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LO STATO PALESTINESE CHE NON C'E'. NUOVA INTIFADA?


gaza


Israele è un Paese militarmente molto forte, il più forte del Medio Oriente, che non teme rivali, e che gode del sostegno finanziario e politico di una lobby ebraica internazionale e della cooperazione tecnico-militare degli USA, oltre ad avere in suo possesso 80 ordigni nucleari.

Tutte queste circostanze nei fatti impediscono una soluzione negoziata del problema palestinese perché quando si è troppo forti non si negozia, si impongono condizioni e non si è disponibili a concessioni. Politicamente, questo approccio è oggi espressione di uno dei governi più estremisti della storia israeliana.

Sul fronte opposto c'è una variegata comunità palestinese che vive con frustrazione questa situazione di sudditanza, cova il rancore della rivalsa, si sente defraudata di un diritto sancito da varie risoluzioni internazionali ( e mai applicato) e vede che la prepotenza dell'occupante erode ogni giorno gli spazi a qualsivoglia accordo negoziato. Gli insediamenti nei territori occupati sono lo strumento di questo spazio negoziale che si assottiglia.

E qui , in campo palestinese , ci sono le due anime che si confrontano : tra chi - nonostante tutto - vorrebbe continuare a negoziare e chi , invece vuole riprendere o continuare la lotta armata.

Più gli spazi negoziali si restringono , più la seconda anima prende il sopravvento . Se non si negozia si combatte.

Una situazione in peggioramento

Questo è lo stato delle cose oggi in Israele e nei territori occupati. Non c'è lungimiranza nel pensare che con la prevaricazione si possa risolvere un contenzioso territoriale che oramai si trascina da oltre 60 anni. Non c'è lungimiranza nel pensare che con la ripresa del terrorismo palestinese si possa ottenere quello che i negoziati non concedono. Ma purtroppo la convivenza tra israeliani e palestinesi è disseminata di errori da entrambe le parti.

E' una miscela sociale e politica che adesso rischia di deflagrare con l'arrivo di Trump alla presidenza degli Stati Uniti. Se anche i cosiddetti brokers internazionali - quei Paesi che hanno il peso politico per costringere le parti a negoziare - non recitano più un ruolo super partes e come il caso sembra adesso prevalere nella politica estera americana di Trump , allora oggettivamente la strada che porta al terrorismo non trova alternative sociali percorribili agli occhi dei palestinesi.

Se poi si delegittima il ruolo delle Nazioni Unite definendolo un club per chiacchiere non si capisce quale altro organismo internazionale (che oggi non esiste di eguale peso) possa domani ospitare e garantire un negoziato che porti ad un eventuale accordo operante o vincolante. Se poi si pensa che le Nazioni Unite sono utili solo quando mettono il veto sulle Risoluzioni che meglio aggradano una parte o diventano irrilevanti quando invece esercitano una decisione contraria, è un approccio che squalifica l'esatta rilevanza dell'organismo stesso.

Le altre guerre

Sinora il problema palestinese, per tutta una serie di altre emergenza nella regione mediorientale, non ha trovato adeguata attenzione. L'ISIS ed il suo fatiscente Stato islamico, la guerra civile in Siria, il terrorismo curdo, le giravolte della politica estera ed interna di Erdogan, il fallito colpo di Stato in Turchia, la guerra in Yemen, la strisciante guerra tra sunniti e sciiti, il confronto tra Iran e le nazioni del Golfo, hanno attratto l'attenzione della politica internazionale ma soprattutto hanno distolto l'attenzione e l'interesse della opinione pubblica internazionale sulle vicende palestinesi.

E di questa disattenzione, obiettivamente, se ne è approfittato Israele che ha continuato la sua politica di esproprio delle terre palestinesi e della conseguente costruzione degli insediamenti in quelle aree che invece dovrebbero essere dedicate alla edificazione dello Stato palestinese.

Ma il Medio Oriente insegna che niente è duraturo nella regione. Le crisi si accavallano e talvolta si elidono, le alleanze durano il tempo di un interesse condiviso per poi dissolversi, amici e nemici sono intercambiabili.

Se il il parametro di riferimento per i rapporti di forza fosse valutato oggi, le chances della popolazione palestinese a potere ambire ad un proprio Stato sarebbero molto poche o nulle.

Gaza, che è l'area dove è prevalente l'approccio a combattere Israele, è oramai un ridotto militare circondato da Israele ma soprattutto dall'Egitto che in passato garantiva la sopravvivenza politica e militare delle istanze di Hamas. L'Autorità Nazionale Palestinese sotto la debole guida di Mahmoud Abbas non appare in grado di mettere insieme una dovuta lobby internazionale sulle aspettative della popolazione palestinese né di confutare adeguatamente ogni prevaricazione o provocazione che possa emergere contro gli interessi della propria causa. L'ANP è attraversata da faide politiche interne e da scandali e tutto sembra andare contro gli interessi, almeno internazionalmente riconosciuti legittimi, dei palestinesi.

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Israele e gli USA

Sui rapporti tra Israele e gli U.S.A. c'è stato sicuramente un peggioramento relazionale durante gli otto anni della presidenza di Obama. Dal confronto sulla soluzione politica del problema palestinese e la relativa inconsistenza nei negoziati a fronte dell'intransigenza israeliana , nel tempo la contesa è scivolata anche sul piano personale tra Obama e Netanyahu. Quest'ultimo ha gratificato il presidente americano di varie scorrettezza istituzionali e politiche (sia attivandosi per opporsi ad una ratifica del trattato nucleare con l'Iran, sia relazionandosi direttamente con il Congresso e l'opposizione repubblicana).

In questo contesto può essere quindi interpretata la recente decisione americana di astenersi da una risoluzione ONU che condanna Israele per i continui insediamenti nei territori occupati. (in passato era invalsa la consuetudine di porre il veto nel ruolo di membro permanente del Consiglio di Sicurezza). Una decisione che risente anche di una altrettanta contesa tra Trump e Obama sulla politica internazionale degli USA che va dai rapporti con la Russia a quelli con Israele con la chiara promessa del presidente designato (e del prossimo ambasciatore designato) di spostare l'ambasciata da Tel Aviv a Gerusalemme.

Apparentemente tutto sembra assecondare la politica nazionalista di Netanyahu: l'avvento di Trump, il suo chiaro appoggio alle tesi israeliane, la delegittimazione dell'ONU (che ha sempre costituito per Israele un ostacolo alle sue intenzioni espansionistiche) e forse il fatto che tanti attori mediorientali non sembrano in grado di contrastare le decisioni di Israele o di porsi a sostegno di quelle palestinesi.

Ma in politica estera le forzature, le scorrettezze e gli sgarbi che oggi possono essere possibili e esercitabili dalle circostanze domani potrebbero ritorcersi contro gli interessi israeliani sia sul piano politico che diplomatico. E questo, ovviamente, non vale solo per la questione palestinese che comunque è subordinata alla credibilità dello Stato di Israele nel contesto internazionale e quindi al suo peso contrattuale. Israele sa bene che l'opinione pubblica internazionale non gli è generalmente favorevole ed è un dettaglio di cui dovrà tenere sempre conto.

Sul piano internazionale la convergenza di posizioni tra Trump e Netanyahu ha portato ad una collisione nelle relazioni con Francia e Inghilterra che hanno votato all'ONU per la risoluzione di con danna degli insediamenti.

Israele e la Russia

Netanyahu poi sottovaluta il fatto che la Russia, più che gli USA, sta acquistando peso nelle vicende mediorientali. E la Russia è stata sempre, storicamente, dalla parte palestinese. Risolta (a suo favore) la questione della Siria, sconfitto l'ISIS, Mosca sarà in grado di condizionare scelte ed alleanze nella regione a maggior titolo di quanto oggi possa fare l'America.

Né può certo tranquillizzare il premier israeliano la circostanza che oggi Trump e Putin possano mostrare di essere in sintonia su molte scelte. Arriverà anche il momento in cui le due superpotenze entreranno in collisione perché gli interessi dell'una si incrociano con gli interessi dell'altra in quella contesa di egemonia mondiale che li divide.

I rapporti con la Russia sono centrali nella prospettiva di un assetto della questione palestinese. La guerra in Siria ha favorito accordi di sicurezza tra Tel Aviv e Mosca anche per evitare incidenti tra le rispettive Forze Armate. Israele è potuta così intervenire con i suoi aerei su obiettivi Hezbollah in Siria anche in presenza dell'esercito russo (attacco aereo contro i campi di addestramento sciiti a Zahara eNubl in agosto e contro l'aeroporto di Mezzeh a novembre 2016).

Oramai sono oltre 25 anni che i due paesi hanno riallacciato le relazioni diplomatiche, tra Putin e Netanyahu si è instaurato un buon rapporto interpersonale (Israele si è recentemente astenuta nel voto Onu per le sanzioni alla Russia) e vari ministri del governo israeliano (compreso quello della difesa) parlano russo. Ma è una convergenza tattica del momento, un matrimonio di interesse e non d'amore. La strategia, in prospettiva, porterà i due Paesi nuovamente su fronti opposti.

Il futuro è incerto

Poi c'è il problema delle cosiddette guerre per procura. Una volta che la Siria sarà pacificata ed asservita - come lo era in passato- agli interessi russi, la diaspora palestinese, quelle fazioni più intransigenti della galassia palestinese, che hanno sempre goduto della assistenza del regime di Assad, troveranno nuovamente il tempo per dedicarsi alla lotta contro Israele. E se sinora il loro peso era comunque limitato, la frustrazione della popolazione dei territori occupati potrà fornire loro maggiore manovalanza.

Poi ci sono le milizie degli Hezbollah che adesso combattono per Assad ed hanno acquisito nel tempo una esperienza militare che tornerà loro utile nel confrontarsi con Israele. E dietro gli Hezbollah, come è noto, c'è la longa manus dell'Iran.

Gli Hezbollah sono oggi l'unica forza militare in grado di creare problemi agli israeliani come dimostrato nel 2006.

Si potrebbe obiettare che la forza e capacità militare di Israele non avrebbe problemi a combattere le fazioni palestinesi o gli sciiti libanesi, ma lo scenario di riferimento non è una guerra convenzionale ma una guerra asimmetrica, fatta di guerriglia, attentati, atti di terrorismo. Insomma una guerra di logoramento e strisciante che comunque non garantirebbe allo stato ebraico di vivere in pace nella regione. L'insicurezza, quel senso di percezione del pericolo che un accordo coi palestinesi potrebbe comunque garantire, sarà il prezzo che verrà pagato dai cittadini israeliani se si mantiene irrisolto il problema palestinese.


benjamin netanyahu
Benjamin Netanyahu

L’accordo che non ci sarà

Alla luce di quello che appare adesso, non esistono margini per un accordo negoziato tra le parti. Israele non ha voglia di negoziare se si intende con questo concetto la ricerca di un accordo che possa dare vita ai due Stati come previsto dalle risoluzioni ONU del 1967 e che sia fatta di concessioni territoriali.

Netanyahu, nell'ultima campagna elettorale aveva affermato che mai avrebbe avuto luce uno Stato palestinese sotto la sua gestione politica.
Allora è lecito domandarsi se esistono soluzioni alternative che non sia quel Bantustan/apartheid che ovviamente i palestinesi non accetterebbero.

Garanzie e sicurezza in cambio di uno Stato palestinese.

Strada percorribile? Sì, se esiste la volontà politica da parte di Israele di negoziare e concedere. Sì, se da parte palestinese si vorrà dare spazio alle istanze di sicurezza della controparte.

L'unica speranza è solo in una parola: un compromesso accettabile ad entrambi.

Gli attentati

L'ultimo attentato a Tel Aviv dell'8 gennaio, con modalità tipiche e mutuate dall'ISIS (un camion contro la folla come a Nizza e Berlino. Ma similitudini ricorrono anche nell'attentato al mercato dell'8 giugno scorso e quello contro un bar del primo gennaio 2016) è solo la premessa di quello che potrà presto accadere. Netanyahu ha subito attribuito l'episodio all'ISIS, forse nel tentativo di porre sullo stesso piano le rivendicazioni palestinesi alle efferatezze delle milizie di Al Baghdadi.

Sicuramente c'è una collusione di intenti, un accostamento operativo tra le due lotte, Hamas è la fazione della galassia palestinese più vicina all'estremismo islamico, ma il problema palestinese è antecedente alle vicende dell'ISIS e vive di una luce propria.

E purtroppo, se non ci sarà spazio per una soluzione negoziata, ai palestinesi rimane l'unico strumento che è quello della lotta armata, del terrorismo.

C'è stata una prima intifada nel 1987, una seconda nel 2000, una terza nell'ottobre 2015 e forse ci stiamo preparando alla quarta. Si è passati dalle pietre ai coltelli ed adesso ai camion.

La politica di Netanyahu è anche condizionata dalla coalizione che lui presiede nel governo. Essendo alleato a vari partiti estremisti e nazionalisti - come il Bayit Yehudi, Shas e United Torah Judaism - (oltre ad aver spostato l'asse del suo Likud su posizioni estreme), Netanyahu ha bisogno spesso e volentieri di cavalcare tesi e comportamenti di un certo tipo estremizzando anche il concetto di sicurezza.

Armi di distrazione di massa

Netanyahu inoltre combatte adesso una propria battaglia di sopravvivenza politica a fronte delle accuse di corruzione (soldi ricevuti illegalmente per la campagna elettorale) e della relativa inchiesta giudiziaria a suo carico. Il premier sa bene che in Israele anche gli ex presidenti dello Stato possono finire in galera come il caso di Moshe Katsav o come un suo ex predecessore, Ehud Olmert. Lui stesso, già in un precedente mandato governativo nel 1996-99, era stato messo sotto inchiesta per aver ricevuto regalie e per spese personali addebitate a carico dello Stato.

L'intransigenza verso la questione palestinese è da un lato un elemento di distrazione di massa e dall'altro un argomento per acquisire solidarietà dalle altre formazioni politiche che lo sostengono. Lui cerca di tramutare una inchiesta giudiziaria o una campagna stampa ostile in una persecuzione politica. Ma per sua sfortuna in Israele non esiste l'immunità parlamentare per il primo ministro. Ed è un dettaglio che lui non può sottovalutare.

Sono tutte circostanze interne che rendono però difficile una soluzione al problema palestinese.

Sul fronte opposto c'è Hamas che è indebolita dall'assedio di Gaza, le condizioni di indigenza della popolazione e la brutalità dei miliziani hanno eroso parte del sostegno al movimento. Anche lì la proiezione di una situazione di guerra strisciante come l'intifada avrebbe il vantaggio di distogliere l'attenzione dalle difficoltà quotidiane.

L’appello del Papa

Che la situazione israelo-palestinese stia scivolando verso una brutta direzione trova conferma anche nelle dichiarazioni del Papa a cavallo dell'Epifania. La Chiesa, che è fortemente interessata ai luoghi santi, ha lanciato un appello affinché si riprenda il dialogo e si arrivi ad una soluzione, si garantisca la coesistenza. Si faccia insomma una pace stabile e duratura.

Ma quel che è più significativo è l'accenno che un conflitto - nel caso specifico questo conflitto - non diventi un'abitudine, qualcosa di cui non si possa fare a meno.

Una Risoluzione Onu a seguito della guerra del 1967, gli accordi di Oslo del 1994 (a cui aggiungere una serie infinita di iniziative, mediazioni, interessamenti), l'idea di due Stati in pacifica coesistenza sono tutti rimasti carta straccia. Colpa dei diretti interessati ma anche di quei Paesi che non hanno saputo ma soprattutto voluto che questi accordi fossero applicati.

L’impunità allontana la soluzione

E' una situazione che ha ingenerato nelle parti in causa l'idea che quanto viene deciso nei consessi internazionali non ha valore vincolate, che l'Onu è ininfluente e che quindi esista una forma di impunità internazionale a fare quel che si vuole.

Adesso si riparla di una iniziativa OLP per un accordo ad interim di tre anni prima di addivenire ad uno status definitivo, con possibile accettazione che gli insediamenti nei territori occupati possano rimanere in loco ma sotto la giurisdizione palestinese. La Francia ripartirà adesso con un'altra conferenza di Pace con un'ampia partecipazione internazionale.

Ma è inutile negoziare se non c'è la volontà di farlo e soprattutto se non esiste un sistema che obblighi gli interessati a rispettare gli accordi.

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