IL MONDO VISTO DALLA TURCHIA
E'
difficile oggi decifrare la politica estera della Turchia perché
contraddittoria, altalenante, condizionata o strumentalizzata da
una situazione interna a dir poco problematica e che a volte
sopravanza gli interessi del Paese nella regione. Infilatasi nelle
diatribe e guerre mediorientali con la supponenza legittimata dai
fasti del disciolto impero ottomano, la Turchia di Recep Tayyip
Erdogan non riesce a costruire dialoghi o alleanze costruttive.
La questione curda
Per rivincere le elezioni parlamentari del novembre 2015, Erdogan
ha riaperto il fronte interno con il PKK. Stracciati i tentativi
di negoziati, ha dichiarato guerra ai curdi turchi, mettendo nei
fatti il sud-est del Paese in stato di guerra civile permanente.
Ne hanno fatto le spese i parlamentari del partito filo-curdo
dell’HDP ed i cittadini/militari turchi finiti nel mirino degli
attentati del PKK.
L’ingresso dei militari turchi nel nord ovest della Siria ha
invece l’obiettivo di limitare l’espansione dei curdi siriani e
dello YPG, accusato da Ankara di essere affiliato al PKK. Poco
importa alla Turchia che lo YPG sia in prima fila nella lotta
all’ISIS. Nella visione di Erdogan ci sono curdi "buoni", come
quelli del Kurdistan iracheno con cui Ankara intrattiene rapporti
politici e commerciali stretti, mentre tutti gli altri sono da
eliminare.
Tuttavia, il credito guadagnato sul campo dai curdi siriani avrà
il suo peso al momento giusto. Erdogan dimentica che il legame
etnico e culturale della comunità curda ha superato tante
vicissitudini militari, mantiene al suo interno una forte
coesione, nonostante le temporanee divisioni, i trattati e la
storia abbiano sinora penalizzato le loro aspirazioni.
I rapporti con la Russia e la questione siriana
L’abbattimento del jet russo il 24 novembre del 2015, un aereo
militare che per circa 7 secondi aveva violato lo spazio aereo
nazionale, è stato un intervento premeditato, anzi una
“provocazione premeditata” se si usano le parole del Ministro
degli esteri russi Sergey Lavrov. Da questa iniziativa alquanto
spericolata ne è conseguita una serie di situazioni negative per
gli interessi turchi, sia sul piano commerciale (bloccate le
esportazioni verso la Russia, blocco dell’arrivo di turisti russi
nel Paese, congelamento del progetto del gasdotto “South Stream”
etc.), sia sul piano della politica estera dove l’ostracismo russo
e iraniano sulle vicende siriane e irachene avrà il suo naturale
epilogo. Non disgiunto dal probabile interesse futuro della Russia
ad assecondare le istanze curde. Tutto questo ha poi costretto la
Turchia a chiedere scusa e ad Erdogan ad andare con il cappello in
mano lo scorso agosto a Mosca.
Sarebbe bene capire il perché di questo improvviso inasprimento
turco nei confronti di Mosca o di questa momentanea pretesa di
grandezza geo-politica. Difficile credere che tutto questo sia
stato causato da un’estemporanea difesa delle comunità turcomanne
siriane bombardate dall’aviazione russa. La smania di protagonismo
del presidente turco potrebbe aver mal consigliato Erdogan, fin
dall’inizio della crisi siriana schierato per la caduta del regime
di Bashar al Assad anche se in passato i rapporti tra Ankara e
Damasco era molto buoni. Un obiettivo politico/militare che
postulava l’intervento internazionale in appoggio ai ribelli che
combattono quel regime. Da questa circostanza è poi derivata la
collusione con l’ISIS ed il lasciapassare concesso a foreign
fighters ed approvvigionamenti lungo gli oltre mille chilometri di
confine comune.
Oggi improvvisamente Recep Tayyip Erdogan pare essersi ravveduto e
pare più possibilista sul mantenimento di Bashar al Assad al
potere, ma la sua partita in Siria sembra essere persa.
La base aerea di Incirlik
USA, Europa, Nato
I rapporti con l’amministrazione di Barack Obama e con la NATO
sono stati a dir poco conflittuali. Dal primo diniego all’utilizzo
della base aerea di Incirlik, fino alle critiche mal ricevute per
il trattamento riservato ai presunti golpisti o terroristi (curdi
o gulenisti che dir si voglia) e le voci di un coinvolgimento
della CIA nel fallito golpe del 15 luglio scorso, non è chiaro in
quale schieramento del mondo la Turchia voglia collocarsi.
Lo stesso dicasi dell’Europa. I miliardi promessi per chiudere le
frontiere ai rifugiati in uscita non sono stati compensati né
dalla liberalizzazione dei visti in Europa, né dal successo dei
negoziati per accedere all’Unione Europea. Ed adesso, dopo il
recente voto al Parlamento europeo, anche questa opzione è
definitivamente saltata. Erdogan, che si appresta a modificare la
Costituzione in senso presidenziale per formalizzare una
situazione de facto (esautorare un premier di facciata, il
presidente capo del governo), ha accusato l'Europa addirittura di
sponsorizzare il terrorismo.
La Turchia, sempre più islamizzata sotto la guida dell’AKP,
intende ora aderire, quasi come reazione, all'Organizzazione di
Shanghai per la Cooperazione, un organismo a guida cinese e russa.
A parte che riguarda una parte di mondo che geograficamente ha
poco o niente da spartire con la Turchia, l'iniziativa sottolinea
ancora l'incongruità della politica estera di Erdogan.
La penetrazione in Africa
Le contraddizioni della politica estera turca vi sono anche in
Africa. Per coltivare le proprie ambizioni, già nel 2008 la
Turchia aveva fatto sottoscrivere dall'Unione africana una
dichiarazione di partneriato strategico. Rapporti privilegiati e
stretti con Somalia, Sudafrica, Etiopia, Gabon, Ghana. Una
bizzarria della politica estera turca sono proprio gli stretti
legami instaurati con la Somalia, un non Paese, dove ha pure
installato una propria ambasciata ed a cui fornisce assistenza
economica, collegamenti aerei, frequenti gite in hotel del governo
e del presidente ad Istanbul.
Non è chiaro quale possa essere lo scopo ultimo di questo
proliferare di strutture diplomatiche e di iniziative commerciali
in tutto il continente. Obiettivi geo-strategici? Rendere più
visibile il ruolo turco in un continente dove c'è sicuramente
spazio per sentirsi importanti? Megalomania di un presidente
autoritario? Proselitismo religioso a fondo islamico?
La politica a connotazione islamica
La Turchia ha, nel suo complesso, una politica estera condizionata
dal fattore religioso poiché il partito di Erdogan, l'AKP, è
vicino al mondo dei Fratelli Musulmani. Appoggiava il Presidente
Mohamed Morsi in Egitto salvo poi, una volta che questo è stato
defenestrato, rompere i rapporti con il Cairo. In Tunisia
l’emarginazione politica di Rachid Ghannouchi ha prodotto un
raffreddamento dei rapporti bilaterali. In tutte queste
circostanze non ha quindi dimostrato quella duttilità che in
politica estera – e in Medio Oriente in particolare – è sempre
necessaria per esorcizzare situazioni sfavorevoli.
Ecco allora che la Turchia ha deciso di stringere forte legami con
l’Arabia Saudita, Paese peraltro mai indulgente verso l’Islam
politico della Fratellanza musulmana. Erdogan si è associato a
quella “Nato islamica” che, a trazione saudita, sta diventando uno
strumento della lotta tra sunniti e sciiti. La Turchia rischia
quindi di trovarsi coinvolta sul fronte sunnita nella lotta tra le
maggiori fazioni dell’Islam, dimenticandosi di avere sul proprio
territorio una rilevante comunità di alevi e sciiti. Alevi
peraltro trattati alla stregua di infedeli dal Direttorato per gli
Affari religiosi turco.
Da qui si spiega l’approccio islamico-dipendente di scelte a
favore di Hamas a Gaza o delle milizie islamiche a Tripoli, anche
se quest’ultimo non è riconosciuto dalla comunità internazionale.
Ma questo dettaglio per la Turchia autoreferenziale è irrilevante.
I rapporti con il terrorismo islamico
Nel caso dei rapporti con l'ISIS emerge chiaro quanto sia
rischiosa l’ambiguità. E’ questa la lezione principale per le
autorità turche. Ne fanno fede la serie di attentati di matrice
islamica che hanno recentemente colpito il Paese. La Turchia ha a
lungo giocato con il fuoco, concedendo ai miliziani ed ai
volontari del califfato libero transito sul proprio territorio. Ha
permesso che il traffico di petrolio proveniente dalla Siria e
dall’Iraq potesse svilupparsi impunemente alimentando le casse
dell’ISIS, lungo un tragitto percorso da decine di migliaia di
autobotti in quella che oramai è stata ribattezzata “l’autostrada
della jihad”. Ha dato sostegno ed armamenti a gruppi di oppositori
armati contro il regime di Assad, circostanza documentata da
filmati e da inchieste giornalistiche. Ed ha consentito che ad
l’ISIS colpisse i filo-curdi prima a Suruc e poi ad Ankara, in
quello che è ancora il più grave attentato nella storia della
Turchia.
Forse Recep Tayyip Erdogan credeva di essersi guadagnato
l’impunità dal terrorismo in casa. Pensava che un atteggiamento di
collusione indiretta potesse bastare ad accattivarsi la
compiacenza del mondo jihadista. Convenienze e giochi sporchi non
hanno pagato. Il terrorismo di Abu Bakr al Baghdadi è contro tutti
e contro tutto, non fa distinzione tra apostati e infedeli, non ha
regole o limiti, non ci sono spazi per posizioni intermedie. O sei
amico o sei nemico. E se eri amico e adesso sei nemico c'è la
rivalsa verso il tradimento.
Tutte queste contraddizioni sono emerse in superficie quando, per
una serie di convenienze politiche e di pressioni internazionali,
Erdogan è stato costretto a passare da una condiscendenza omertosa
verso l’ISIS ad un atteggiamento più rigido.
L’involuzione interna
La politica estera turca risente adesso del combinato disposto tra
un’involuzione democratica interna ed una frammentaria proiezione
in politica estera. Non si tratta più dell'indirizzo programmatico
di un governo democratico, ma delle convulsioni di un regime
autoritario. Gli umori del capo che prevalgono su scelte e
convenienze. Alla fine ne emerge una politica estera fatta di
spregiudicatezza, magari senza la ponderatezza e valutazione di
ogni conseguenza. Non è chiaro il filo conduttore di tutte queste
iniziative. Sembra più una politica dell’improvvisazione che
cambia nel susseguirsi degli eventi, da cui subisce un
condizionamento.
I rapporti della Turchia con il Medio Oriente ed il Nord Africa
sono stati sempre, soprattutto nel passato, psicologicamente
difficili in quanto Ankara, per malcelato nazionalismo, mostrava
ritrosia ad dialogare alla pari con Paesi che erano stati per
secoli sotto il dominio dell’impero ottomano.
Superato questo ostacolo psicologico, era auspicabile che
dall’alto del proprio prestigio e forza si desse seguito ad una
politica estera di alto livello, al di sopra delle diatribe e
lotte intestine di cui è pieno il Medio Oriente. Ma ciò non è
avvenuto.