LA SOLUZIONE SIRIANA PASSA DA AFRIN

Era inevitabile che, una volta portata a compimento la sconfitta
militare dell’ISIS, venissero fuori tutte le contraddizioni di una
situazione regionale dove interessi, mire, strategie dei singoli
protagonisti erano state sinora tenute sotto traccia dalla lotta
comune contro il terrorismo islamico.
Sconfitto il nemico comune, ognuno adesso gioca la sua carta negli
equilibri del Medio Oriente. Alcune alleanze, strumentali a questo
obiettivo militare, saltano. Gli alleati diventano nemici o
viceversa.
I negoziati condotti ad Astana, Sochi, Vienna ed anche Ginevra
(sotto il formale patronato ONU), avvengono con il chiaro placet
russo e servono a mantenere in sella il regime di Assad e
soprattutto a legittimare il ruolo e l’influenza di Mosca sulle
vicende mediorientali. Obiettivi a portata di mano, se verranno
evitati tutti gli ostacoli che possono fare deragliare una
composizione pacifica e negoziata della questione siriana. Perché
il rischio più grosso è che finita una guerra se ne inneschi
subito un’altra.
Ma il problema non è tanto quello che vogliono i russi, che
praticamente hanno già ottenuto, in termini di prestigio, quello
che cercavano da quando si sono schierati militarmente a fianco
della Siria. Il problema non è tanto neanche quello che vogliono
gli iraniani che, avendo combattuto a fianco di Assad ed avendo
nel contempo fornito aiuti e milizie di volontari agli iracheni,
possono adesso sfruttare una rendita strategico/militare che li
vede presenti e forti nella storica lotta contro le monarchie
sunnite. Il loro problema, in un futuro molto prossimo, sarà il
confronto militare con Israele in una delle tante guerre per
procura oggi presenti in Medio Oriente. Nel caso specifico la loro
longa manus saranno gli Hezbollah.
La Turchia
Ma il problema più grande è invece la Turchia, perché nel suo
mutante approccio sulle vicende mediorientali ha prima osteggiato
il regime di Assad per poi invece appoggiarlo; ha chiuso gli occhi
sul sostegno logistico che l’ISIS otteneva dal transito attraverso
la Turchia per poi combatterlo; ha inasprito i rapporti con i
paesi sunniti del Golfo per un supporto plateale al Qatar; è
entrato in rotta di collisione con l’Egitto quando un presidente
dei Fratelli Musulmani è stato defenestrato da un colpo di stato
militare; ha avuto rapporti difficili con gli Stati Uniti benché
sinora abbia mantenuto la sua partecipazione all’alleanza NATO; ha
fatto abbattere un aereo russo per un presunto sconfinamento sul
proprio territorio per poi riconciliarsi con Mosca; ha
strumentalmente cavalcato la questione di Gerusalemme per ergersi
a difesa dei diritti dell’Islam. Insomma, un interlocutore scomodo
e spesso inaffidabile nel gioco degli assetti mediorientali.
Ma nell’incoerenza della posizione turca c’è anche la questione
curda: ha prima ricercato un accordo con il PKK tramite il loro
capo, da anni in detenzione, Ocalan, per poi interrompere la
tregua e tornare a combatterli. Ed oggi è di nuovo il problema
curdo a diventare centrale nella pacificazione della Siria.
A Erdogan non interessa tanto che il regime siriano rimanga al
potere, ma che nella ricomposizione territoriale della Siria non
esista un’area dove i curdi possano godere di una propria
autonomia. La demonizzazione del cosiddetto “terrorismo” curdo,
l’accostamento dell’YPG siriano alla lotta armata che il PKK
conduce da decenni contro Ankara, è oramai un elemento centrale
della politica dell’AKP di Erdogan perché convoglia sul leader
islamista i consensi delle frange nazionaliste del Paese.
I combattimenti dell’esercito turco, affiancato dai miliziani del
Syrian Free Army da loro addestrati (circa 10/15000 uomini), su
Afrin (oggi) e su Manji (probabilmente domani), due località
strappate dai curdi alle milizie di Al Baghdadi al confine con la
Turchia, sono l’aspetto pratico di questo approccio che trascura
ogni qualsivoglia soluzione negoziata si possa intravedere sulla
questione.
I curdi siriani, quelli che hanno il controllo di un area che
riguarda circo il 20/25% del Paese, da loro definita “Rojava”
(“Occidente”) e che comprende, lungo il confine della Turchia, le
zone di Afrin, Kobane e Jazira, rivendicano la possibilità di
costituire una regione autonoma all’interno della Siria. Per
questo motivo non hanno mai combattuto contro il regime di Assad
ma solo contro l’ISIS, guadagnandosi, con questa guerra,
benemerenze militari e presunto prestigio negoziale. Nella pratica
occupano oggi un’area che è stata liberata dai terroristi islamici
con il loro sangue. Sconfitto l’ISIS loro adesso rivendicano il
diritto a godere, in questo stesso territorio, di una loro
autonomia più o meno ampia
Ma come abbiamo detto, questa eventualità non è gradita alla
Turchia che teme un effetto contagio sul proprio territorio e teme
che il Rojava possa domani costituire una minaccia alla sicurezza
del proprio Paese. Il 20 gennaio è quindi partita con l’operazione
“Ramo d’ulivo”, un’offensiva dell’esercito turco, che è entrato in
Siria con il dichiarato obiettivo di smantellare le difese
dell’YPG e eliminare così il rischio di questa possibile entità
autonoma curda ai propri confini. Una lotta impari che vede
contrapposti forze esigue contro un esercito di oltre un milione
di soldati.
L’accostamento turco che accomuna il PKK e l’YPG, definendole
entrambe formazioni terroristiche, è sicuramente una forzatura per
giustificare un intervento armato in Siria. Pur risultando che le
due formazioni sono in contatto tra loro, soprattutto nel comune
ideale di ottenere una autonomia della propria comunità in Medio
Oriente, sulla falsariga di quella che in pratica hanno già
ottenuto i curdi iracheni, le lotte che entrambi conducono sono
riferite a diverse realtà geografiche: il PKK dalle montagne
irachene combatte i turchi in Turchia, l’YPG lotta per l’autonomia
curda in Siria ma non ha combattuto contro la Turchia o il regime
di Damasco. Ha solo combattuto sinora contro l’ISIS con il
sostegno e il consenso americano.
Il PKK conduce una lotta armata contro Ankara dal 1984 ed è
considerato organizzazione terroristica dall’Unione Europea, dagli
Stati Uniti e anche da Israele. L’YPG è invece stato l’alleato più
qualificato nella lotta contro il terrorismo islamico nell’ambito
delle formazioni armate del Syrian Democratic Forces sostenute,
come detto, dagli americani.

Il
dilemma
L’attacco militare turco pone adesso i vari attori, regionali e
internazionali, che ruotano intorno alla questione siriana, di
fronte ad un dilemma: lasciare che la Turchia porti a compimento
la sua pulizia etnica o intervenire per bloccarla, magari trovando
qualche formula negoziale che possa da un lato lenire le
preoccupazioni turche sulla sicurezza dei propri confini, e nel
tempo ridimensionare, pur salvaguardandole, le istanze dei curdi
siriani. Se non si trova una soluzione, i circa 30.000 combattenti
dell’YPG (uomini) / YPJ (donne)(ossatura principale delle Syrian
Democratic Forces, che comprende anche altre etnie ed ha una forza
di circa 50/60.000 uomini), che la guerra la sanno fare, come
ampiamente dimostrato in questi anni, potrebbero riconvertire la
loro professionalità acquisita sui campi di battaglia in lotta
armata o terrorismo.
Il fatto che i curdi non abbiano partecipato con delegazioni di
influenza politica alla conferenza di Sochi di fine gennaio, dove
aveva luogo un dialogo nazionale siriano, una specie di
riconciliazione interna sotto l’egida russa, non è un buon segno.
Americani, russi e siriani
I più esposti sul piano della credibilità sono gli americani. Il
loro disimpegno militare sulle vicende mediorientali, a fronte
dell’impegno militare russo, aveva già abbondantemente scalfito il
loro prestigio. Adesso, se abbandonano i curdi siriani al loro
destino dopo averli aiutati e sponsorizzati nella lotta contro
l’ISIS, il danno di immagine è assicurato. Per adesso, tanto per
dimostrare che anche loro sono presenti, hanno bombardato delle
postazioni siriane. Un monito per fare capire che ci sono, hanno
un deterrente militare e quindi devono essere parte attiva in una
soluzione siriana. Un approccio che ovviamente comprende anche il
destino dei curdi del Rojava.
Anche i russi hanno problemi perché la pax sociale in Siria passa
anche per la soluzione al problema curdo locale. Al momento si
nascondono dietro l’imbarazzo americano, accusano i curdi di
essersi scelto l’alleato sbagliato, ed indirettamente assecondano
le pretese di Ankara (hanno acconsentito agli aerei turchi di
entrare nello spazio aereo siriano). Ma la presenza militare turca
sul territorio siriano è contraria ai propri interessi e lede alla
stabilità e all’integrità del Paese per il quale hanno anche
combattuto.
I curdi hanno richiesto il sostegno militare del regime siriano
per contrastare militarmente l’esercito turco, ma Damasco ha ben
altri problemi da affrontare sul campo di battaglia, soprattutto
nell’area di Idlib, che non confrontarsi con le truppe di Ankara.
Ma l’idea di portare i curdi dalla loro parte (e quindi nel
contempo moderare le preoccupazioni americane) ha sicuramente
aspetti di vantaggio per il regime di Damasco. Ed infatti il
regime ha inviato alcune milizie di volontari ad aiutare i curdi.
Per i curdi, la presenza delle truppe siriane al loro fianco è
oggi il minore dei mali. Anzi, è l’unica opzione al momento per
sopravvivere.
Gli unici che possono salvare i curdi siriani dalla sconfitta
contro l’esercito turco sono e rimangono gli americani, se
decideranno di mantenere il loro sostegno. Sinora non hanno
ritirato dall’area i propri consiglieri militari e hanno reso noto
che non lo faranno. Questa è una circostanza che implica un
pericolo per le pretese turche qualora, in un qualsivoglia
scontro, morissero soldati americani.

Quali
soluzioni?
Ma esistono spazi per una soluzione negoziata nonostante
l’intransigenza turca? In teoria sì, perché i turchi pretendono
una fascia di sicurezza ai propri confini – in pratica una zona
cuscinetto – di almeno 20/30 km. Paventano soprattutto il pericolo
che l’YPG possa costituire, come in passato ipotizzato dagli
americani, una forza di di difesa locale, anche se in chiave
anti-ISIS.
Una soluzione potrebbe essere che questa forza possa agire con la
presenza militare americana. Un’ipotesi che comunque non sarebbe
gradita né a Mosca né a Damasco. I russi, al contrario, vorrebbero
che questa area confinaria fosse restituita alla sovranità delle
autorità di Damasco, cosa che potrebbe in parte accontentare la
Turchia, non avrebbe i favori americani e trova ampia diffidenza
da parte dei curdi, se non correlata a delle garanzie da parte di
Damasco per una loro autonomia territoriale.
E i curdi?
I curdi sono abituati ai tradimenti sulla loro pelle fin dal
Trattato di Losanna del 1924 che rinnegava le promesse,
precedentemente formulate a Sévres nel 1920, di creare un loro
Stato. Da allora sia le lotte politiche che armate non hanno mai
raggiunto questo obiettivo.
L’ultimo tentativo, quello di Masoud Barzani in Iraq, che puntava
all’indipendenza con un referendum del Kurdish Regional
Government, è fallito per l’ostilità delle autorità di Baghdad ma
anche della gran parte delle altre nazioni mediorientali, e con la
manifesta riluttanza di USA e Russia. Tutti hanno paura che la
creazione di una autonomia, o peggio di una nazione curda laddove
la loro comunità è demograficamente predominante (Siria, Turchia e
Iran), possa ulteriormente destabilizzare una regione già
precariamente legata a regimi e suddivisioni territoriali frutto
di spartizioni coloniali. Anche perché c’è il rischio di innescare
una faida etnica tra curdi e arabi (l’area di Manji che i curdi
siriani controllano ha una popolazione a maggioranza araba).
Il futuro destino dei curdi siriani prescinderà da quello a cui
aspirano e per cui hanno combattuto. Sono parte di un gioco più
grande di loro, cioè quella degli interessi dei Paesi vicini e la
lotta egemonica tra Russia e Stati Uniti. Tutto avverrà sulle
convenienze dei contraenti esterni e non sugli interessi e sulle
aspettative curde. Probabilmente capiterà loro quello che è già
capitato anche ai curdi iracheni: supportati, armati ed adulati
quando combattevano le milizie di Al Baghdadi, assecondati a
parole nelle loro aspirazioni, e poi abbandonati quando non
facevano più comodo.
A differenza dei curdi iracheni, che comunque un semi-Stato dove
vivere ce l’hanno, quelli siriani rischiano di essere sopraffatti
ed eliminati se non verrà trovata una soluzione diplomatica del
contenzioso. Da alleati indispensabili sono ora diventati alleati
scomodi ma soprattutto ingombranti. Probabilmente, forti dei loro
successi militari, il PYD (Partito dell’Unione Democratica)
siriano ed il suo braccio armato YPG hanno sopravvalutato il
proprio potere contrattuale ed anche l’impegno americano a favore
della loro causa. Non hanno capito che il potere contrattuale di
un Paese come la Turchia nelle vicende politiche e militari
mediorientali è sicuramente superiore alle benemerenze della loro
lotta contro il terrorismo islamico. Con il paradosso che adesso
rischiano loro di essere considerati terroristi, come Ankara,
pretestuosamente, vorrebbe fare accreditare nell’opinione pubblica
mondiale.
La posizione di Israele
Un ultimo aspetto riguarda i rapporti tra i curdi e Israele. Tel
Aviv ha sempre coltivato buoni rapporti con i curdi iracheni. Vede
nei curdi siriani un’opportunità nell’indebolire il regime di
Damasco e così, di converso, minacciare il ruolo iraniano e degli
Hezbollah in Siria. Il recente incidente nel quale un aereo
israeliano è stato abbattuto dalla contraerea siriana ed un drone
iraniano è entrato nello spazio aereo di Israele, hanno
accresciuto questo senso di pericolo da parte di Tel Aviv. Ed in
tutto il Medio Oriente, l’unico Paese che avrebbe guadagni dalla
creazione di uno Stato curdo è Israele. Potrà questa circostanza
creare una sinergia a favore dei curdi? E’ presto per dirlo, ma in
Medio Oriente niente può essere escluso. Perché oramai la regione
è un’area dove le guerre per procura,i giochi sporchi e i
repentini cambi di alleanze e schieramenti sono oramai una
costante. Comunque andrà a finire la disputa tra curdi siriani e
Turchia, tutto avrà conseguenze sulla guerra siriana e sugli
assetti futuri del Medio Oriente.
Tante domande
La Turchia arriverà sino in fondo nella sua avanzata verso Afrin?
Bisognerà vedere come cambieranno i suoi rapporti con Russia e
Stati Uniti. Sicuramente i curdi siriani, in questo possibile
scenario, andranno ad alimentare le file del terrorismo del PKK
contro Ankara. E a differenza di Assad padre, che aveva
sottoscritto un accordo con la Turchia per il bando del PKK, Assad
figlio avrà un occhio più condiscendente sulle pretese curde.
Riuscirà la Russia a trovare una soluzione diplomatica? O sarà
costretta a scelte di campo pro o contro la Turchia? Gli Stati
Uniti, con i loro 2000 uomini sul suolo siriano, cosa faranno?
Anche qui una scelta pro o contro la Turchia, ma soprattutto pro o
contro i loro alleati curdi. Le velleità e le pretese turche sono
quindi oggi la cartina di tornasole di quello che sarà il Medio
Oriente e la Siria domani.