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UN MEDIORIENTE CHE CAMBIA, LA POLITICA ESTERA CHE NON INTERPRETA

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L'insorgere della Primavera Araba ha costretto molti Paesi a confrontarsi con un mondo arabo in ebollizione, dove vecchie alleanze o vecchie rivalita' sono state modificate dagli eventi. Nel divenire di queste turbolenze politiche, tutti quei Paesi che in passato si erano posizionati su una linea di politica estera cristallizzata fra amici e nemici sono stati subitaneamente costretti a modificare i loro atteggiamenti, a cambiare approccio, a decidere sull'onda delle urgenze sociali su quale cavallo puntare, se appoggiare una nuova dirigenza o rifiutarla, se optare sui benefici di una rivoluzione o se adagiarsi sulle certezze di una restaurazione. Alleanze e rivalita' frutto di rapporti sedimentati nel tempo sono improvvisamente decadute e tutti si sono trovati davanti a dover effettuare delle scelte repentine, magari dolorose, qualche volta opportunistiche e basate piu' sull'onda emotiva degli eventi che sulla razionalita' di una valutazione di merito.

Siamo tutti fratelli

Arrivano i Fratelli Musulmani in Egitto? Gli Stati Uniti optano per appoggiare l'ondata di liberalizzazione e democratizzazione che percorre il Paese. Lo fanno a scapito di una alleanza ultra-decennale tra Washington e l'e'lite militare cairota. Abbandonano al suo destino un Hosni Mubarak isolato, stremato e malato e - senza le perplessita' che il caso comunque richiedeva - si pongono a fianco di una Fratellanza tradizionalmente ostile alla presenza americana nella regione ed all'esistenza di Israele, storico alleato di Washington.

Stesso problema per l'Arabia Saudita: il regime di Ryad si trova nella scomoda posizione di dover accettare una leadership islamica guidata da un'organizzazione come quella dei Fratelli Musulmani non particolarmente amata dai seguaci del wahabismo a scapito, anche in questo caso, del tradizionale legame del regno con i militari egiziani. Ma, a differenza degli Stati Uniti, i sauditi non abbracciano a piene mani la nuova dirigenza egiziana. Si mantengono ai margini di un rapporto formale. I sauditi non amano le rivoluzioni, non amano poi che le rivoluzioni trovino giustificazioni religiose e soprattutto non amano che vi sia un Islam politico. In parole povere: non amano i Fratelli Musulmani.

L'arrivo della Fratellanza al potere viene invece subito appoggiato da Ankara. E' troppa la similitudine tra gli eventi egiziani e quelli turchi. Un potere militare che viene scalzato da una formazione partitica islamica. Mohamed Morsi viene visto come il Recep Erdogan egiziano. Il Partito di Giustizia e Liberta' egiziano come l'AKP turco.

Poi tocca al Qatar, piccolo Stato con grandi ambizioni. La caduta dei militari egiziani fornisce a Doha lo spazio per giocare una propria, spregiudicata politica estera. Qui il motivo non e' la presunta affinita' tra la Fratellanza e le vicende dell'Emirato. La chiave di volta e' la competizione strisciante con i sauditi. Ryad ha riserve e timori su quelle organizzazioni radicali islamiche che pullulano il Medio Oriente? Il problema non si pone per il Qatar. Anzi, fornisce al Paese praterie per sviluppare e consolidare tutta una serie di opzioni in salsa islamica appoggiando tutto quel che di nuovo o di vecchio non risulta gradito ai concorrenti sauditi.

Le primavere nordafricane

Per gli eventi che si sviluppano in Tunisia i termini del problema sono piu' o meno gli stessi: un regime militare, una rivoluzione, un partito islamico che prende il potere. Stesso atteggiamento americano che abbraccia subito il presunto vagito di una democrazia tunisina (anche qui senza pensare troppo alla mancanza di affinita' tra il salafismo islamico di Rachid Ghannouchi e gli Stati Uniti), stessa titubanza saudita, stessa esultanza turca e del Qatar. Ryad fa anche di piu': offre rifugio a Ben Ali nel proprio Paese.

Rachid Ghannouchi, esule tunisino per molti anni visto con sospetto dal mondo occidentale per le presunte collusioni tra il suo movimento Ennahda ed il terrorismo islamico, diviene improvvisamente l'icona di un mondo arabo alla ricerca di giustizia sociale, democrazia e liberta'. Nessuno pone piu' di una marginale attenzione ai suoi trascorsi ai limiti dell'eversione. Ben Ali era un dittatore che prima faceva comodo a molti. Ora e' solo un autocrate circondato dal disprezzo internazionale per tutte le ruberie perpetrate insieme alla famiglia Trabelsi e per la sua violazione sistematica dei diritti umani.

Ed ecco il caso libico. Muammar Gheddafi non e' amato in Occidente e nemmeno nel mondo arabo. Per cacciarlo occorre un impegno militare internazionale. Il Qatar promette e poi aderisce con propri militari alle operazioni. L'Arabia Saudita si mantiene sostanzialmente neutrale. Gli Stati Uniti, fagocitati dall'attivismo francese, danno il loro fondamentale concorso alla vittoria sul terreno. La Turchia, inizialmente ostile all'intervento avendo sempre avuti buoni rapporti con Gheddafi, passa su posizioni neutrali. E' contraria alle operazioni anche l'Algeria che paventa - a giusto titolo - che una defenestrazione del rais portera' instabilita' e darò spazio al terrorismo islamico.

Algeri non vede di buon occhio ne' la caduta di Hosni Mubarak al Cairo, ne' la cacciata di Ben Ali a Tunisi. Il potere ad Algeri e' da sempre detenuto dai militari, anche se per interposta persona come attualmente con Abdelaziz Bouteflika. C'e' piu' empatia verso quelle leadership che piu' si avvicinano alla realta' politica algerina. Cosi' come vi e' da sempre l'avversione nei confronti delle frange islamiche radicali ed il correlato terrorismo. Del resto l'Algeria e' da oltre 20 anni che combatte contro un terrorismo interno, con decine di migliaia di morti ammazzati, e teme un ulteriore contagio dai Paesi con i quali, fra mille difficolta', una cooperazione anti-terrorismo era in atto.

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Dalla Siria alla Palestina

Insorge poi il caso della Siria. Non e' un problema per gli americani avversare il regime alawita, da sempre schierato sul fronte avverso a Israele e tradizionalmente schierato al fianco dell'Unione Sovietica ieri e della Russia oggi. Il problema che gli Stati Uniti debbono affrontare e', a livello politico, quello di contrastare l'appoggio russo a Bashar al Assad (che ha bloccato l'Onu ed evitato sinora qualsivoglia opzione diplomatica per la defenestrazione del dittatore) e, sul piano pratico, quello di aiutare la ribellione a rovesciare il regime. Washington ha incontrato problemi nel trovare una leadership credibile che unifichi i ribelli. Cosi' come non ha ancora deciso quali armamenti dare e a chi darli. C'e' la ragionevole paura che le armi finiscano nelle mani sbagliate.

Sulle stesse problematiche si confrontano l'Arabia Saudita ed il Qatar. Appoggiano sul piano politico le diverse espressioni della ribellione. Ryad ha paura che vengano fornite armi a gruppi radicali islamici e che questi ultimi, una volta rientrati in patria, possano un domani incidere sulla stabilita' del regno. Infatti troppi “volontari“ islamici sono di nazionalita' saudita. E molti di questi ricevono oggi finanziamenti (e grazie ad essi la possibilita' di acquistare armi) da organizzazioni caritatevoli wahabite saudite. Per Ryad ad un problema di politica estera se ne sovrappone uno di sicurezza nazionale e di politica interna.

Piu' spregiudicato e' il comportamento del Qatar che invece fornisce armi ai ribelli senza tante distinzioni sulla loro potenziale pericolosita'. Se, come potrebbe essere probabile, il regime alawita venisse sostituito dalla sua opposizione piu' credibile - quella dei Fratelli Musulmani - Doha avrebbe tutto da guadagnare da questo ricambio. Anche perche' durante le varie primavere arabe il Qatar e' sempre stato dalla parte della Fratellanza e di quei movimenti o partiti di ispirazione islamica. Per Doha, al contrario di Ryad, non esiste in politica estera una competizione tra sciiti e sunniti. Non ha comunita' sciite sul proprio territorio, non ha contenziosi di alcun genere con Teheran e non e' legata, a differenza dei sauditi, ad una politica della religione.

Anche nel campo palestinese le posizioni si divaricano. L'Egitto di Mohamed Morsi trova subito consonanza politica con Hamas. Non potrebbe essere altrimenti visto che il movimento di Khaled Mashal e' un'estrapolazione politico-religiosa dei Fratelli Musulmani egiziani. Lo stesso fa il Qatar con il movimento di stanza a Gaza. L'Arabia Saudita si schiera invece sul fronte dell'OLP. Gli Stati Uniti, ancora una volta, si trovano spiazzati. Appoggiano Morsi, ma sono molto in difficolta' con gli estremismi e le intemperanze di Mashal. Optano per una posizione “attendista“ e fanno diplomazia a parole: vogliono la pace tra palestinesi e israeliani, auspicano che la vicinanza di Mohamed Morsi porti Hamas su posizioni moderate e negoziali, condannano ogni forma di violenza.

La situazione cambia

Questo era sostanzialmente il quadro dei rapporti di politica estera a seguito delle primavere arabe. Uno stravolgimento di intrecci, alleanze e connivenze cristallizzate nel tempo. Scelte un po' forzate, qualche volta contro natura, ma necessarie a limitare i danni che il nuovo contesto poteva portare agli interessi nazionali degli attori in gioco.

L'assunto era stato quello di sempre: c'e' voglia di democrazia e di giustizia sociale, le primavere arabe rappresentano un anelito di liberta' in una regione a lungo dominata da prevaricazioni e abusi. E' quindi un bene cavalcare queste aspirazioni. Ma le cose non erano poi cosi' nette come sembravano: dietro alle rivolte sociali non c'erano solo gli aneliti di democrazia, ma anche rivalse sociali, condizioni economiche di disagio, talvolta voglia di vendetta.

E la verita', cosi' diversa da come era stata pensata, si e' poi rivelata per quella che era: crollato un regime si e' creata anarchia sociale (Libia), cacciata una dittatura militare si sono instaurate pseudo-democrazie che interpretano le liberta' sociali solo in una visuale islamica e regressiva (Egitto e Tunisia), le battaglie nate come rivoluzioni democratiche calamitano jihadisti da ogni dove (Siria). A fattor comune vi e' un unico denominatore: caos, morti, proteste, crescita del terrorismo islamico. Attentati in Libia, attentati in Siria, attentati in Turchia, l'Egitto e la Tunisia sull'orlo della guerra civile.

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Nessuna esportazione della democrazia, frase tanto cara al per niente compianto presidente George W. Bush. Sono cambiati gli attori di ogni melodramma nazionale, ma i metodi di gestione del potere sono rimasti gli stessi. E qui si e' poi aggiunta l'ultima evoluzione: la restaurazione. Per adesso hanno incominciato i militari egiziani il 30 giugno con l'arresto di Mohamed Morsi. In Tunisia l'esperienza di democrazia islamico-centrica e' entrata in crisi con troppi morti in cerca di autore nelle fila dell'opposizione. In Siria il regime di Bashar al Assad non solo non sta crollando, ma sta riguadagnando militarmente terreno.

Corsi e ricorsi storici si sovrappongono. Tutto cambia, ma poi, alla fine, nulla cambia. Il problema adesso e' il nuovo (ri)posizionamento di tutti quei Paesi che avevano appoggiato le primavere arabe. Gli Stati Uniti prima appoggiavano i militari di Hosni Mubarak, poi si sono subitaneamente convertiti alle idee di Mohamed Morsi e adesso che il generale Abdel Fattah Al Sissi ha ripreso manu militari il controllo del Paese cosa faranno? Passeranno dall'appoggio della rivoluzione all'appoggio della restaurazione con una ulteriore giravolta di politica estera?

Ed in Tunisia continuera' l'appoggio di Washington ad una dirigenza islamica che non ha saputo rispondere alle aspirazioni della gente, ma ha solo dato spazio all'eliminazione fisica dei suoi oppositori per mano dei gruppi estremisti salafiti?

Se il regime di Bashar al Assad non crollera', ma si rafforzera' sara' meglio favorire il dialogo con la Russia o vale la pena continuare l'appoggio alla lotta armata sempre piu' nelle mani degli integralisti filo-Qaedisti?

In questo mondo arabo ed islamico che si contorce socialmente e facilmente confonde la primavera delle idee con l'autunno delle realta' pone problemi di posizionamento a tutti e non solo agli Stati Uniti. Un Morsi che finisce in galera penalizza le scelte del Qatar, colpisce negativamente l'immaginario del turco Erdogan, ma ripropone delle chance alla politica estera di Ryad.

E nella Tunisia percorsa da proteste e tensioni c'e' ancora spazio per un ripensamento americano, per il supporto del Qatar a Ennadha o ancora una volta ha avuto ragione la prudenza saudita?

Tutte domande che ancora non hanno adeguate risposte. Ma una cosa e' certamente avvenuta: sono le vicende dei Paesi ed i loro stravolgimenti interni che condizionano adesso le politiche estere e non viceversa. I fatti precedono e condizionano le intenzioni. E la politica estera, quella dei Paesi della regione, ma anche dei paesi Occidentali, sclerotizzata da decenni di immobilismo in Medio Oriente, cerca di cambiare pelle, fa fatica a capire e ad adattarsi ad un mondo che cambia e di cui però non riesce ancora ad interpretare le prospettive. Storie nazionali di cui non si conosce il finale, ma soprattutto sulle quali la politica estera degli attori esterni ha ormai scarsa incidenza.