testata_leftINVISIBLE DOGvideo

L'AZZARDO MEDIORIENTALE


iran troops

Una guerra civile in Siria della quale non si intravede una soluzione e che negli ultimi tempi, a seguito dell’arrivo di truppe russe e iraniane (rappresentate dalle forze di élite di al Quds), ha acquistato ancora più marcatamente caratteristiche di internazionalizzazione. Un’altra guerra - questa volta iniziata come civile e poi degenerata a seguito di un intervento militare esterno - in Yemen. Un conflitto che in più ha acquisito connotazioni religiose (zaidi contro sunniti) e politiche (Arabia Saudita contro Iran). La presenza di milizie islamiche in Siria ed Iraq con l’intenzione dichiarata di creare un califfato e di stravolgere gli attuali confini nazionali. Una strisciante guerra, un mix tra mire egemoniche e motivazioni religiose, che vede i Paesi sunniti del Golfo contrastare l’Iran e lo sciismo.

Una cosiddetta “Primavera Araba” che non ha prodotto alcun progresso o risultato nel solco della democrazia (salvo il pallido esempio tunisino), ma che ha invece favorito repressione e restaurazione come il caso egiziano insegna. E, vedasi il caso libico, il vuoto di potere genera caos sociale e crescita del radicalismo islamico.

Il problema curdo, da sempre latente nelle vicende mediorientali, adesso si ripropone in tutta la sua importanza dopo che la Turchia, cambiando attitudine nei confronti dell’ISIS, ha inteso bilanciare la lotta al califfato riaprendo la guerra contro il PKK dopo anni di tregua e di sotterranei negoziati di pace. I curdi hanno acquistato benemerenze nel combattere l’ISIS sia in Iraq con i Peshmerga sia in Siria con l’YPG. Questo ha rafforzato il loro rivendicato diritto ad un'autonomia, statuale o meno. Il PKK è considerato un'organizzazione terroristica dagli Stati Uniti e dalla Turchia, ma quando hanno combattuto a Kobane contro l’ISIS o hanno salvato la comunità degli Yazidi dall’assedio delle milizie di Al Baghdadi questo dettaglio non ha avuto alcun valore. Non basterà l’avversione turca a demonizzare una comunità che conta oggi oltre 30 milioni di abitanti sparsi fra Turchia, Iraq, Iran e Siria.


kurds


Sulle vicende mediorientali incidono, più in generale, anche le ambiguità di cui si è contraddistinta la politica estera della Turchia, uno dei Paesi più influenti della regione. Rimangono dubbi sull'effettiva intenzione di Ankara di lottare contro il propagarsi dell’estremismo islamico nella regione. Il Presidente Recep Erdogan ha mantenuto solo due punti saldi nella sua visione delle cose: l’appoggio ai Fratelli Musulmani (l’AKP ne è la versione turca) e la lotta contro il regime di Bashar al Assad. Combattere ora l’ISIS ha il pregio di limitare l’effetto destabilizzante che si è materializzato in alcuni attentati sul proprio territorio. Nel contempo indebolisce però la ribellione armata contro Damasco.

Per bilanciare questa circostanza, Ankara ha abbinato il bombardamento aereo (molto limitato ed episodico) contro le postazioni delle milizie islamiche ad un bombardamento (invece molto esteso e continuativo) delle milizie del PKK dopo una tregua di due anni. Demonizzare oggi il PKK ritornando allo scontro armato risponde anche a delle logiche di politica interna. Dopo la sconfitta politica subita alle ultime elezioni in cui un partito filo-curdo, l’HDP, è entrato in Parlamento superando lo sbarramento elettorale del 10%, è necessario cavalcare il nazionalismo turco. Tanto più bisogna farlo in vista delle prossime elezioni generali a novembre.

Il problema palestinese oramai si trascina insoluto da tanti anni senza prevedibile soluzione. Oggi, a fronte dell’intransigenza israeliana, rischia di incanalarsi in una nuova Intifada. Sul problema palestinese si innestano una serie di variabili: la situazione sociale a Gaza, che non potrà durare ancora a lungo viste le attuali condizioni di disagio, il contrasto fra Israele e gli Hezbollah, che a parte le priorità nella difesa del regime di Assad sono in lotta contro lo Stato ebraico, i campi profughi palestinesi disseminati nei vari Paesi della regione e che rimangono una fonte primaria di risentimento e rivalsa verso un diritto internazionale non accordato. I recenti bombardamenti aerei israeliani delle postazioni del Fronte Popolare per Liberazione della Palestina – Comando Generale di Ahmed Jibril, gruppo palestinese radicale affiliato alla Siria, non aiutano a migliorare la situazione. Del resto non è mai venuto meno la guerra strisciante tra Israele e Hezbollah e tra Israele e Hamas. A volte appariscente, a volte episodica, ma pur sempre guerra.

C’è poi il problema dei Fratelli Musulmani che, essendo una delle organizzazioni islamiche più ramificate in Medio Oriente, oggi si trova in una posizione di emarginazione. E’ stata considerata organizzazione terroristica dalle autorità egiziane, ha rapporti difficili con l’Arabia Saudita, ma è molto vicina alle istanze di Hamas e godendo, al contempo, dell’appoggio della Turchia e del Qatar. La Confraternita è adesso ad un bivio. Deve decidere se rimanere nel contesto legale dove condurre le proprie rivendicazioni o dedicarsi all’attività eversiva, come le vicende egiziane sembrano costringerla.

Complessivamente c’è un basso tasso di democrazia in tutto il Medio Oriente. E’ una caratteristica comune a tutte le nazioni della regione con l'eccezione di Israele che invece, sotto la spinta di governi a forte connotazione nazionalistica, tende a diventare una teocrazia. La democrazia in quanto tale non è forse nelle aspirazioni di molti popoli arabi essendo un prodotto a cui non hanno mai avuto accesso e quindi non ne percepiscono compiutamente il significato. Vi è poi l’esperienza recente che ha dimostrato come quando viene esautorato un regime totalitario, la conseguenza è l’anarchia sociale. Con o senza democrazia, il cittadino arabo è comunque sensibile ai propri fabbisogni, non accetta una iniqua ripartizione della ricchezza quando ne è escluso, vive le ingiustizie sociali con rancore, ha paura della repressione, ma cova dentro di sé la protesta. Tutto questo avviene in quasi tutte le nazioni arabe della regione ed è un elemento che, per quanto imprevedibile, potrebbe diventare un domani centrale nelle vicende mediorientali.

Il negoziato che ha prodotto un accordo internazionale sulle velleità nucleari dell’Iran ha innescato una serie un effetto a catena il cui impatto dovrà essere compiutamente verificato nel tempo. L’Iran senza sanzioni ha la forza per ritornare ad essere una potenza economica nella regione. Un Iran senza ostracismo politico internazionale potrà meglio recitare quel ruolo di potenza militare in grado di influenzare lo scacchiere mediorientale. Tutto ciò potrà modificare gli equilibri geo-strategici della regione, potrà accentuare lo scontro tra sciismo e sunnismo. In compenso un effetto lo ha già prodotto: la corsa agli armamenti dei paesi sunniti che temono la potenza iraniana. Non ultima vi è la possibilità che si possa anche innescare una maggiore presenza nucleare, come alcuni indizi sulle intenzioni saudite farebbero intendere.

Ovunque vi è un proliferare di piccoli califfati che sorgono sotto l’influenza e nell’emulazione dell’esperienza dell’ISIS: Sinai, Sirte, Derna, aree del sud della Tunisia, nord del Mali. Sono potenziali focolai di altri incendi e ulteriore destabilizzazione sociale. Saranno eliminati o si allargheranno?

Vi è un Paese come il Bahrein dove una minoranza sunnita governa dispoticamente una maggioranza sciita. Tutto questo è stato possibile anche con il concorso militare di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Potrà continuare così? Vi è poi un altro paese guidato da un sultano ibadita, l’Oman, che sinora si è tenuto fuori dalle varie diatribe mediorientali. Ma il Sultano Qaboos ha 75 anni e non ha eredi. Riuscirà questo Paese a superare indenne un ricambio di potere senza generare, come spesso accade in questa parte di mondo, una guerra tra i vari pretendenti al trono?

Le varie guerre civili regionali hanno sollevato il problema della persecuzione delle minoranze religiose. Ne sono stati soggetto passivo e/o attivo nel ruolo alternativo di vittime o carneficia seconda delle circostanze le comunità religiose che sinora avevano convissuto pacificamente da secoli in Medio Oriente. Ne hanno subito le conseguenze gli sciiti in campo sunnita e viceversa, i cristiani, gli yazidi, i drusi, gli aleviti, i sabei, gli alawiti. Si è creato un clima di intolleranza religiosa che porterà nel tempo tutti i suoi effetti negativi. I dissidi religiosi , più di quelli etnici, sono portatori di maggiori rancori e radicalismo perché legittimati dalla fede e da una causa solo all'apparenza “più giusta”. Quanto tempo ci vorrà per ripristinare un dialogo religioso in questa parte di mondo?

Vi sono nella regione Paesi che sono troppo piccoli per non subire il pericolo di un radicalismo islamico a trazione militare (come è il caso della Giordania) o troppo instabili, per ragioni storiche e religiose (come è il caso del Libano). Soprattutto il Libano, dove la ripartizione religiosa delle proprie istituzioni è da sempre oggetto di instabilità politica, vive sulla propria pelle l'effetto destabilizzante delle vicende siriane. Il legame tra Siria e Libano è storia passata e recente. Potrà questo il Paese dei Cedri un domani sopravvivere ad una diversa configurazione politica o territoriale a Damasco?


Bab el Mandeb
Lo stretto di Bab el Mandeb

Il Medio Oriente è sempre stato oggetto di interesse da parte delle potenze internazionali per la sua collocazione geografia nel controllo delle vie di comunicazione e per le riserve energetiche di cui dispone. Tante vicende pregresse nella regione hanno visto l’interferenza delle potenze straniere, soprattutto durante il periodo della Guerra Fredda. Ogni Paese dell’area rientrava nella sfera di influenza di uno dei due contendenti. Era una situazione il cui unico pregio era quello di regolare le vicende locali ad un più alto livello decisionale nel confronto tra le due superpotenze. La caduta dell’impero sovietico ha creato un vuoto di potere, molti Paesi si sono trovati improvvisamente senza tutela internazionale e questo ha innescato una serie di conflittualità regionali. Oggi permane l’interesse degli Stati Uniti e della Russia, benché asimmetrico e non più paritario, ad influenzare le vicende mediorientali non tanto per le riserve energetiche (i due protagonisti sono autosufficienti), ma per il carattere geo-strategico della regione. Il controllo dello Stretto di Hormuz, lo Stretto di Bab el Mandeb, il controllo del Mar Rosso per l'accesso al Canale di Suez, la possibilità di mantenere basi militari nel Mediterraneo.

Gli Stati Uniti, nel loro ruolo di unica superpotenza in servizio attivo, hanno ultimamente sviluppato una politica di disimpegno militare per porre rimedio alla politica interventista della precedente amministrazione. Così facendo hanno generato un ulteriore vuoto di potere lasciando situazioni politiche e militari senza definitiva soluzione, come dimostrano il caso iracheno ed afghano. La politica estera americana, nel suo complesso, ha anche pagato il prezzo dell'indecisione su di una serie di vicende locali. Questo ha rallentato il potere decisionale e quello dirimente. Alcune decisioni sono state sbagliate (soprattutto cavalcando l’onda della presunta democrazia durante la Primavera Araba egiziana o partecipando militarmente alla defenestrazione di Gheddafi) e questo ha reso ancor più cauto l’approccio politico. Nel suo complesso l’alleanza acritica verso l’Israele di Netanyahu ha reso più difficile la posizione americana. Ma se finora gli Stati Uniti operavano nella regione in quasi assoluto monopolio politico (e questo rimuoveva ogni conseguenza reale ai vari errori) oggi le cose stanno cambiando.

L’accordo sul nucleare iraniano ed il peso esercitato sulle vicende siriane hanno riproposto un ruolo centrale della Russia sugli eventi mediorientali. E questa è una situazione che potrà alimentare frizioni o contrasti tra le due potenze. Ci sarà spazio per una sinergia nel combattere l’estremismo islamico che oggi è forse il pericolo maggiore che incombe nella regione? Probabilmente si verificheranno entrambe le circostanze: frizioni su interessi divergenti, sinergia sugli interessi comuni.

Con tutto questo intersecarsi di contenziosi politici, religiosi o militari in Medio Oriente, quando si affronta una singola tematica bisogna farlo tenendo conto di tutte quelle variabili collaterali che incidono sull’evento stesso. E’ come un effetto domino di cui però non si conosce il risultato finale. Ci sono tanti interrogativi che non hanno oggi ancora risposta. Al contempo si genera ogni volta un effetto a catena dalle conseguenze imprevedibili. Su tutte le situazioni di conflittualità di cui si è fatto cenno alcuni eventi apparentemente negativi potrebbero invece produrre anche effetti positivi qualora una sinergia di interessi ne favorisse la risoluzione. Non è questione di ottimismo o pessimismo, sentimenti che hanno dell’irrazionale, ma di realismo. Del resto, nel contesto mediorientale ogni volta che si gioca una carta è come sedersi ad un tavolo di poker dove l’azzardo, il bluff, il rilancio la fanno da padroni.

back to top