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LE REAZIONI DI UN IRAN MINACCIATO


muhammad javad zarif

Mohammad Javad Zarif


Il 25 febbraio 2019, prendendo di sorpresa chi si interessa delle vicende iraniane, il Ministro degli esteri Mohammad Javad Zarif rassegnava le sue dimissioni dall’incarico che ricopriva fin dal 2013. L’uomo che aveva negoziato l’accordo sul nucleare del 2015, interlocutore moderato nei rapporti internazionali del Paese, decideva improvvisamente di abbandonare la scena politica. Le dimissioni non sono state accettate dal presidente Hassan Rouhani e Zarif è rimasto al suo posto. Il gesto è stato motivato da una serie di eventi interni ed internazionali.

Le vicende internazionali

Il rifiuto americano di considerare valido l’accordo sul programma nucleare iraniano è stata la classica goccia che ha nei fatti pregiudicato e messo in discussione la linea moderata di Zarif in politica estera. E’ stato, agli occhi dei suoi detrattori, una delegittimazione del suo operato. Che poi questo accordo sia ancora ritenuto valido dagli altri Paesi firmatari, come l’Unione Europea, non cambia la sostanza dell’evento, essendo gli Stati Uniti comunque il Paese più importante seduto al tavolo dei negoziati.

Da quando si è insediato alla Casa Bianca, il presidente Donald Trump ha iniziato a dare spazio ad una politica aggressiva verso Teheran. Lo ha fatto verbalmente, in modo sistematico, cercando di demonizzare agli occhi del mondo la teocrazia iraniana. Lo ha fatto anche nella pratica annunciando ed implementando sanzioni e minacciando i Paesi che le avessero violate continuando a commerciare, soprattutto petrolio, con l’Iran. Lo ha anche fatto organizzando, a febbraio a Varsavia, una conferenza internazionale genericamente mirata alla “stabilizzazione del Medio Oriente”, ma in pratica dedicata a cercare di coagulare consensi internazionali in chiave anti-Iran. Lo ha fatto ultimamente mettendo i Pasdaran sulla lista dei gruppi terroristici.

A tutto questo poi bisogna aggiungere le continue visite nel Golfo e le dichiarazioni delle varie personalità e degli inviati americani. Tante provocazioni non potevano non avere conseguenze. Sempre sul piano della politica estera regionale anche le minacce israeliane e gli accordi sotto banco con i Paesi sunniti del Golfo hanno alzato il livello della minaccia verso l’Iran.

Tutto questo non poteva non avere ripercussioni anche sul piano interno.

La situazione interna

Da sempre la politica estera iraniana oscilla su due posizioni contrapposte: quella moderata, aperta al dialogo con il mondo esterno; quella radicale, quindi più aggressiva, mirata a giocare e a basarsi sui rapporti di forza nelle relazioni con gli altri Paesi. Ago della bilancia di queste due tendenze è la Guida Suprema Ali Khamenei che, di volta in volta, secondo una propria valutazione dei rischi e dei benefici, ovviamente tarati sulla stabilità sociale e del regime, opta per assecondare o osteggiare moderati o conservatori.

E’ chiaro che, aumentando la tensione con Israele e i Paesi limitrofi, valutando poi il pericolo insito nelle minacce americane, la reazione porti come conseguenza una posizione più radicale della politica estera iraniana. Di questa tendenza Zarif diventava la vittima predestinata.

Un’altra circostanza a cui dare il dovuto peso è che le vittorie iraniane a fianco della Siria e contro il terrorismo islamico di matrice sunnita, la sua espansione politico-militare nella regione mediorientale, hanno sicuramente alimentato le istanze e velleità di chi, all’interno del Paese, simpatizza per posizioni più radicali sia in politica estera che interna.

Colui che oggi personifica più di altri l’ala oltranzista della politica estera iraniana, soprattutto in virtù delle conquiste militari che hanno accompagnato la lotta contro l’ISIS ed il sostegno al regime di Bashar Assad, è il generale Qasem Soleimani, colui che guida le brigate Al Quds dei Pasdaran all’estero.

Le vittorie sul terreno hanno alimentato il prestigio del generale che, almeno sulle questioni militari regionali, è diventato l’interlocutore privilegiato dei russi, dei turchi, dei governi di Iraq e Siria ed anche degli americani. Quindi, nei fatti, una diplomazia parallela che per un certo periodo è andata in accordo e concorso con quella diplomatica di Zarif, ma che ultimamente sembra invece entrata in rotta di collisione con quest’ultima.

Forse non casualmente le dimissioni di Zarif avevano preceduto una visita di stato del siriano Bashar Assad a Teheran – un evento importante che non si verificava da 7 anni – in cui la Guida Suprema Khamenei era affiancato dal generale Soleimani, ma non da Mohammad Javad Zarif. Uno sgarbo istituzionale che il Ministro degli Esteri ha percepito come una delegittimazione del suo ruolo proprio nel momento in cui, dopo la sconfitta militare dell’ISIS, la questione diventava più di contenuto politico e diplomatico.


hassan rouhani

Hassan Rouhani


Il Consiglio Supremo per la Sicurezza Nazionale

La politica estera iraniana viene elaborata all’interno di questo organismo che è presieduto dal Presidente della Repubblica Rouhani, un moderato come Zarif, ma che comunque risponde del suo operato alla Guida Suprema che di volta in volta ne avalla o ne modifica le decisioni. Vi siedono il Ministro della Difesa, quello degli Esteri e degli Interni, due rappresentati della Guida, il Capo delle Forze Armate dell’Esercito e quello dei Pasdaran, lo speaker del Parlamento, il Ministro dell’Intelligence, il responsabile della Giustizia, a cui poi si possono aggiungere altri ministri a seconda degli argomenti trattati.

Si tratta di una politica estera mediata dalle necessità di sicurezza e quindi, quando queste “necessità” prevalgono, l’ago della bilancia si sposta dalla diplomazia a questioni di carattere militare o di intelligence. Le minacce americane hanno sicuramente spinto in tal senso.

Gli elementi della politica estera iraniana


La politica estera iraniana dall’avvento di Khomeini in poi vive un po' nella sindrome di un Paese accerchiato da rivali regionali ostili non solo sul piano di una competizione egemonica in Medio Oriente, ma anche per questioni religiose. La competizione fra Sunniti e Sciiti porta ad estremizzare questi confronti.

La situazione è poi peggiorata con la crescente ostilità dell’Amministrazione americana che ha quindi accresciuto nelle autorità iraniane il pericolo derivante da un isolamento internazionale. La guerra in Iraq e la crisi siriana hanno da un lato aumentato i rischi di instabilità regionale, ma anche fornito opportunità per un allargamento della sfera di influenza di Teheran in Medio Oriente.

L’Iran sviluppa infatti una sua politica estera improntata da un pragmatismo condizionato da eventi che ne influenzano la direzione.


ayatollah khomeini

Ayatollah Khomeini


L’Iran sotto minaccia

La riconferma di Zarif nel suo incarico può essere letta quindi come la volontà di Khamenei di lasciare aperta l’opzione moderata. Da un lato la Guida Suprema asseconda la crescente radicalizzazione della politica iraniana sul piano interno, dall’altra lascia, per il momento, praticabile una politica estera di stampo moderato. Questo equilibrismo politico è anche dettato dalla prudenza in vista delle elezioni parlamentari del prossimo anno. L’approssimarsi dell’appuntamento elettorale determina una crescente contrapposizione tra le due anime della politica iraniana e quindi non è escluso che la politica estera del Paese, con o senza Zarif, ne possa risentire.

Più la minaccia esterna viene percepita, più l’opinione pubblica iraniana tende a spostarsi su posizioni radicali.

L’amministrazione americana ha anche cercato di sollecitare all’interno dell’Iran, attraverso le esternazioni dello stesso presidente Trump, una opposizione che possa sbarazzarsi dell’attuale potere teocratico. Un auspicio che non tiene conto del fatto che gli iraniani, di fronte ad un pericolo esterno, hanno la capacità di ricompattarsi su posizioni nazionalistiche.

Basterebbe, al riguardo, dare uno sguardo alla storia recente del Paese: nel febbraio del 1979 l’Ayatollah Khomeini arrivava a Teheran sull’onda di una rivoluzione che aveva visto la cacciata dello Shah dopo manifestazioni, repressioni e attentati. Un paese indebolito dagli strascichi di una rivoluzione e della guerra civile subisce, un anno dopo – siamo al settembre del 1980 –, l’attacco militare dell’esercito di Saddam Hussein. Di fronte ad una tale minaccia il popolo iraniano si ricompatta dimenticando divisioni e rancori. Sarà una guerra che durerà otto anni e che mieterà quasi un milione di vittime sul lato iraniano.

E su questo pezzo di storia contemporanea, oltre al senso nazionalista del popolo iraniano, non bisogna dimenticare un altro dettaglio: gli Stati Uniti avevano cercato inizialmente di appoggiare lo Shah Mohammed Reza Pahlavi e sostenuto Saddam Hussein nella guerra contro l’Iran. Se da parte americana l’Iran attuale può essere definito – giusto o sbagliato che sia – uno “Stato Canaglia”, sul fronte iraniano una equivalente definizione di “Grande Satana” – giusto o sbagliata che sia – trova adeguate giustificazioni.

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