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SINAI, TERRA DI NESSUNO


sinai map

61.000 Kmq , una popolazione di circa 6/700.000 beduini, divisi in una dozzina di tribu' nomadi, terra inospitale e senza risorse, un'economia basata sul contrabbando di droga, traffico d'armi e di esseri umani. Un giro d'affari che viene stimato intorno ai 300/500 milioni di dollari l'anno. Questo e' il Sinai di ieri, a cui oggi si sono aggiunti nuovi elementi: l'emergere e la diffusione del credo Salafita con correlato estremismo islamico e il terrorismo.

Tutto questo e' il risultato di una situazione sociale esplosiva in Egitto che ha visto, negli ultimi due anni, in sequenza la rivolta popolare, la caduta di Hosni Mubarak, l'arrivo al potere dei Fratelli Musulmani, la loro successiva cacciata ed il ripristino di una guida militare. Nel susseguirsi di queste vicende il Sinai, prima inquadrato all'interno di un sistema di garanzie e di controlli volto al mantenimento della pace con Israele (ed in questo senso veniva esercitato il controllo sul territorio lasciando comunque ai beduini lo spazio per le loro attivita' illegali dal quale derivava il loro sostentamento economico), adesso e' diventato territorio di frontiera per chi ha intenzione di fomentare disordini e guerre con tutte le opportunita' che un confine con Israele di oltre 200 km e di 12-13 km con la Striscia di Gaza possono concedere.

La rivolta popolare del 2011 aveva inizialmente costretto le autorita' militari a liberare tutti quei personaggi che si erano macchiati di reati collegati anche all'estremismo islamico, erano poi seguite le fughe di massa dalle carceri che avevano messo in liberta' criminali comuni. La maggioranza di questa gente si e' poi concentrata nel Sinai, dove il controllo centrale e' diventato sempre piu' debole e dove le possibilita' di muoversi in liberta', sia per compiere atti di terrorismo che per lo svolgimento di attivita' illegali, sono sicuramente molto ampie.

Quindi, quello che adesso avviene nel Sinai non e' piu' riferibile unicamente ad un cambiamento di attitudine delle popolazioni nomadi e beduine, che nel passato non avevano mai coltivato idee Salafite (l'estremismo islamico non e' mai stato parte della cultura beduina) o tendenze terroristiche, ma dall'arrivo di quei professionisti del terrorismo che si muovono per il mondo collocandosi, di volta in volta, geograficamente laddove c'e' possibilita' di fomentare terrore ed attentati. Oggi questa opportunita' e' fornita dalla posizione geografica del Sinai e dalla debolezza delle autorita' militari al Cairo. Una situazione che lentamente e' andata degenerandosi dopo l'estromissione e l'arresto del Presidente Mohamed Morsi. Certamente i beduini, che nelle ultime elezioni presidenziali avevano votato per Morsi pur non avendo grandi simpatie per i Fratelli Musulmani, hanno adesso colorato le loro attivita' illegali di significati politici, talvolta affiancandosi ad istanze estremistiche.

mohamed al zawahiri
Mohamed al Zawahiri

Il terrorismo

Gia' nell'agosto del 2011 era comparsa, in un attacco ad una stazione di polizia ad Al Arish, una sigla che poteva gia' far prefigurare un programma eversivo: "Al Qaeda nella Penisola del Sinai". Un'etichetta che poteva suonare simile all'analoga "Al Qaeda nella Penisola Arabica", gia' comparsa precedentemente in Yemen. Qualche mese dopo questa prima operazione militare, compariva un altro gruppo, "Ansar al Jihad" ("Partigiani della Jihad"), che annunciava la sua adesione all'attuale leader di Al Qaeda, Ayman al Zawahiri, che - non bisogna scordarselo - e' di nazionalita' egiziana. Da quel momento in poi e' stato tutto un proliferare di sigle in tutto il Paese: " Gamaat Ansar al Sharia" ("l'Organizzazione dei Partigiani della Sharia"), comparsa nell'ottobre 2012, e poi di "Al Taliah al Salafyah al Mujahedyah Ansar al Sharia" ("l'Avanguardia Combattente Salafita dei Partigiani della Sharia"), comparsa a gennaio 2013.

Tutte sigle hanno in comune il marchio di "Ansar al Sharia", lo stesso e' diventato consuetudine in ogni Paese del nord Africa e richiama l'affiliazione ad Al Qaeda del defunto Osama bin Laden. In Libia questa organizzazione e' stata responsabile dell'uccisione dell'ambasciatore americano a Benghazi. Tuttavia, le sigle terroristiche egiziane hanno principalmente origine nella Jihad Islamica egiziana, un gruppo terroristico presente nel Paese da svariati anni ed adesso rinverdito alla luce delle recenti vicende politiche interne. Non casualmente tra le figure emergenti dell'estremismo islamico egiziano, che lentamente si sta trasformando in terrorismo, figura Mohamed al Zahawiri, fratello del piu' noto Ayman, liberato dalle prigioni egiziane nel marzo del 2012.

Oltre alla Jihad Islamica, vi sono le sigle di sempre: Tawhid wal Jihad (Unicita' e Jihad) e Tafkir wal Hijra (Espiazione e Pellegrinaggio, il cui capo della branca nel Sinai, Abdul Fattah Hassan Hussein, e' stato recentemente arrestato). Queste sono tutte schegge impazzite di movimenti estremisti islamici con legami storici con i Fratelli Musulmani. A queste ultime vanno aggiunte le diverse milizie, come quelle di Salem Abu Lafi, che piu' che un gruppo terroristico e' una banda di criminali. Come avvenuto in Algeria, Mali ed in altri Paesi del nord Africa e della fascia sub-sahariana, i gruppi operativi si chiamano "Kataeb" (battaglioni), i vari capi sono autoproclamati "emiri" (un mix fra capo militare e guida religiosa) e l'obiettivo finale e' sempre quello di creare un emirato islamico indipendente nel Sinai.

Non esistono dati certi sulla consistenza di questi gruppi armati: le autorita' egiziane li stimano sull'ordine di un migliaio. Probabilmente sono il doppio, anche se e' difficile discernere l'attivita' criminale, le rivendicazioni dei beduini e l'attivita' terroristica propriamente detta. Sono piu' certi i dati sugli armamenti che posseggono: missili GRAD, armi controcarro, mortai, mitragliatrici contraeree.

Il ritorno al potere dei militari al Cairo - ed e' un fatto inequivocabile - ha prodotto una escalation di attentati nel Sinai, sia contro esercito e polizia egiziana (l'ultimo in ordine di tempo e' stato un attentato con autobomba che ha ucciso 10 militari e ne ha feriti altri 35 a Al Arish il 20 novembre 2013, mentre in agosto erano stati catturati e decapitati 28 militari di leva a Rafah), che contro le forze Onu ed ovviamente contro Israele (basti pensare alla penetrazione e all'attacco dell'agosto 2011 dove 6 civili e 2 militari sono stati uccisi). Il Sinai oggi e' quindi a tutti gli effetti un campo di battaglia. Gli israeliani impiegano droni, incursioni ed attacchi mirati, l'esercito egiziano effettua retate e cruente operazioni di bonifica, i terroristi - talvolta da soli, talvolta con il concorso dei beduini - rispondono con gli attentati.

Primo problema: la Striscia di Gaza

Una zona gia' calda in passato e diventatalo ancor di piu' oggi e' il confine con la Striscia di Gaza. Alcune tribu' dell'area vicino a Gaza (soprattutto i Tarabin e i Sawarka) hanno recentemente annunciato la formazione di un "Consiglio di Guerra" assieme ad alcune milizie jihadiste. Sotto Hosni Mubarak, i rapporti - ma soprattutto i commerci - con Gaza erano sempre stati subordinati ad un controllo dei militari. Alcuni traffici erano indirettamente consentiti, complice l'alto tasso di corruzione della polizia, ma soprattutto l'intenzione di voler garantire livelli seppur minimali di tenuta sociale e sanitaria nella Striscia. Con l'avvento di Hamas nel 2007, il controllo del Cairo e' divenuto piu' stretto. L'elezione di Morsi ha ribaltato la situazione. Stanti i forti legami tra Hamas e Fratelli Musulmani, sono nuovamente cresciuti i traffici e i contrabbandi con l'enclave palestinese. L'ennesimo capovolgimento con il ritorno dei militari al potere e' per i beduini, sotto l'aspetto meramente "commerciale", un evento negativo.

Una delle prime iniziative del gen. Mohamed Fareed Al Tohami, nemico giurato dei Fratelli Musulmani (era stato messo sotto accusa da Morsi per corruzione) ed oggi neo-capo dei General Intelligence Service (Gihaz al-Mukhabarat al Amma), e' stata quella di chiudere buona parte dei tunnel che collegano l'Egitto a Gaza. Alcuni sono stati inondati di liquami, altri distrutti ed altri invece lasciati in operativita' per fare giungere ai palestinesi medicinali, carburanti ed altri generi alimentari di prima necessita'. Chiaramente il traffico di armi, compresi i missili iraniani, e' stato bloccato. I militari egiziani temono soprattutto che si possa creare una saldatura tra i gruppi estremisti palestinesi e quelli islamici egiziani.

Secondo problema: il Canale di Suez

Il controllo del Sinai pone alle autorita' del Cairo anche un ulteriore problema: quello della sicurezza nella navigazione del Canale di Suez. Gia' ad agosto 2013 una nave cinese era stata oggetto del lancio di un razzo dalla riva sul lato del Sinai che non aveva causato danni. Il gesto era stato rivendicato da una non meglio identificata "Kataeb al Forqan". Questa organizzazione aveva annunciato altre operazioni del genere in futuro. Secondo il loro proclama, gli obiettivi sono le "portaerei dei crociati che colpiscono i musulmani", mentre il canale serve come "rotta commerciale degli infedeli". A questa operazione se ne sono aggiunte delle altre a seguito della defenestrazione di Morsi: un attacco alle installazioni petrolifere di Suez (sempre con razzi anticarro), un altro attacco alla zona di libero commercio all'ingresso del Canale.

Per l'Egitto il Canale di Suez e' di una delle piu' importanti fonti di introito per lo Stato: circa 5 miliardi di dollari l'anno dagli oltre 17.000 (dato 2012) natanti che attraversano questa striscia d'acqua. Perdere il controllo del Canale significherebbe perdere soldi, ma anche credibilita' internazionale. Ma senza un controllo adeguato della costa anche sul lato peninsulare, per i militari egiziani e' difficile assicurare il libero transito delle navi. Ed e' un compito arduo da assicurare, visto che il Canale e' lungo circa 193 km ed ha una larghezza massima di 250 mt. E le navi lo percorrono lentamente.

Crollando la sicurezza lungo il Canale, crolla automaticamente anche il turismo internazionale che negli anni si e' concentrato in quelle aree. Anche in questo caso viene messa a repentaglio una delle maggiori fonti di valuta pregiata del Paese. Il turismo rappresenta/rappresentava il 10% dell'attivita' economica dell'Egitto, ma oggi molti alberghi sono chiusi e la presenza di turisti stranieri e' diventata risibile. E questo, in un Paese con un forte deficit di bilancio, dove oltre il 50% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno, ogni riduzione di risorse o di lavoro rischia di di avere forti ripercussioni sociali.

Terzo problema: il confine con Israele

A parte le difficolta' di controllo su di un territorio esteso ed arido, dove solo la popolazione autoctona ha capacita' di muoversi, la questione del Sinai e' regolata dal 1978 dagli accordi di Camp David. Occupato da Israele durante la Guerra dei Sei Giorni nel 1967, restituito all'Egitto nel 1978, dal 1982 gli accordi di pace con Israele prevedono lo schieramento di un contingente Onu lungo il confine comune. La Multinational Force of Observers (MFO) conta un contingente di oltre 1.600 uomini (tra cui americani) con il compito di creare una zona cuscinetto demilitarizzata. Per quanto riguarda la presenza di forze militari egiziane, il resto della penisola del Sinai e' regolato secondo una divisione territoriale in:

  • zona "A" (quelle piu' distanti dal confine e lungo il Canale), dove e' autorizzata la presenza di una Divisione meccanizzata con un massimo di 22.000 uomini;

  • zona "B" (intermedia) dove possono operare solo 4 battaglioni di frontiera con un massimo di 3.000 uomini;

  • zona "C" (quella piu' adiacente al confine con Israele) dove, accanto alle truppe Onu, puo' stazionare solo la polizia egiziana e non l'esercito;

  • zona "D" regola invece la presenza militare dell'esercito israeliano sull'altra parte del confine.

Esistono anche limitazioni per quanto riguarda i voli militari ed altro, ma quello che piu' conta e' che da oltre 30 anni il controllo del Sinai e' delegato al Ministero dell'Interno egiziano e non alle Forze Armate. Questo ha fatto si' che l'esercito si sia sempre stato tenuto fuori da tutte le attivita' illecite gestite dai beduini, senza prevenirle o combatterle. Oggi quindi non ne conoscono a fondo le dinamiche o le modalita' per bloccarle. In senso lato, l'esercito ha il solo compito di "assistere" i reparti di polizia.

Adesso che la situazione e' cambiata in peggio si crea la necessita' di una presenza e di un controllo fattivo del territorio da parte dei militari. Ultimamente Israele ha autorizzato una deroga agli accordi di Camp David, in modo da permettere una maggiore presenza militare egiziana nel Sinai. E' stato autorizzato lo schieramento di una ulteriore Brigata meccanizzata (in pratica altri 3.000 uomini con una ventina di carri armati) e, soprattutto, sono stati schierati elicotteri da attacco "Apache" presso la base aerea di Al Arish. Attualmente mancano conferme sulla efficacia di questo incremento di dispositivo. L'obiettivo dei terroristi e' palesemente quello di boicottare l'accordo di Pace tra Egitto ed Israele, fortemente inviso alle frange dell'integralismo islamico. Finche' ci saranno i militari al potere al Cairo, non sara' facile che questo possa accadere nel breve termine. Piuttosto, gli ultimi incidenti hanno rafforzato la collaborazione fra le agenzie di intelligence dei due Paesi.

Sullo sfondo vi e' il ricorrente problema sull'utilita' dei contingenti Onu, che agiscono unicamente come testimoni di quel che succede avendo, come nel caso della MFO, solo funzioni di "peacekeeping" (che poi viene osservata e garantita solo se le parti in causa lo permettono) e non di "peace enforcement" (come talvolta le circostanze imporrebbero). Questo per dire che la sicurezza del confine con Israele non e' assolutamente garantita dalle forze Onu (ne' tantomeno dalle esigue forze di polizia egiziane) e che quindi atti di terrorismo possono essere facilmente compiuti. E' per questo Israele ha attualmente in atto la costruzione di un muro, alto oltre 5 metri, lungo tutto il confine con il Sinai.

Sui rapporti con Israele incide anche l'utilizzo di un gasdotto (Arab Gas Pipeline) che, attraversando il Sinai, fornisce alle autorita' di Gerusalemme circa 1,7 miliardi mc di gas ogni anno. Una fornitura che ha un valore commerciale alquanto limitato, ma un grosso impatto psicologico perche' contribuisce a oltre la meta' delle specifiche esigenze energetiche di Israele. Ed anche per questo, non casualmente, sono ricorrenti sabotaggi ed attentati.

anwar sadat
Anwar Sadat

L'incertezza sul futuro

Dopo Iraq, Afghanistan, Siria e Somalia, anche il Sinai rischia di diventare terra di confronto armato e base di partenza del terrorismo islamico. Ha tutti gli ingredienti per diventarlo: la vicinanza con Israele, i contatti con la resistenza palestinese di Hamas, la lotta contro un regime militare centrale che ha sovvertito un plebiscito popolare, una zona impervia difficile da controllare che assicura liberta' di movimento, una commistione tra terrorismo e criminalita' dove gli interessi dell'uno coincidono con le convenienze economiche degli altri. Tante bandiere per tante lotte.

I beduini del Sinai hanno storicamente mantenuto una loro identita' ed il loro modo di vivere senza confini o regole imposte. I loro vincoli tribali hanno sempre sopravanzato l'appartenenza ad uno Stato centrale. Una situazione di pericolo percepita anche in passato al Cairo, tanto che il defunto Presidente Anwar Sadat voleva pianificare una urbanizzazione del Sinai con l'arrivo nella penisola entro il 2018 (quindi in un arco di 20 anni) di circa 3 milioni di egiziani che avrebbero cosi' messo fine alle mire autonomistiche dei beduini autoctoni. La morte violenta del Presidente Sadat (eliminato dopo la firma degli accordi di Camp David) ha reso poi il piano inattuabile.

Oggi il pericolo e' che si innesti sulla tradizionale questione dell'autonomia sociale dei beduini il virus del terrorismo, favorito nel suo proliferare da una terra di nessuno sfuggita al controllo delle autorita' centrali. Oggi il terrorismo internazionale di matrice islamica opera nel lungo termine, si insedia in aree dove puo' operare indisturbato, si accontenta di creare conflittualita' locali a scopi tattici per obiettivi strategici, approfitta di ogni opportunita' sociale gli si presenti per affermare la legittimita' delle sue azioni. E queste opportunita', in un Medio Oriente attraversato da ribellioni e pulsioni sociali, certo non mancano.