LA PERICOLOSITÀ DELLA POLITICA DESTABILIZZANTE SAUDITA

Mohamed bin Salman
I
centri di poteri in Arabia Saudita sono essenzialmente due: la
famiglia reale e il clero wahabita. L'uno legittima l'altro. Su
questi pilastri del sistema sociale Saudita è stata sinora
assicurata la pace sociale. Come surrogato di questi poteri ci
sono poi le ricchezze detenute dai maggiori esponenti di queste
categorie e il controllo degli apparati di sicurezza.
Adesso questo sistema è stato colpito con l'iniziativa del figlio di Re Salman, Mohamed. Sono stati arrestati membri della casa reale, ministri e vari funzionari di alto livello, congelati conti bancari e beni personali, con modalità che a volte hanno visto anche l'uso della tortura. Tutto questo è stato possibile perché, tra i vari incarichi che ricopre Mohamed bin Salman, oltre alla nomina a principe ereditario, Capo della Corte Reale, Ministro della Difesa e del Consiglio per gli Affari Economici e lo Sviluppo, c'è adesso quello di capo della Commissione anti-corruzione. Praticamente controlla tutti i centri nevralgici del Paese e adesso deve consolidare il suo potere eliminando gli avversari o coloro che lo possono insidiare.
L’epurazione
L'iniziativa degli arresti di tanti personaggi di rilievo della casa reale (in precedenza erano stati anche arrestati alcuni membri del clero wahabita) non è mirata ad eliminare la corruzione o il malaffare ma ad eliminare gli oppositori. Poi c'è anche un altro aspetto di valenza più economica che politica: si sta trattando con i vari arrestati - peraltro personaggi molto ricchi - affinché venga barattata la loro libertà con la rinuncia di buona parte del loro patrimonio (e forse non è solo una coincidenza che tra gli arrestati figuri uno degli uomini più ricchi del paese, il Principe Al Waleed bin Talal, a capo del Fondo di investimenti Kingdom Holding). Si otterrebbe così un doppio risultato: perché meno soldi significa meno pericolosità politica e perché oggi, con il prezzo basso del petrolio, le casse statali saudite sono meno floride.
Mohammed bin Salman vuole arrivare al soglio reale (il padre ha adesso 81 anni) con il controllo del Paese già assicurato. Nella presunta e conclamata lotta alla corruzione appare invece evidente la strategia di sbarazzarsi dei maggiori oppositori. Ne ha fatto le spese il Principe Muqrin bin Abdullaziz, fratello del Re Salman che aveva titolo a restare principe ereditario (incarico da cui a suo tempo era stato avvicendato). Muqrin era pericoloso perché aveva a lungo diretto i Servizi di Intelligence del reame e quindi disponeva ancora dei contatti giusti per contrastare le velleità del Principe Mohammed. Ma è stato tolto di mezzo anche Mohammed bin Nayef, suo cugino più anziano, che è stato esautorato dall'incarico di Principe ereditario e dal suo ruolo di controllo del Ministero degli Interni. Mohammed bin Nayef vive in una condizione di arresto domiciliare ed i suoi conti bancari sono stati congelati. Poi tra gli epurati figurano anche alcuni vertici di strutture militari: il Principe Miteb bin Abdullah (figlio del precedente sovrano), destituito dal comando della Guardia Nazionale, e il Comandante della Marina Abdullah al Sultan. Per avere mano libera anche sull'economia, Mohammed bin Salman ha inoltre esautorato il Ministro dell'economia e Pianificazione Adel Faqih.
In un mondo come quello Saudita, dove prevale una cultura tribale, una defenestrazione violenta dal potere con uso e abuso pubblico degli arresti, implica che i destinatario di tali provvedimenti perdano platealmente la faccia e vengano umiliati. Un’offesa questa che generalmente andrebbe lavata con la vendetta. Evidentemente il Principe Mohammed si sente molto forte e quindi non si cura di questo tipo di reazioni.
Comunque, l'impatto dirompente delle iniziative del principe ereditario stanno determinando una destabilizzazione del tessuto sociale e non sono ancora note le reazioni che tutto questo potrà produrre. Mohamed vuole comandare e modernizzare la società Saudita.
Una precedente epurazione di alcuni personaggi di rilievo del clero wahabita mirava anche a questo. Infatti, l'arretratezza sociale dell'Arabia Saudita è soprattutto frutto del radicalismo islamico che viene professato dal wahabismo. Quindi niente di meglio che ridimensionare il peso della religione nelle vicende politiche del Paese.
Inoltre, Mohammed, nel suo incarico di responsabile economico del Paese, vuole diversificarne l'economia, oggi troppo legata ai soli proventi petroliferi. Ma un’economia più aperta al mondo, lo sfruttamento del turismo, l'arrivo di investimenti e società straniere, può avvenire senza traumi solo se il contesto sociale locale è più evoluto e laddove l'innesco di nuove culture ed abitudini diverse provenienti dall'estero non produca disagi o contrapposizioni.
Quindi meno ingerenza religiosa; evoluzione e modernizzazione della società; aperture al mondo . Tutte queste iniziative di Mohammed bin Salman rispondono a una precisa logica, ma stanno avvenendo in modo repentino, forse anche troppo per un mondo legato alla tradizione e allo scorrere lento del progresso.
Anche il recente decreto che potrà consentire in futuro alle donne di guidare una macchina rientra in questo tentativo di modernizzazione.

Abd Rabbo Mansour Hadi
La
politica estera
Ma Mohammed ha preso in mano anche le redini della politica estera e anche qui, come sul piano interno, l'impatto è stato dirompente. Molta baldanza, pochi scrupoli, scarsa considerazione per le conseguenze che ogni iniziativa può determinare. Adesso la politica estera Saudita, targata Mohammed bin Salman, è nettamente più aggressiva.
La guerra in Yemen - peraltro disastrosa sul piano dei risultati - ne è una diretta conseguenza. Le recenti sanzioni contro il Qatar, reo di non essersi allineato ai voleri di Ryadh, sono un'altra mossa intempestiva. Se l'iniziativa in Yemen mirava a contrastare la minoranza Houthi di quel Paese ed i suoi legami con Teheran, il risultato è stato diametralmente opposto. C'è poi l'aggravante che al cosiddetto Presidente "legittimo", Abd Rabbo Mansour Hadi, rifugiatosi in Arabia Saudita da tre anni e per il cui reinsediamento al potere oggi si combatte, viene impedito di tornare nel suo paese perché non gradito agli Emirati Arabi Uniti che combattono al fianco dei sauditi in Yemen.
Se le sanzioni contro il Qatar miravano ad isolare Doha dagli altri paesi sunniti del Golfo per colpa di presunte collusioni con il terrorismo islamico (leggasi i palestinesi di Hamas, Hezbolah, ed i Fratelli Musulmani), anche qui il risultato è stato diametralmente opposto: il Qatar si è avvicinato ancor più all'Iran e nel contempo la Turchia (dove è noto il legame dell'AKP di Erdogan con la Fratellanza) vi ha adesso un suo distaccamento militare.
Se
sul piano interno la politica aggressiva del Principe ereditario
può potenzialmente raggiungere risultati, la stessa baldanza in
quella estera appare finora perdente. In una regione fortemente
destabilizzata come il Medio Oriente, dove amici e nemici,
convenienze e contraddizioni si incrociano e talvolta si elidono,
la politica estera ha molte volte più bisogno di una sottile opera
diplomatica che non di minacce o ostracismi.
Sotto questo aspetto, Mohammed bin Salman deve ancora imparare ad
essere più previdente. La grossa minaccia che incombe sui Paesi
sunniti del Golfo, di cui l'Arabia Saudita è il Paese più
importante e militarmente più forte, è oggi l'espansionismo dello
sciismo e dell'Iran. Non è una vertenza che si può risolvere con
una guerra, anche perché dietro l'Iran c'è oggi la Russia e quindi
non sarebbe più un conflitto dai contorni regionali ma
implicherebbe il coinvolgimento diretto delle superpotenze. Quindi
tutto questo postula l'utilizzo dello strumento diplomatico e non
militare.

Saad Al Hariri
L’iniziativa sul Libano
L'ultima iniziativa di Mohammed bin Salman, dai contorni operativi ancora incerti, è la crisi innescata in Libano, dove il Premier Hariri, con doppia nazionalità saudita-libanese, e ovviamente spalleggiato da Ryadh, ha dato le dimissioni dal suo incarico durante un viaggio proprio nella capitale Saudita. Che sia un gesto spontaneo o uno fortemente voluto dal Principe ereditario, l'obiettivo è comunque la condanna del potere degli Hezbollah (presenti, peraltro, nella compagine governativa di Hariri) nelle vicende politiche di Beirut. Avendo la famiglia Hariri il fulcro dei propri affari in Arabia Saudita, il compito di convincere il giovane premier libanese alle dimissioni è alquanto semplificato.
Colpire gli Hezbollah vuol dire colpire l'Iran con l'intenzione di contrastare la creazione da parte di Teheran di quella mezzaluna geografica a matrice sciita che collega l'Iran, la Siria, l'Iraq e il Libano. Ancora una volta, non è ben chiaro cosa possa ottenere l’Arabia Saudita dalla destabilizzazione di un paese come il Libano, che come è noto è già storicamente molto instabile. Gli Hezbollah in Libano possono essere combattuti solo da Israele e non certo dall'Arabia Saudita, anche per ovvie ragioni geografiche. Per dire il vero, neanche gli altri Paesi sunniti sono sembrati solidali con l'iniziativa di Mohammed bin Salman.
Ma se la comunanza di interessi strategici può avvicinare Israele e Arabia Saudita (Israele ha confermato gli incontri segreti tra i due paesi, ai quali potrebbe avere partecipato anche lo stesso Mohammed bin Salman), la possibilità di una guerra contro gli Hezbollah, innescando così una nuova guerra civile in Libano, non rientra negli interessi israeliani.
Una guerra civile in Libano avvantaggerebbe la componente militarmente più forte di quel Paese e cioè gli Hezbollah. Ci sono quindi obiettivi comuni tra Israele e Arabia Saudita, ma soluzioni tattiche diverse. Oltretutto, innescare una reazione che potrebbe coinvolgere anche quelle milizie di volontari sciiti, circa 50.000 uomini, che sotto il comando del capo dei Pasdaran iraniani, il generale Qassem Suleiman, si muovono tra Siria e Iraq, sarebbe troppo pericoloso. Ma come sempre Mohammed bin Salman sembra non valutare adeguatamente le conseguenze dei propri gesti.
Il doppio fronte interno ed estero
L 'essersi contemporaneamente buttato su una politica interna contro gli oppositori ed una esterna contro i nemici, entrambe di stampo aggressivo7, solleva dei seri dubbi sul ruolo di statista che Mohammed bin Salman vuole ritagliarsi sul piano interno ed internazionale. Forse la fretta con cui si muove è dettata dal desiderio del padre di abdicare, che costringe Salman ad accelerare i tempi.
Sul piano internazionale, il suo ricorrente bellicismo ha già prodotto danni in Yemen, Qatar, e forse tenderà a fare altrettanto in Libano. Anche i finanziamenti dati ai molti gruppi ribelli che combattevano il siriano Assad non hanno prodotto risultati. Né sul piano militare, né su quello politico, in quanto non hanno permesso ai sauditi di avere peso contrattuale nei negoziati di pace. Guardando invece alle relazioni con l'Iraq, i tentativi di contrapporsi all'influenza iraniana sulle autorità di Bagdad sono stati deludenti. Nonostante tutto questo, in più occasioni il Presidente americano Trump ha lodato le iniziative del principe, sia sul piano estero ma anche su quello interno.
Sul piano interno le iniziative sono ancora troppo recenti per essere valutate; non è ancora possibile individuarne le conseguenze. Anche qui, Mohammed sottovaluta il fatto che il 20% della popolazione Saudita è di fede sciita ed è concentrata nelle zone di maggiore produzione petrolifera del Paese. Quindi gente sensibile alle istanze di Teheran, anche perché fortemente osteggiata dalla maggioranza sunnita.
Il
paradosso potrebbe essere che alla fine, guidato dalla volontà di
combattere l'Iran e lo sciismo in Medio Oriente, il Principe
ereditario Saudita si ritrovi a combattere i propri nemici in
casa.