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SIRIA: UNA GUERRA INFINITA SENZA SOLUZIONE


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In una guerra che dura oramai da oltre quattro anni, dove non si fanno prigionieri e dove le efferatezze, da parte di entrambi i contendenti, non lasciano praticamente spazio a nessuna soluzione negoziata (nonostante i virtuali tentativi di Ginevra), è difficile prevedere se e quando il regime di Bashar al Assad crollerà. In questo momento le truppe lealiste, affiancate da formazioni paramilitari civili, gli esecrati Shabiha, a cui vanno aggiunti gli Hezbollah libanesi, i volontari sciiti ed alcune unità dei Pasdaran iraniani, sono sulla difensiva. Più di due terzi del Paese è adesso in mano ai ribelli. Tuttavia, è pur vero che la sopravvivenza del regime siriano è condizionata da tante variabili, alcune interne ed altre esterne, che rendono difficile ogni previsione.

I rapporti di forza

Nei rapporti di forza sul terreno l’esercito di Assad, nonostante le perdite subite (circa 80.000 uomini) e le defezioni (circa 70.000 uomini), ha sul campo ancora schierati, tra militari, paramilitari e Servizi di Sicurezza, circa 150/200.000 uomini (la forza iniziale era di 300.000 uomini). E quel che più conta ha anche un’ampia disponibilità finanziaria che gli permette di arruolare volontari o di comprare alleanze. Tuttavia, il problema di mobilitare ulteriori risorse umane sembra essere giunto al limite estremo. Lo ha ammesso lo stesso Assad in un intervento pubblico (da lì la necessità di mantenere il controllo solo sulle aree principali del Paese). Altro elemento da valutare è il fattore “morale” che potrebbe essere accentuato dalle ultime sconfitte.

Accanto alle forze regolari e paramilitari ci sono i volontari sciiti composti da afghani, iracheni, pakistani e iraniani che vengono stimati sull’ordine di 15.000 uomini. Sono volontari recentemente arrivati in Siria e sbarcati a Latakia o atterrati a Damasco e che vengono assistiti, inquadrati ed addestrati dagli iraniani. In ultimo ci sono gli Hezbollah libanesi che oggi sono circa 5.000, ma che nelle intenzioni del loro leader, Hassan Nasrallah, dovrebbero aumentare.

Le efferatezze dello Stato Islamico rifocillano la tenacia delle truppe leali ad Assad . Non solo alawiti, ma anche altre minoranze come gli sciiti, yazidi, cristiani e i 20.000 drusi del Golan (da lì gli assalti contro le autombulanze israeliane che evacuavano feriti dei ribelli nei propri ospedali il 22 giugno).

Sul fronte opposto l’opposizione armata è divisa e frastagliata. C’è il Fronte al Nusra di Abu Mohammed Golani (3/4.000 uomini, di cui un terzo stranieri) in competizione con l’ISIS (da una frattura creatasi nel 2013 quando al Nusra è rimasto affiliato ad Al Qaeda), vari altri gruppi a diversa gradazione di radicalismo islamico (ad Idlib con Golani combattevano altre sei formazioni terroristiche, compreso Ahrar ash Sham), c’è il Free Syrian Army finanziato dagli USA, c’è una coalizione di ribelli sul fronte meridionale (“Southern Army of Conquest” con diramazioni nell’area dell’Hermon e che conta circa 35.000 uomini) che usufruisce del supporto giordano (armi, stipendi, assistenza logistica, coordinamento operativo attraverso un Centro Comando gestito da americani, inglesi, sauditi e qatarioti a nord di Amman).

Anche in questo caso si sprecano le sigle: alcune note, il già citato Free Syrian Army, altre meno (Sayf al Sham, Jesus Christ Brigade, Ajnad al Sham alias “i soldati della Siria”). E’ un mondo variegato dove non esiste talvolta alcuna coordinazione militare. Quando questa c'è invece i risultati sul terreno appaiono subito apprezzabili. Molti gruppi operano indipendentemente tra loro, altri si riconoscono nella Coalizione Nazionale delle Forze Siriane di Opposizione e Rivoluzionarie. Dare un valore numerico a queste formazioni militari risulta problematico. Ci sono poi i contrasti che dividono i ribelli di ispirazione laica a quelli di ispirazione salafita. Ci sono poi entità, come le milizie curde siriane, che non combattono contro Assad, ma nemmeno lo appoggiano e che invece combattono per la loro autonomia territoriale entrando in collisione con l’ISIS.

Ma molto di quello che potrebbe accadere in Siria non dipende dalla semplice valutazione dei rapporti di forza di una guerra civile, ma da quello che altri attori regionali o internazionali vorranno fare per determinare gli eventi siriani.


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Rifugiati Yazidi


The wider picture

In prima fila c’è l’impegno iraniano. Teheran combatte al fianco di Assad nell’ambito di quel contesto religioso che mette oggi i sunniti contro gli sciiti, in questo caso rappresentati dalla setta minoritaria alawita che governa a Damasco. L’Iran non può permettersi di perdere questo confronto, anche se per interposta persona. Da non dimenticare al riguardo che Damasco e Teheran sono legate da un patto di mutua difesa militare sottoscritto nel 2006. E’ un accordo che potrebbe legittimare domani un impegno diretto delle forze regolari iraniane sul suolo siriano. E’ una ultima ratio che non può essere mai sottovalutata se l’evoluzione della guerra civile siriana volgesse al peggio per il regime di Assad.

Ma gli interessi iraniani vanno oltre le vicende siriane e travalicano in quelle libanesi. Ci sono gli Hezbollah sciiti che combattono al fianco di Assad e che godono del sostegno iraniano. Questo sostegno è materialmente assicurato dalla contiguità territoriale tra l’Iran e il Libano attraverso la Siria, da dove possono arrivare armi e aiuti militari. Se cade la Siria cade anche questo canale di rifornimento e sostegno. Teheran perderebbe così un alleato militare di assoluto valore, specie nella lotta contro Israele e nella disfida con le monarchie sunnite.

Sul fronte opposto c’è invece una coalizione sunnita formata da Turchia, Arabia Saudita e Qatar che, per motivazioni sostanzialmente religiose, vogliono che il regime di Bashar al Assad cada. La Turchia ha un problema in più: non vuole che i curdi siriani, associati al PKK turco, possano ottenere il controllo di un territorio dove costituire un domani una propria entità statuale, come peraltro stanno già facendo da oltre un decennio i curdi iracheni. Il fronte sunnita ha recentemente raggiunto un'intesa per sostenere con armi e finanziamenti le opposizioni armate contro Damasco. Questo ha fatto sì che alcune fazioni ribelli, incluse quelle più radicali, abbiano adesso una forma di alimentazione e sostegno che ne accresce la capacità militare.

E per dare sostegno alla possibile defenestrazione di Assad sono recentemente circolate in Turchia voci di un possibile colpo di Stato contro il regime. Dicerie alimentate anche dal recente arresto del capo dell’Intelligence Ali Mamlouk a Damasco per presunti contatti con l’opposizione ed i ribelli e la morte, il mese prima, del capo del Direttorato della Sicurezza Politica Rustum Ghazaleh in una faida contro il responsabile dell’intelligence militare, il Gen. Rafiq Shehadeh, poi cacciato dall’incarico.

Gli ultimi attentati avvenuti in territorio turco hanno poi convinto il presidente Recep Erdogan a passare da una posizione passiva ad un coinvolgimento militare diretto nelle vicende siriane. La Turchia ha così finalmente concesso agli USA l’utilizzo della base aerea di Incirlik (sinora i jet americani decollavano dal Bahrein), ha iniziato a bombardare le posizioni dell’ISIS e del PKK in Siria. Quel che conta soprattutto è che nel prossimo futuro l’ISIS resterà territorialmente isolato dall’unica fonte di uomini ed armi. E questo produrrà un sensibile indebolimento militare delle milizie di al Baghdadi.

Ma la situazione di stallo sul fronte militare dove non è ancora chiaro quanto riuscirà a resistere Assad e, nel campo opposto, se l’ISIS manterrà il suo attuale livello di capacità, preso atto delle posizioni dei vari attori internazionali e del cambiamento di attitudine da parte della Turchia, ci si deve porre il quesito se, parallelamente agli andamenti bellici, è percorribile una soluzione negoziata.


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Drusi del Golan


Una soluzione negoziata?

In questo senso ultimamente si è molto agitata la Russia che, nella necessità di appoggiare il regime siriano, sta cercando di trovare una soluzione diplomatica alla crisi siriana. C’è stato un primo negoziato, cosiddetto “Ginevra I”, poi una seconda trattativa conclusasi con un protocollo sottoscritto nel giugno 2012 (“Ginevra II”) ed adesso si parla di un “Ginevra III”.

Recentemente il Ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov ha organizzato a Mosca due incontri consultivi inter-siriani a cui hanno partecipato una delegazione governativa, membri dell’opposizione e della società civile. Il tutto mirava a favorire un dialogo nazionale e a creare un governo di transizione. I risultati non sono stati apprezzabili e la palla ripassi quindi adesso all’ONU, dove l’Inviato Speciale del Segretario Generale, Staffan de Mistura, sta intavolando da settimane una serie di contatti a Ginevra e Damasco con le varie parti negoziali al fine di definire una road map con l’obiettivo finale di creare un governo di transizione (con pieno potere legislativo, esecutivo e giudiziario). In pratica il conseguimento di una soluzione politica che preveda l’allontanamento di Bashar al Assad (c’è già chi parla di un suo esilio a Teheran o Mosca). In una situazione così degenerata come quella siriana trovare una soluzione negoziata appare una impresa difficile, se non impossibile.

Gli Stati Uniti erano inizialmente favorevoli alla caduta militare di Assad. Adesso la posizione statunitense è cambiata anche nella consapevolezza che se cade Assad c’è il ragionevole rischio che la Siria diventi preda delle fazioni islamiche che meglio di altri oggi combattono contro il regime di Damasco. La caduta di Assad si trasformerebbe in una vittoria anche dell’ISIS che oggi per Washington è il nemico numero uno. Quindi, più che una sconfitta militare di Bashar al Assad, gli Stati Uniti auspicano una uscita negoziata del presidente siriano. E' difficile vedere però come questo obiettivo possa essere perseguito anche perché non è chiaro quale, tra le fazioni che combattono il regime, sia quella che potrebbe emergere politicamente a prescindere dalle benemerenze militari.

Sotto questo aspetto c’è una convergenza di interessi tra Statu Uniti e Russia. Infatti Mosca da un lato appoggia Assad, ma nel contempo sarebbe favorevole ad un avvicendamento di potere negoziato. Un passaggio di consegne che ovviamente salvaguardi i suoi interessi strategici diretti, che nel caso specifico sono rappresentati dalla base militare navale di Latakia e dall’eventualità che emerga una nuova dirigenza favorevole ai rapporti con i russi.

Ultimamente i due maggiori gruppi di opposizione siriani in esilio, la “Coalizione Nazionale Siriana” e il “Comitato di Coordinamento Nazionale per un Cambiamento Democratico” si sono incontrati a Bruxelles ed hanno deciso di unificare le rispettive posizioni attorno all’unico argomento su cui la convergenza politica è totale: Bashar al Assad se ne deve andare. Sono gruppi che sinora si erano politicamente combattuti. E’ comunque un piccolo passo che potrebbe agevolare i negoziati.

Tuttavia, il grosso problema è che nessuno dei due gruppi ha alcun potere impositivo sulle formazioni armate che combattono il regime. Il rischio è quindi che le loro eventuali decisioni rimarrebbero confinate nel contesto virtuale di una iniziativa diplomatica. Inoltre, appare sempre più probabile una soluzione che preveda una ripartizione territoriale della Siria in forma federata. Si ritiene infatti che il troppo sangue versato in questa guerra civile non consentirà nel prossimo futuro una convivenza pacifica tra le varie comunità.


alawite
Alawiti


Disastro senza fine

Dal marzo 2011 sono morte nella guerra civile oltre 220.000 persone. Secondo il Syrian Observatory for Human Rights di Londra a questa cifra dovrebbero essere aggiunte altre 90.000 morti “non documentate”, visto anche che entrambi i contendenti tendono a sminuire le perdite. Vi sono poi 20.000 detenuti nelle carceri siriane (su circa 200.000 arresti effettuati dal regime) spariti nel nulla (senza contare i prigionieri di guerra passati per le armi). Una carneficina che non riguarda solo i siriani perché si stima che sul fronte lealista siano morti circa 4.000 combattenti stranieri, 30.000 sul fronte dei ribelli.

In questa catastrofe umana non bisogna dimenticare i circa 3,8 milioni di siriani scappati all’estero ed i 5 milioni di quelli sfollati sul proprio territorio per scappare dalla zone di combattimento. Il resto della popolazione ha bisogno di aiuti umanitari.

La Siria del domani, a prescindere dalle vicende militari, non potrà più essere la Siria di oggi ma sarà qualcosa di diverso sia dal punto di vista territoriale che politico e militare. Se si creerà questo sistema federale tutta la fascia costiera, prevalentemente abitata dagli alawiti (15/20% della popolazione), non potrà più convivere a lungo con la maggioranza sunnita del Paese. Troppo sangue è stato versato. Né potrà avvenire altrettanto con le altre minoranze principali: i drusi dislocati nelle alture del Golan, i curdi siriani che vorranno sfruttare le loro benemerenze militari per ottenere una più ampia autonomia nell’area confinaria con la Turchia.

Il quadro complessivo degli eventi militari e/o negoziali sulla guerra civile siriana risulta così complesso che è difficile intravederne una soluzione.

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