
Ma che ha tracimato nella presunzione quando ha emarginato altri attori importanti come l’Inghilterra, gli Stati Uniti e la Russia. Macron si è quindi mosso sulla basse di un prevalente interesse nazionale piuttosto che perseguendo una concertazione internazionale.
Un tentativo peraltro impostato male perché, pur cercando di fare dialogare e negoziare le maggiori entità politiche e militari del Paese, ha escluso le milizie che, nella realtà sul terreno, hanno un potere contrattuale superiore ai personaggi invitati a Parigi.
Diplomazia selettiva
L’iniziativa francese di maggio ripercorre concettualmente un analogo tentativo portato avanti, anche lì con scarsi risultati, nel luglio del 2017. In entrambe i casi è sembrata mancare un’adeguata preparazione dell’evento, sia sul piano politico che diplomatico. A cui va aggiunta una mancanza di metodo.
Inoltre, il tentativo di Macron si accavallava con un piano di azione già messo in atto dal rappresentante ONU Ghassan Salamé nel 2017 peraltro con gli stessi obiettivi: pacificare le parti, favorire le elezioni per dare un assetto istituzionale largamente condiviso al Paese. Un accavallamento di competenze tra le due iniziative che rischia di generare solo confusione.
Si è enfatizzata la presenza di Sarraj e Haftar, capi dei rispettivi Parlamenti, pensando che questo potesse bastare a portare avanti un processo di riconciliazione. L’effetto pratico è stato mortificare la legittimità del governo di Accordo Nazionale, portato a negoziare a pari livello con chi, come Haftar, questo governo non lo ha mai riconosciuto.
Il negoziato ha messo intorno al tavolo una ventina fra Paesi e organismi internazionali allo scopo di “facilitare” il negoziato. Anche sotto questo aspetto si è dato più spazio alla forma che non alla sostanza per dare una caratura ed un risalto internazionale all’iniziativa francese.
Bene la presenza dei Paesi che confinano con la Libia, bene la presenza di quelli che sinora hanno recitato un ruolo nel conflitto (Qatar, UAE, Arabia Saudita, Egitto), bene – anche se dal potere condizionante limitato – le quattro organizzazioni internazionali (Unione Europea, Lega Araba, African Union, ONU), bene la presenza dei Paesi confinanti, meno significativa quella di Congo, Olanda e Marocco.
Quello che invece è mancato nel negoziato è il ruolo di Paesi chiave come Stati Uniti, Russia e la stessa Italia nell’intento di non offuscare il ruolo della Francia e del suo presidente.

Fayez al-Sarraj
Le milizie al contrattacco
Questo modus operandi ha avuto subito un effetto tangibile. 13 milizie hanno ufficialmente annunciato di non riconoscere la Conferenza di Parigi e le relative risultanze, peraltro denunciando le ingerenze straniere nelle vicende interne del proprio Paese. Pronte a negoziare, ma non nel contesto di Parigi.
L’ostilità era soprattutto contro l’esercito di Haftar, un
personaggio che molti, non solo le citate milizie, temono non
cerchi alcun tipo di riconciliazione, ma solo la presa del potere.
Ex uomo di Gheddafi, suo sodale nel colpo di Stato del 1969, viene
comunque da quel tipo di cultura pseudo-politica.
E’ per questo che il “successo” della Conferenza di Parigi, quello di trovare un accordo per le elezioni nel Paese entro dicembre, ha dell’effimero. Parlare oggi di elezioni politiche in Libia appare solo un auspicio senza un’attuazione pratica. Non si sa ancora come verranno organizzate, quali saranno i criteri per partecipare, chi potrà partecipare e chi no, se ci saranno limitazioni o meno a partiti politici, ma, soprattutto, chi garantirà il regolare svolgimento del voto al fine di evitare brogli e chi ne garantirà la sicurezza. Si parla di supervisione internazionale. Anche qui la domanda è sempre la stessa: Chi? Come?
C’è poi la questione della cornice istituzionale della nuova Libia, dove dovranno essere stabiliti poteri e contro-poteri, attribuzioni e competenze. Ci vorrebbe a monte una nuova Costituzione da approvare con un referendum. Una Costituzione il cui problema principale è la scelta tra un potere centrale o un sistema federale.
Il rischio, nemmeno troppo implicito, è che le elezioni accentuino la polarizzazione e i contrasti tra i due maggiori contendenti o che, al contrario, il perdente possa non riconoscere la vittoria dell’avversario.
Ottenere tutto questo dopo 7 anni di guerra civile appare più che improbabile: impossibile. Anche perché la tabella di marcia è già saltata. La legge elettorale andava elaborata entro il 16 settembre (ed ovviamente approvata da tutte le parti) e il 10 dicembre si dovrebbe andare alle urne. Ma senza una effettiva riconciliazione nazionale tutto questo non si potrà fare.
Oggi il Paese è teoricamente diviso in due. Poi ci sono tante zone grigie dove nessuno controlla e dove le milizie, talvolta assimilabili a bande di criminali, gestiscono a loro discrezione il territorio.
Quindi il problema non è tanto quello di trovare un qualsivoglia accordo tra Fayez al Sarraj e Khalifa Haftar per la spartizione del potere, ma estendere il controllo di un governo laddove i due contendenti non hanno alcun potere impositivo.
Infine, un altro elemento da non trascurare è il fatto che il futuro destino della Libia non sarà deciso solo dalle fazioni libiche, ma verrà anche condizionato dagli interessi di molti attori internazionali: i Paesi mediorientali vicini e non, le superpotenze. Con un combinato disposto di agende nazionali ancor più difficile da realizzare.

Khalifa Belquasim Haftar
Cosa è mancato
La Francia si è mossa soltanto nella direzione di un accordo Sarraj-Haftar, ma ha trascurato tutto il resto. Se il narcisismo politico francese è stato soddisfatto, i risultati pratici latitano. La mancanza di inclusività di tutti gli attori libici ha pesato come un macigno.
Inoltre, era difficile pensare che un negoziatore così apertamente schierato a favore di uno dei due contendenti, come è la Francia con Khalifa Haftar, potesse svolgere un ruolo di mediazione efficace. Ad aprile il Generale libico era stato ospedalizzato per motivi di salute proprio a Parigi.
Peraltro oggi in Libia il potere non si basa sul consenso sociale o politico, ma sulla forza delle armi. Questo è l’unico potere contrattuale che funziona in un Paese dove si stima circolino oltre 20 milioni di armi. E per ottenere qualcosa bisogna che tutti questi poteri si siedano attorno ad un tavolo. Cosa che a Parigi non è avvenuta. Contrapporre Sarraj a Haftar non è stato sufficiente.
La popolazione appare apatica ad ogni sviluppo politico essendo oramai abituata a regimi totalitari ed all’assenza di regole democratiche. In oltre 7 anni di guerra civile si sono ormai consolidati centri di potere economici, molte volte frutto di attività illegali, difficili da smantellare.
E’ stato firmato un documento in 13 punti fatto di auspici o di elementi facilmente condivisibili. Testo peraltro pre-confezionato prima della conferenza. Si è parlato di unificazione della Banca Centrale Libica, di eliminare tutte le strutture parallele ed in competizione tra loro, formare un esercito unico. Un po' si è copiato l’accordo di Skhirat del 2015 con analogo risultato negativo.
Si
sono forse create delle false aspettative, ma niente di più. Si è
sbagliato soprattutto metodo. Ed anche l’ottimismo di facciata è
solo quello che serve per dire che la Conferenza di Parigi è stata
un successo.