ANAMNESI DEL TERRORISTA EUROPEO

Negli
ultimi due-tre anni diversi analisti internazionali che si
dedicano allo studio del fenomeno terroristico si sono chiesti
cosa abbia attratto e convinto in maniera così massiva così tanti
combattenti a seguire l'avventura, sotto molti aspetti disperata,
dell’autoproclamato califfo Abu Bakr al Baghdadi. Le motivazioni
sono sicuramente le più svariate: il fattore religioso, una
scommessa sul futuro, l'indigenza e la povertà che inducono a
sperare in un futuro migliore. Forse anche il fascino di una
missione impossibile asservita ad un disegno divino? La rivalsa di
una gioventù emarginata e penalizzata da regimi, almeno in alcuni
casi, autoritari e corrotti? Ognuno dei cosiddetti volontari
islamici che hanno aderito all'ISIS proveniva da molte parti del
mondo ed aveva quindi un motivo o un mix di motivi per andare a
combattere.
Non esistono stime precise sul numero di volontari che hanno
raggiunto la Siria o l'Iraq. Si parla, cumulativamente per l’ISIS
ed altre milizie islamiche in Medio Oriente, di circa 70.000
individui, di cui circa 30.000 stranieri. Di quest'ultimi, oltre
4.000 sono europei, di cui 1.500 dalla Francia, 8/900 dal Regno
Unito, 7/800 dalla Germania, 600 belgi, 350 austriaci fino ad
arrivare ai 110 dall'Italia. Ai volontari che hanno raggiunto
l'ISIS in Medio Oriente bisogna aggiungere quelli che si sono
radicalizzati, ma che invece non si sono mossi dai Paesi di
origine. E quello che è più emblematico è che questa
radicalizzazione sia avvenuta in Europa dove, rispetto ai Paesi
arabi o musulmani, esiste – in linea di principio – un maggiore
rispetto dei diritti umani, libertà civili, una società più giusta
dove prevale la tolleranza religiosa e dove fenomeni corruttivi o
abusivi sono limitati. Il musulmano europeo rappresenta quindi,
almeno apparentemente, una contraddizione sociologica di cui a
volte molti analisti faticano a trovare una chiave di lettura per
catalogare il fenomeno. E se questo non avviene, se non se ne
capiscono le cause o le concause, se non vengono contrastate le
motivazioni che spingono l'individuo a diventare fanatico e, in un
momento successivo, terrorista, si rischia che questa malattia
sociale non venga curata e diventi cronica.
E' uno studio che interessa i Servizi di sicurezza per gli aspetti
di terrorismo, ma anche le autorità politiche che devono creare
situazioni sociali in cui questa radicalizzazione non abbia luogo.
Altrimenti ci si deve limitare alle apparenze – la barba lunga,
l'hijab e così via – o cercare i segni, ben 17, che le autorità
del trasporto americano hanno indicato in caso di possibile
presenza di un terrorista. Sono i cosiddetti "stress factors":
arrivo in ritardo al desk, sbadigli eccessivi, tremolii o segnali
di inquietudine, barba rasata di fresco e quindi pallore della
pelle, fuga dallo sguardo diretto, batter d'occhi veloce,
eccessiva sudorazione ecc..
Tra le due diverse tipologie di individui, i "foreign fighters" e
quelli che restano, ci sono valori ed ideologie comuni, ma un
diverso impegno personale. I primi fanno il passo per diventare
terroristi militanti, mentre i secondi condividono lo stesso
fanatismo religioso e covano un rancore sociale che non viene
estrinsecato in azioni delittuose. Le divergenze si elidono quando
il musulmano che decide di non andare a combattere in Medio
Oriente diventa un lupo solitario. I fatti di Londra, Parigi e
Bruxelles sono esemplari al riguardo.
Stereotipi che non aiutano
L'individuo che diventa terrorista in Europa non è, come
generalmente si ritiene, appartenente alla classe povera, magari
senza lavoro, di scarsa cultura, socialmente emarginato e quindi
frustrato, con problemi psicologici o psichiatrici derivanti da
eventi traumatici. Almeno questo non è il fenomeno più ricorrente.
Statisticamente è vero il contrario: appartiene in egual misura ad
una classe media, ha un lavoro (magari non fisso) ed una
professione (in alcuni casi è uno studente e talvolta è
disoccupato), è spesso sposato con figli. Talvolta è divorziato e
nel caso di single (anche fidanzati) si tratta di giovani. L'età
media oscilla tra i 20 ed i 35 anni. Nella maggioranza dei casi è
di sesso maschile (le donne rappresentano il 17%). L’emarginato è
quindi una figura marginale. Dal punto di vista dell'istruzione
scolastica: oltre il 25% è laureato, oltre il 40% ha un diploma di
scuola superiore, un 15/16 % è un illetterato,il 2/3% è un
analfabeta.
Appartiene però ad una famiglia di origini arabe, generalmente
algerina, tunisina o marocchina, emigrata in Europa. Vive
generalmente in aree metropolitane. Solo una minima parte proviene
dai ranghi dei convertiti all’Islam. Molte volte mantiene una
doppia nazionalità: quella di origine e quella in cui risiede.

Come ci si avvicina al radicalismo
E' noto come l'apparato propagandistico dell'ISIS tramite il web
ed i social network abbia avuto un grosso impatto su individui
suggestionabili. Messaggi sublimali, un mix di religione,
patriottismo religioso, rivalsa sociale, realizzazione di un
disegno divino. Ma il processo di indottrinamento parte prima
attraverso amici, parenti, frequentazioni di moschee, relazioni
sociali, contatti durante i soggiorni in carcere e, solo in un
momento successivo, quando il processo emotivo si è evoluto, c'è
l'aggancio con la propaganda jihadista o salafita ed il successivo
reclutamento.
Vivendo in una comunità musulmana, laddove la ghettizzazione
urbana accentua questa caratteristica, l’individuo respira la sua
identità di musulmano anche in ambito familiare, l'approccio con
tesi religiose è costante. Lì poi, a seconda del livello di
assimilazione del messaggio, c'è chi parte, chi non parte e rimane
radicalizzato, mantenendo quindi il suo livello di pericolosità
sociale, chi non parte e poi si immola in un atto di terrorismo
nel paese dove risiede.
L’emarginazione sociale
Il tasso di disoccupazione tra gli immigrati è più alto comparato
con il resto della popolazione europea. C'è poi il problema della
caduta nell'illegalità: circa un quarto degli attentatori in
Europa ha un precedente penale per reati non collegati al
terrorismo. Ma questo non spiega compiutamente il motivo per il
quale un musulmano europeo, magari immigrato di seconda o terza
generazione, si trovi a diventare fanatico e poi terrorista.
Ci sono degli aspetti psicologici da valutare. Il figlio di un
immigrato musulmano inserito nel contesto sociale europeo vive
nella contraddizione di due mondi: quello familiare legato ad un
certo tipo di cultura tradizionale, con vincoli, valori e
gerarchie specifiche, e quello in cui poi si immerge nella vita di
tutti i giorni. L'individuo affronta problemi di identità, magari
non riesce a cogliere nella diversità sociale in cui si muove
elementi di arricchimento della propria personalità. Nel momento
in cui si sente un diverso nel mondo che lo circonda molto spesso
opta per la cultura di appartenenza. E se questo avviene,
l’elemento di maggiore identificazione è la religione, con tutto
ciò che questo comporta nel rifiutare e contrastare la cultura di
accoglienza.
La religione si trasforma quindi da elemento di cultura in
strumento per convogliare frustrazioni, rivalse e rancori. E da
qui inizia il percorso verso la radicalizzazione. Questo spiega
anche perché, in una recente inchiesta sviluppata sulla comunità
islamica inglese che oggi conta oltre 3,5 milioni di persone, solo
un terzo si sia dimostrato disponibile a denunciare un terrorista
islamico, solo un terzo era pronto a condannare un atto
terroristico e ed oltre un 1/5 era favorevole alla sharia. Ovvero,
una condivisione de facto dell'operato di un terrorista per oltre
un milione di musulmani britannici.

Gli attimi successivi all'attacco al parlamento britannico
Un futuro peggiore del presente
Un aspetto contraddittorio è che, nonostante la prossima disfatta
dell’ISIS, c'è chi crede ancora che un atto di terrorismo, come
quello perpetrato recentemente al Parlamento inglese, possa
produrre risultati nell’ambito della lotta per il califfato. Uno
Stato Islamico che ha praticato la lotta settaria contro gli
apostati sciiti in Medio Oriente, più che contro i miscredenti
cristiani. Il lupo solitario in Europa fa esattamente il
contrario.
Tutto questo spiega che la fine militare dell'ISIS non produrrà la
fine del terrorismo islamico in Europa. Anzi, è probabile che
avvenga esattamente il contrario. Un'utopia motivata dalla
religione, come la creazione di uno Stato islamico, vive infatti
su presupposti irrazionali che prescindono dalle avversità
contingenti. Anzi, così facendo si eleva il livello della sfida,
la temerarietà del gesto terroristico, proprio perché disgiunto da
un possibile tornaconto personale. E questo rende il martirio
ancora più pagante. Il terrorismo, di per sé, è una forma di lotta
asimmetrica, può colpire chiunque o qualunque cosa, si sviluppa su
parametri irrazionali, la simbologia del gesto prevale sulla
sostanza dell'obiettivo da colpire ed è quindi difficile da
combattere o sradicare. L'Europa dovrà confrontarsi con questo
fenomeno ancora a lungo.
Le stime indicano che, degli oltre 4.000 volontari che sono
partiti per combattere al fianco di al Baghdadi, circa un 30% farà
ritorno nei Paesi di origine. Qualcuno verrà individuato e
sanzionato, qualcun altro riuscirà a farla franca. Ritornerà però
in Europa con la fama dell'eroe e con l'esperienza militare di un
veterano, e si riunirà ai radicali rimasti in patria. Costituirà
quindi un elemento di un'ulteriore radicalizzazione del gruppo
sociale di appartenenza. Una volta innestato questo ulteriore
processo di contagio,non ci sarà più bisogno della propaganda
dell'ISIS o dei sermoni di al Baghdadi per alimentare reclutamenti
o percorsi di radicalizzazione. E se nel 2015 e nel 2016 ci sono
stati 14 attentati terroristici in Europa, nel prossimo futuro
potrebbe capitare di peggio.