TRUMP E GERUSALEMME
Tel Aviv, Novembre 2016
Gerusalemme
non è solo parte centrale di un negoziato che si trascina,
inconcludente, da tanti anni. Gerusalemme è soprattutto un simbolo
e, come tale, non può essere trattato alla stregua di un qualsiasi
compromesso territoriale. L’iniziativa unilaterale degli Stati
Uniti che ha inteso riconoscere la città come capitale dello stato
ebraico avrà quindi delle conseguenze imprevedibili in Palestina.
La tesi secondo cui il riconoscimento di Gerusalemme come capitale
di Israele elimini dal negoziato uno degli oggetti del contendere,
non tiene infatti conto delle implicazioni politiche e religiose
della scelta. E prosegue nel solco delle imposizioni negoziali che
avvengono dopo il fatto compiuto, tipico della strategia di
Benjamin Netanyahu nei Territori Occupati, e che trova in Donald
Trump un incendiario sostenitore. Perché favorire così gli
interessi israeliani vanifica ogni potenziale negoziato.
Disequilibrio negoziale
L’arrivo di Trump alla Casa Bianca è stato favorito, fra gli
altri, sia dal potente AIPAC (American Israel Public Affairs
Committee) che dai soldi che la comunità ebraica ha saputo
mobilitare per la campagna presidenziale. L’aperto sostegno a
Donald Trump da parte del governo israeliano – cosa che non è
avvenuto durante la reggenza di Barack Obama vista l’antipatia
dell’allora presidente Usa per le velleità oltranziste di
Netanyahu – e le azioni della Casa Bianca hanno portato ad uno
sbilanciamento del ruolo americano. Da broker super partes, gli
Stati Uniti sono diventati sostenitori di una parte sull’altra.
Il combinato disposto di due estremismi negoziali può teoricamente
forzare e far progredire un negoziato, una trattativa che prende
la forma però di un’imposizione con una pistola puntata alla
tempia. E’ difficile credere che le aspettative della parte lesa,
in questo caso i palestinesi, possano essere rispettate in queste
condizioni. E senza una pace giusta si alimentano risentimento e
terrorismo.
Il ruolo centrale del genero di Trump, Jared Kushner, proveniente
da una famiglia di ebrei ortodossi, nel pilotare le iniziative
americane sulla questione palestinese, non aiuta a riequilibrare
un negoziato fortemente sbilanciato. Un altro problema che
sostanzialmente danneggia la ricerca di una soluzione negoziata è
che Israele è oggi militarmente molto forte. E questa situazione
di predominio assoluto pregiudica la disponibilità a qualsivoglia
concessione negoziale.
Benjamin Netanyahu e Donald Trump
Aspirazioni deluse
La variegata comunità palestinese, che sia nella diaspora, nei
Territori Occupati o a Gaza, è da sempre oscillante tra due
posizioni contrapposte: la ricerca di un accordo politico che
possa condurre alla creazione di uno Stato palestinese o il
ricorso alla guerra o agli attentati contro Israele. La soluzione
negoziale pacifica postula che vengano soddisfatte, in modo più o
meno ampio, le aspettative palestinesi. L’opzione “militare” o
“lotta armata” invece deriva dal tentativo di ottenere in modo
cruento ciò che, secondo i suoi fautori, dovrebbe spettare. Le due
opzioni sono alternative e, ogni qualvolta un negoziato non
produce altro che frustrazione, molti palestinesi ritengono più
appetibile appoggiare un confronto armato con Israele.
L’ Autorità Nazionale Palestinese (ANP) di Mahmoud Abbas propende
da anni per una soluzione negoziata, in contrapposizione con gli
intenti bellicosi di Hamas e della Jihad Islamica palestinese.
L’iniziativa di Donald Trump ha costretto invece l’ANP a spostarsi
su posizioni più radicali. La politica del presidente Mahmoud
Abbas appare logorata dalla mancanza di risultati ed anche il
recente accordo con il leader di Hamas, Ismail Haniyeh che
anticipava un ritorno dell’ANP a Gaza, risulta adesso vanificato.
Tanto più che gli Stati Uniti hanno deciso di eliminare
politicamente Haniyeh designandolo, il 31 gennaio 2018, come un
“terrorista”. Così facendo, oggi come in passato, si finisce per
rafforzare Hamas a discapito dei tentativi di riconciliazione
delle diverse fazioni palestinesi messi in campo da Mahmoud Abbas.
Così come sono favorite le convergenze fra estremisti.
Recentemente è stata resa nota la presunta esistenza di una sorta
di “comitato di coordinamento” fra i sunniti di Hamas, gli sciiti
di Hezbollah e di al Hashad al Shaabi, le milizie volontarie
irachene. Se ciò sia vero o meno, sta di fatto che la politica
americana sta soffiando sul fuoco. Gerusalemme, del resto, è
considerata una città santa da entrambi i rami principali
dell’Islam.
Una ghiotta occasione
La decisione di Trump ha tolto agli Stati Uniti la possibilità di
mediare una soluzione al problema palestinese. La perdita di
credibilità favorisce altri attori internazionali e regionali. E’
il caso della Russia che, con le trattative di Astana sulla crisi
siriana, è già diventata il maggior broker delle vicende
mediorientali. E’ il caso della Turchia che, cavalcando l’ondata
di sdegno generata dall’iniziativa americana, ha fatto approvare
all’Organizzazione per la Conferenza Islamica una risoluzione in
cui si definiva Gerusalemme est capitale dello Stato palestinese,
ottenendo una unanimità che generalmente è merce rara in tale
consesso. Recep Tayyip Erdogan si erge a paladino del sunnismo
mediorientale e la sua politica neo-ottomana ne ha beneficiato.
Sostanzialmente anche l’Iran ha visto crescere il proprio consenso
vista la sua storica posizione anti-israeliana ed anti-americana.
La caduta di credibilità di Donald Trump ha raggiunto ogni parte
del mondo. Lo certifica il voto dell’Assemblea Generale dell’ONU
nel dicembre 2017 che condannava la decisione americana di
spostare l’ambasciata a Gerusalemme. Nonostante le minacce di
ritorsione, ben 125 Paesi hanno votato a favore della mozione e
solo 9 contro. La mozione non vincolante presentata da Turchia e
Yemen stabilisce che qualunque iniziativa che possa portare alla
modifica dello status di Gerusalemme e/o della sua composizione
demografica sia da ritenersi nulla.
Gerusalemme
Un negoziato infinito
La questione dello status di Gerusalemme e della definizione di
uno Stato palestinese è sul tavolo delle trattative da moltissimi
anni. Un’infinità di proposte, negoziati sospesi e ripartiti,
guerre, intifada e mediazioni varie. E un’unica costante nel
tempo: il fallimento di ogni progresso negoziale. I palestinesi
vogliono un loro Stato, Israele concepisce tale concessione come
un bantustan. Israele vuole garanzie di pace che la controparte
molte volte non è in grado o talvolta disponibile a concedere.
Nel negoziato per la convivenza dei due Stati, Gerusalemme è
sempre stata un elemento cruciale. Se ne parlava nel 1948 all’atto
del riconoscimento dello Stato di Israele. In un’intervento
all’ONU, l’allora primo ministro israeliano, Ben Gurion, aveva
subito dichiarato Gerusalemme capitale “eterna” di Israele. Con
l’occupazione di Gerusalemme Est a seguito della Guerra dei Sei
Giorni nel 1967, Israele ha avuto il pieno controllo della città.
Con la “basic law”, legge costituzionale, del 1980 Israele ha poi
unilateralmente affermato che Gerusalemme era “la capitale unica e
indivisibile”. Una annessione di fatto smentita dalla Risoluzione
476 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che bloccava ogni modifica
dello status della città. Sempre nel 1980, la Risoluzione 478
indicava ai Paesi membri di non stabilire rappresentanze
diplomatiche a Gerusalemme. Negli anni Israele, nonostante il
controllo della città, ha sempre cercato che tale sovranità fosse
riconosciuta internazionalmente e che assumesse un contorno
giuridico legittimo.
L’ultima iniziativa di questa saga infinita è stata
l’approvazione, a inizio di gennaio 2018, di un documento che
chiede di procedere all’annessione degli insediamenti israeliani
costruiti nei Territori Occupati da parte del Comitato Centrale
del Likud, partito di cui Netanyahu è il leader. Una decisione
presa all’unanimità.
Esiste una soluzione?
Gerusalemme è il centro di tre religioni monoteiste. E’ una città
santa. Lo è perché c’è il muro del pianto degli ebrei, il Santo
Sepolcro dei cristiani e perché in passato i musulmani pregavano
verso questa città (prima di La Mecca) perché credono che Maometto
sia asceso al cielo da lì. Più che appartenere ad un Paese o ad
una religione, Gerusalemme è una città che appartiene all’umanità.
La Risoluzione Onu 181 del 1947, peraltro mai applicata a seguito
della successiva guerra arabo-israeliana, stabiliva che alla parte
vecchia della città, dove risiedono i rispettivi luoghi santi,
fosse concesso lo status internazionale e fosse quindi
direttamente amministrata dalle Nazioni Unite. Forse quella
sarebbe stata la soluzione migliore perché avrebbe tolto la città
dalla contesa.