IL SILENZIO SUL GENOCIDIO DEI ROHINGYA
Ci
sono dei genocidi che avvengono nel completo disinteresse dei mass
media. E' accaduto nel passato e continua nel presente come per i
Rohingya. Collocati in un'area remota del mondo, lo stato di
Rakhine, al confine tra la Birmania e il Bangladesh, questa
popolazione di fede musulmana, oltre un milione di abitanti, è
oggetto da anni di una persecuzione sistematica. Non gli viene
riconosciuta la nazionalità birmana e sono quindi considerati
illegali e senza alcun diritto. Anche se da secoli vivono in
questa area, sono considerati immigrati clandestini provenienti
dal Bangladesh.
Vivono in campi profughi, ma le continue persecuzioni che
subiscono sia dall'esercito birmano che da gruppi di estremisti
buddisti, li costringono a scappare al di là del confine, verso il
Bangladesh o altrove. A molte associazioni caritatevoli, comprese
quelle cristiane, viene impedito l'accesso e l'assistenza a questa
popolazione. Molte difficoltà vengono frapposte anche alle
strutture dell'ONU.
Si evoca la possibilità che le autorità birmane si siano macchiate
di crimini contro l'umanità e quindi non è casuale che
recentemente siano stati negati i visti ad una delegazione
dell'ONU che voleva investigare sulle violazioni dei diritti umani
e quindi recarsi nelle aree dove vivono i Rohingya. Allo stato
attuale la sistematica persecuzione etnico-religiosa non trova
soluzione. Colpisce anche il fatto che anche un premio Nobel per
la pace, nonché destinataria del Premio Sacharov e di tante altre
prestigiose onorificenze straniere, soprattutto per i suoi intenti
pacifisti e per la difesa dei diritti umani, come Aung San Suu Kyi
si sia schierata nella negazione del problema ritenendo peraltro
che i Rohingya non siano di nazionalità birmana.
Nella sua attuale funzione di Consigliere di Stato (non può
rivestire incarichi istituzionali avendo sposato un cittadino
inglese) avrebbe avuto titolo e potere per spendere una parola a
favore dei Rohingya. Lo poteva fare anche perché il suo Partito,
la Lega Nazionale per la Democrazia, ha la maggioranza assoluta in
Parlamento. Ma si è ben guardata dal farlo dimenticando il
supporto ottenuto dalle organizzazioni internazionali quando lei
era oggetto di detenzione e emarginazione sotto il regime dei
militari. Da paladina dei diritti umani Aung San Suu Kyi è
diventata oggi un personaggio colluso con le efferatezze commesse
dalle forze di sicurezza, dall'esercito birmano e dagli estremisti
buddisti. Da paladina di una dissidenza pacifica verso un regime
militare brutale oggi ne condivide alcuni approcci nazionalistici.
e violenti. Nè una petizione da parte di altri Premi Nobel per la
pace e vari leader mondiali l'hanno convinta ad impegnarsi a
favore dei Rohingya. Inutile dire che alla luce di queste
circostanze la sua reputazione appare infangata ed il suo Premio
Nobel abusivo.
Aung San Suu Kyi
Certo i Rohingya si sono ribellati ai soprusi subiti con una
rivolta iniziata nel 2012 e questa circostanza ha alimentato e
giustificato la sistematicità di una continua repressione. Quindi
a cavalcare il risentimento del regime non è stata solo la
componente religiosa, ma anche quella nazionalistica. E proprio
perché la persecuzione del problema ha una connotazione religiosa,
si è interessata della questione anche l'Organizzazione per la
Conferenza Islamica direttamente sollecitata dalla Malesia dove
vive una grossa comunità di rifugiati Rohingya (circa 60.000
registrati dall'ONU).
Stupri, uccisioni extra-giudiziarie, pestaggi sistematici,
villaggi distrutti ed incendiati è oggi, come ieri (quindi prima e
dopo l'arrivo al potere di Aung San Suu Kyi) una quotidianità
nella vita dei Rohingya. In altre parole una pulizia etnica e
religiosa. Oramai i Rohingya - quelli che ancora non sono scappati
in Bangladesh, Indonesia, Malesia o Thailandia, vivono rinchiusi
in oltre 40 campi profughi in condizioni igienico-sanitarie
difficili, senza adeguato sostegno o protezione. Sono quasi
detenuti all'interno di questi campi perché non possono
allontanarsi senza uno specifico permesso.
La negazione della cittadinanza birmana deriva dal fatto che sotto
l'impero inglese, a metà del 1800, fu favorita una immigrazione
nella parte nord-occidentale della Birmania di altre popolazioni
musulmane dove già preesistevano insediamenti di religione
musulmana almeno da tre secoli prima. Quindi, una volta crollato
l'impero inglese, è rimasta la difficile convivenza tra la
popolazione di fede buddista e quella di fede musulmana. Anche la
seconda guerra mondiale ha allontanato ulteriormente le comunità
buddiste da quelle musulmane nel Rakhine, con i primi che erano
filo-inglesi ed i secondi filo-giapponesi. In quel contesto
milizie armate dei due contendenti avevano compiuto stragi
incrociate.
E proprio per negare l'esistenza di un legame etnico nello stato
del Rahkine, il governo birmano non si riferisce a questa
popolazione col nome di Rohingya ma solo identificandoli come
immigrati illegali, come "popolazione di religione islamica" o
tuttalpiù come "bengalesi" (ovvero provenienti dal Bangladesh).
Come diretta conseguenza, gli espropri forzosi delle terre di
questo gruppo etnico avviene senza ostacoli. Nella sostanza i
Rohingya non "esistono", sono de facto degli apolidi, non esiste
alcun loro diritto civile, non possono votare e quindi non sono
rappresentati politicamente, non hanno diritto a possedere terre,
non figurano nemmeno nella lista dei 135 gruppi etnici o nelle 8
razze riconosciute del Paese. Se ne devono solo andare e se non lo
fanno diventano destinatari di ogni tipo di sopruso. Anche il
Bangladesh non considera i Rohingya come cittadini del proprio
Paese. La loro presenza anche in altre nazioni asiatiche è
malamente tollerata.
Le autorità birmane, oltre ad impedire ogni interferenza
internazionale, oltre a rendere difficile l'attività delle
organizzazioni internazionali o umanitarie, impediscono l'accesso
nella zona anche ai giornalisti. E quest'ultima iniziativa
impedisce o almeno limita la conoscenza dei soprusi. Nella
pratica, la Birmania, con una popolazione di oltre il 90%
buddista, giustifica questa politica di repressione verso una
minoranza musulmana come un argine verso la diffusione dell'Islam
nel continente asiatico. Come quasi sempre avviene laddove viene
esercitato un sopruso con connotazioni religiose, si creano le
premesse per un insorgere del terrorismo di matrice islamica. E
c'è subito chi, come le associazioni wahabite dell'Arabia Saudita
e quelle integraliste pakistane soffia sul fuoco offrendo un
sostegno finanziario alla minoranza perseguitata. E' già avvenuto
con l'ISIS, si sta adesso concretizzando con il radicalismo
islamico dei Rohingya.
Non meraviglia quindi che il 9 ottobre 2016 ci sia stato un
attacco contro una guarnigione confinaria birmana nel nord del
Rahkine e che nel mese successivo sia stato ucciso un alto
ufficiale. Gli attacchi sono stati rivendicati da un gruppo armato
musulmano auto-identificatosi con il nome di "Harakah al Yaqin"
("Movimento della Fede"). Sembra che questa formazione armata sia
guidata da un comitato di espatriati Rohingya residenti in Arabia
Saudita. Il gruppo ha già mostrato di essere militarmente ben
addestrato (e quindi qualcuno – Stato o organizzazione che sia –
ha già provveduto in tal senso) soprattutto nell'attività di
guerriglia. Ed è altrettanto chiaro che la popolazione Rohingya
che vive nel Rakhine abbia subito mostrato simpatia per questo
gruppo fornendo assistenza o appoggi.
Ovviamente essendo un movimento dai connotati non solo etnici ma
anche religiosi anche il mondo musulmano locale ed internazionale
ha subito legittimato le operazioni militari dell'Harakah al Yaqim
con varie "fatwa". Anche questo è un dettaglio che ha accomunato a
lungo il percorso dell'ISIS in Siria e Iraq e che quindi conferma
che ci siano tutte le premesse per l'insorgere del terrorismo
islamico in Birmania. Già nel 2015 l'ISIS aveva cercato di
reclutare rifugiati Rohingya per combattere in Iraq e Siria.
Quindi era già nota all'organizzazione di Abu Bakr al Baghdadi la
possibilità che questo gruppo di fede musulmana perseguitato
potesse costituire un volano di combattenti da schierare sul
terreno.
I membri di Harakah al Yaqim - Il Movimento della Fede
Il terrorismo di matrice islamica è già presente in molte nazioni
dell'Asia ed episodi cruenti sono già avvenuti anche nel vicino
Bagladesh. Tale circostanza non esclude quindi che siano già in
atto collegamenti tra l'Harakah al Yaqim e formazioni armate
islamiche bengalesi. A parte la competizione tuttora in atto nel
continente asiatico tra al Qaeda e ISIS, la caratteristica
principale del movimento di al Baghdadi è stata sempre quella di
dedicarsi soprattutto alle guerre settarie. E nel caso della
Birmania ci sono tutte le premesse per alimentare il confronto
armato contro i nazionalisti buddisti. Una nuova guerra di
religione.
A seguito delle sconfitte militari in Siria e Iraq diventa
prioritario per i combattenti dell'ISIS trovare rifugio e
motivazioni ideologiche su altri campi di battaglia. I tanti
asiatici che combattono nelle file dell'ISIS (oltre un migliaio) e
che riusciranno a scappare dal Medio Oriente dovranno ricollocarsi
là dove ci sono le condizioni ambientali per sopravvivere,
ottenere appoggi e fare proselitismo. Il Rakhine è una di queste
aree. Ultimamente le autorità malesi hanno arrestato un membro
dell'ISIS di nazionalità indonesiana che voleva recarsi in
Birmania a compiere attentati. La frustrazione, emarginazione,
disperazione e povertà della popolazione Rohingya nello stato del
Rakhine danno spazio a questo possibile, prossimo insediamento
terroristico.
L'interesse dell'ISIS per il sud-est asiatico è ben noto. Già lo
scorso anno la propaganda del califfato aveva diffuso una nuova
pubblicazione, "Al Fatihin" ("Il conquistatore") in lingua
indonesiana. Ben 60 gruppi nell'area asiatica hanno giurato
fedeltà ad Al Baghdadi. Nelle file dell'ISIS opera/operava una
brigata di volontari asiatici, la "Katibah al Muhajir" ("Brigata
dei Migranti"). Assieme alla questione dei Rohingya si sta creando
in Asia una contrapposizione tra Paesi a maggioranza musulmana
come Indonesia, Malesia, Bangladesh e Pakistan e quelli buddisti
come la Birmania o induisti come l'India. In ognuno di questi
Paesi cresce l'estremismo religioso. E il terrorismo islamico ne
approfitterà.