LA LUNGA STRADA PER UNO STATO PALESTINESE PASSA PER IL VATICANO
Le
anime del mondo palestinese sono oggi essenzialmente due: quella
dialogante rappresentata dall’Autorità Nazionale Palestinese con base a
Ramallah e quella oltranzista rappresentata da Hamas e Jihad Islamica
Palestinese a Gaza. E' tra queste due visioni alternative dei rapporti
con Israele che si giocano i destini di questo popolo. Un futuro sinora
dedicato ad un unico obiettivo, ovvero la creazione di uno Stato
palestinese. Cambiano le modalità per raggiungerlo: guerra o negoziato.
Due opzioni intercomunicanti tra loro: se la speranza di un accordo
prevale sulla frustrazione di chi da oltre 60 anni non vede una
soluzione alle proprie aspirazioni ci sarà un negoziato. Altrimenti
l’alternativa è una guerra, magari strisciante, episodica o estesa
(leggi Intifada), che causerà ulteriori morti e sofferenze, anche se
diversamente ripartite, tra palestinesi ed israeliani.
E' in questo contesto che deve essere valutato il riconoscimento dello
Stato di Palestina da parte del Vaticano. Un passo che fornisce
spessore politico e credibilità internazionale all'attuale Presidente
dell’ANP, Abu Mazen (alias Mahmoud Abbas), in contrapposizione a Khaled
Meshal e Ismail Haniyeh di Hamas. E’ un'iniziativa che oggi acquista
uno specifico peso mentre in Israele viene varato l'ennesimo governo di
estrema destra con alla guida Benjamin Netanyahu, il cui approccio
sembra togliere ogni spazio ad un possibile dialogo o negoziato
costruttivo. Del resto è stato lo stesso Netanyahu durante la recente
campagna elettorale ad aver affermato che mai avrebbe concesso la
realizzazione di uno Stato palestinese, che Gerusalemme è la capitale
indivisibile dello Stato ebraico (quando il 37% della popolazione della
città è araba) e che, come primo provvedimento a meno di 24 ore dal
giuramento del suo esecutivo, ha approvato la costruzione di 900
abitazioni per coloni nella parte araba di Gerusalemme.
In questo contesto relazionale l’opzione negoziale potrà essere
ragionevolmente portata avanti solo se la parte palestinese che
maggiormente sponsorizza una soluzione pacifica, cioè l’ANP di Abu
Mazen, sarà in grado di produrre risultati tangibili. In questo senso
l’iniziativa del Vaticano è strumentale a questo scopo, anche se non è
la prima volta che viene riconosciuta l’esistenza di uno Stato
palestinese. Già nel novembre del 2012 l’Assemblea Generale dell’Onu
aveva approvato una risoluzione, la 67/19, riferita allo status della
Palestina nell’ambito dell’Organizzazione internazionale. In quel
contesto la Palestina veniva definita, per la prima volta, “Stato”
osservatore non membro, proprio come la Santa Sede dalla quale aveva
incassato anche il voto a favore.
Abu Mazen
Il Vaticano va oggi oltre le intenzioni dell’Onu e sottoscrive un
riconoscimento diretto e globale della Palestina intesa come Stato a
pieno titolo rappresentato nella persona di Abu Mazen (e quindi
disconosce eventuali ruoli di Hamas). Dietro a tutto questo c’è la
volontà di Papa Francesco di favorire, ovvero accelerare, un dialogo
tra le parti come poi dimostrato dalla visita in Giordania,
Cisgiordania e Israele nel maggio 2014. Già allora Abu Mazen era stato
indicato dal Pontefice come “Presidente” dello “Stato” palestinese.
L'attivismo del Papa è proseguito con il successivo invito in Vaticano,
nel giugno del 2014, di Mahmoud Abbas e Shimon Peres. Nel 2013 si erano
tenuti dei colloqui a Ramallah tra una delegazione vaticana e l’OLP per
definire un accordo sull’attività della chiesa cattolica in
Cisgiordania. Le iniziative di Papa Francesco sono nel solco dei
rapporti ufficiali tra Vaticano e palestinesi che risalgono oramai al
1994 e che furono formalizzati con l’OLP nel 2000. L’intesa tra
Palestina e Vaticano riguarda nella sostanza problemi afferenti la
libertà di culto, questioni di giurisdizione, proprietà, status del
personale per i beni della Chiesa per un totale di 69 intese/articoli.
Allo stato attuale si passa da un riconoscimento dei rapporti tra OLP e
Vaticano ad un riconoscimento tra Palestina e Vaticano. Le due parti
avevano inizialmente deciso di relazionarsi tramite un “rappresentante”
e non un “ambasciatore”. Ma questo è solo un dettaglio formale in
quanto nella lista diplomatica della Santa Sede tale distinguo non
esiste. Anche se non in forma ufficiale, un rappresentante diplomatico
palestinese designato presso il Vaticano è presente da svariati anni.
L’ultimo in ordine di tempo ad essere stato nominato da Abu Mazen
nell’agosto del 2013 è Issa Kassissieh, di religione greco-ortodossa,
mentre per le incombenze a Roma operava come Chargé d’Affaire un
delegato della rappresentanza palestinese presso l’Italia, Ammar Nasnas.
A rappresentare invece la Santa Sede in Palestina è invece il Nunzio
Apostolico a Gerusalemme. Con il recente accentuarsi della crisi nei
territori occupati e a Gerusalemme il Vaticano ha inteso ora fare un
ulteriore passo in avanti: ha concesso dei locali di fronte alla porta
di Sant'Anna dove verrà presto ospitata la sede dell’ambasciata
palestinese presso la Santa Sede. Una circostanza che oggi, con la
rivolta in corso dei palestinesi in Cisgiordania, acquista un preciso
significato politico.
L’attivismo papale, oltre ad un'attenzione ideologica nei confronti dei
diseredati del mondo (vedi la condanna del genocidio armeno e del
capitalismo spinto) e ed a favore della pace (come avvenuto con Cuba e
con l’opposizione ad un attacco armato internazionale contro la Siria),
è anche mirato a trovare appoggi nel mondo mediorientale contro la
persecuzione dei cristiani. E, in questo senso, le caratteristiche
laiche dell’OLP sono sicuramente di aiuto.
Yasser Arafat
Se volessimo andare indietro nel tempo per verificare la
considerazione che l’OLP di Yasser Arafat aveva della propria minoranza
cristiana basterebbe riferirsi alla presenza nel Consiglio Esecutivo
dell’organizzazione di un vescovo anglicano, Elia Khoury, nonché di un
prete cattolico, Abuna Ibrahim Ayad, nel Comitato Centrale di Fatah.
Questa circostanza è ancora più rilevante in quanto l’OLP è un
movimento laico, a stragrande maggioranza musulmana dove i cristiani
rappresentano solo l’8%, e, in passato, di ispirazione marxista.
Tuttavia in Medio Oriente esiste una forte tradizione marxista da parte
dei cristiani, come dimostrava il Fronte Popolare per la Liberazione
della Palestina di George Habash. Arafat amava ripetere che non esiste
una Palestina senza i cristiani.
L’iniziativa del Vaticano di riconoscere la Palestina non è nuova nel
suo genere. Oltre 100 nazioni hanno già riconosciuto lo Stato
palestinese: tutto il Sudamerica (con l’eccezione di Colombia e
Panama), tutta l’Africa (eccetto Camerun ed Eritrea), buona parte
dell’Asia e dell’est europeo. In Europa occidentale solo la Svezia si è
espressa in tal senso, mentre una recente votazione, di contenuto
meramente simbolico, favorevole a tale ipotesi si è tenuta nel
Parlamento inglese. Anche l’Italia, il 27 febbraio 2015, ha approvato
una mozione parlamentare che da mandato al governo di riconoscere lo
Stato palestinese. Nel dicembre 2014 il Parlamento europeo ha
approvato, “in linea di principio”, il riconoscimento della Palestina.
Per quanto riguarda invece gli Stati Uniti, benché non ci sia alcun
riconoscimento verso lo Stato palestinese, il semplice fatto che nel
giugno del 2014 il Segretario di Stato Usa John Kerry abbia formulato
apprezzamento per il governo di unità nazionale palestinese formato da
OLP e Hamas, nonostante quest'ultima figuri ancora nella lista
americana delle organizzazioni terroristiche, è parso come un implicito
appoggio alla causa palestinese.
L’offensiva diplomatica che Abu Mazen sta oggi conducendo va oltre il
riconoscimento del Vaticano e include anche il ricorso presso la Corte
Penale Internazionale per mettere sotto processo per crimini contro la
popolazione palestinese Israele dopo che il 15 aprile 2015 la Palestina
è diventato il 123imo membro di questa istituzione. A penalizzare il
ruolo di Mahmoud Abbas è il il fallimento del tentativo di intesa con
Hamas, circostanza che non ha ancora permesso che vengano tenute
elezioni generali per nominare un nuovo presidente palestinese. In
pratica, Abu Mazen, eletto nel 2005 con un mandato di 4 anni, è ancora
al suo posto.
La comunità palestinese nel mondo conta oltre 12 milioni di persone,
seconda solo ai 30 milioni di curdi fra quei popoli in cerca di un
proprio Stato. Di questi, 2,8 milioni vivono in Cisgiordania, 1,8
milioni a Gaza e 4,6 milioni nei territori occupati (di cui oltre il
43% come rifugiati), mentre il resto è disperso in giro per il mondo.
Ognuna di queste comunità vive la speranza della realizzazione di uno
Stato palestinese con diversa enfasi, ma con una comune sofferenza. Chi
vive a Gaza – città con una densità abitativa tra le più alte del mondo
e subisce le ristrettezze di un embargo – o sopravvive nei 31 campi
profughi sparpagliati tra Siria, Israele e Libano o coloro i quali
subiscono discriminazioni nei Territori Occupati sono emozionalmente
più orientati verso un approccio radicale. E, numericamente, sono la
maggioranza.
In questa statistica dei sentimenti e degli atteggiamenti non bisogna
dimenticare gli israeliani, la controparte negoziale, e quello che loro
temono possa avvenire nel caso della creazione di uno Stato
palestinese. Se dal lato palestinese c’è sofferenza e frustrazione, dal
lato israeliano prevale la paura. E’ la paura per la propria sicurezza,
un sentimento esasperato dall’isolamento nella regione e dai tragici
eventi del passato: olocausto, persecuzioni, discriminazioni. Una
diaspora ebraica sempre contro tutto e contro tutti. Anche gli ebrei
erano un popolo errante in cerca di un proprio Stato poi realizzatosi
in Palestina. Questo dovrebbe aiutarli nel capire le aspirazioni della
loro controparte, ma forse questa storia è oramai costellata di troppi
lutti e troppo sangue per poter superare le rispettive diffidenze e
favorire una pacifica convivenza. La storia dei palestinesi e degli
israeliani non è purtroppo un passato che insegna, ma che condiziona. E
l’unica speranza è solo nello spirito delle nuove generazioni dei due
popoli, quelle meno condizionate dal passato, ma proiettate verso un
futuro migliore. Una strada lunga, ma che non ha alternative. Dove
“l’aliyah” ebraica (il ritorno storico verso la terra promessa) possa
finalmente porre fine, in pace, alla “nakba” (l'esodo del 1948 o giorno
della catastrofe) palestinese.