L’APPROCCIO AMERICANO SULLA QUESTIONE PALESTINESE

La
questione palestinese è uno dei tanti problemi da cui è afflitto
il Medio Oriente. E’ anche, in ordine cronologico, uno dei più
vecchi ed è forse per questo uno dei più difficili da risolvere.
E’ infatti un problema incancrenito da varie guerre, terrorismo,
negoziati infiniti, patti non rispettati, sommosse popolari. Una
lunga striscia di sangue. Ed è fatale che più passa il tempo e
sempre più difficile diventa trovare un’intesa tra palestinesi e
israeliani.
La fotografia attuale è fatta da:
-
un Israele che non intende concedere nulla, continua l’espansione
dei suoi insediamenti espropriando terre ai palestinesi nonostante
le diffide dell’ONU e con l’appoggio – a fronte di ogni violazione
– del veto americano nel Consiglio di Sicurezza. E’ un Israele
militarmente forte, guidato da un governo di destra estrema,
dedicato a mantenere un proprio ruolo dominante nel Medio Oriente
con l’unica preoccupazione incentrata sulla situazione siriana e
sulla correlata presenza iraniana. Del problema palestinese si
occupa solo per gli aspetti di sicurezza per i pericoli
provenienti da Gaza.
- su fronte opposto c’è una comunità palestinese divisa tra
un’Autorità Nazionale Palestinese a Ramallah guidata da un
Presidente debole come Abu Mazen e quindi con scarso potere
negoziale ed un fronte radicale rappresentato da Hamas a Gaza che
alimenta la tensione con Israele con morti e feriti in
continuazione durante le manifestazioni ai confini.
Gli appoggi mancati
La situazione è peggiorata per i palestinesi perché anche i Paesi
arabi, a lungo sostenitori (o meglio dire “strumentalizzatori”)
della causa palestinese, sono oggi più vicini a Israele che alla
Palestina.
Più che i diritti dei palestinesi, li preoccupa il pericolo
proveniente dall’allargamento delle zone di influenza iraniane in
Iraq, Siria e Libano. Quindi non hanno interesse a cavalcare la
questione palestinese e ad entrare in collisione con Tel Aviv. La
forza militare di Israele è l’unica in grado di potersi
confrontare con successo con Teheran. Un matrimonio di interesse
dove oramai i contenziosi del passato non trovano più spazio.
Abbandonati da tutti, ai palestinesi sono rimaste sul tavolo solo
due opzioni: quella della lotta ad oltranza come intende fare
Hamas o quella di accettare una qualsivoglia soluzione venga loro
imposta su un negoziato dove non esercitano alcun potere
contrattuale. Una scelta tra disperazione e rassegnazione.

Donald Trump
Le
spregiudicatezza americana
In questo quadro peraltro molto negativo per gli interessi
palestinesi è adesso piombato con la spregiudicatezza e la scarsa
diplomazia che lo contraddistingue anche il Presidente americano
Donald Trump. Ha designato suo genero, Jared Kushner, un ebreo
ortodosso, come supervisore e consigliere sul problema palestinese
con al suo fianco un capo negoziatore, Jason Greenblatt, sempre
ebreo; ha spostato l’ambasciata americana da Tel Aviv a
Gerusalemme in deroga alle decisioni internazionali; ha tagliato i
fondi ai palestinesi ed all’organizzazione ONU che si dedica alla
loro assistenza, la UNRWA.
Dal ruolo di mediatore che aveva sempre distinto la posizione
americana sulla questione palestinese, adesso gli Stati Uniti
hanno deciso di stare al fianco di Israele. Così facendo hanno
perso il proprio ruolo di negoziatore super partes, accentuando
ancora di più i fragili equilibri negoziali e mettendo con le
spalle al muro i palestinesi. Più che un intervento negoziale, la
posizione americana assomiglia molto ad un ricatto.
Il presunto piano americano
Da un po' di tempo Trump millanta la preparazione di un piano di
pace che dovrebbe vedere la luce entro la fine dell’anno. Un piano
enfaticamente denominato “piano del secolo” dove, secondo fonti
giornalistiche israeliane, dovrebbero essere ripartiti oneri ed
onori. Un piano negoziato con le autorità di Tel Aviv e con
contatti con Ramallah ma che sembra, per quel che circola, più
indirizzato a migliorare la coesistenza tra ebrei e palestinesi
che non a risolvere i vari contenziosi territoriali. La questione
di Gerusalemme (oramai fuori da ogni negoziato dal momento che gli
USA la considerano capitale di Israele), il ritorno dei rifugiati,
lo smantellamento degli insediamenti ebraici in Cisgiordania, il
rispetto dei confini di uno Stato palestinese sulla base di quello
del 1967, un collegamento tra Cisgiordania e Gaza e quant’altro è
stato sinora oggetto di confronto sono stati messi da parte.
L’approccio di Trump è un po', come ricorrente nel personaggio,
l’approccio pragmatico di un uomo di affari che ha dato sempre più
importanza al peso dei soldi che non al significato di principi e
valori di cui la causa palestinese è in buona parte latrice. Soldi
che in buona parte dovrebbero essere forniti dai Paesi del Golfo.
Offrire come capitale palestinese la cittadina di Qalqilya (una
soluzione che sembra essere prevista dal piano) e costringere i
palestinesi a rinunciare a Gerusalemme può apparire come una
transazione fattibile se non avesse un suo impatto che travalica
la questione territoriale, ma che coinvolge anche aspetti
religiosi.
Alla fine, quando l’accordo sarà reso pubblico, l’unica opzione
che sarà riservata ai palestinesi sarà se accettarlo o
respingerlo. Ma Trump, viste le premesse con cui cerca di
ricattare la parte palestinese, non è poi tanto interessato al
fatto che i palestinesi accettino o meno il piano, ma solo al
fatto che questo trovi il tacito consenso da parte del mondo
arabo. Se i Paesi arabi sono d’accordo con il piano americano si
favorisce comunque un avvicinamento fra questi Paesi ed Israele,
sgomberando finalmente il campo da un contenzioso storico che
aveva inficiato nel tempo i rapporti di Tel Aviv con gli altri
protagonisti in Medio Oriente.
Nella pratica, il piano israelo-palestinese che il presidente
americano intende proporre è solo un falso scopo per raggiungere
altri obiettivi. E la risposta che daranno i palestinesi sarà del
tutto irrilevante.
Israele è il primo partner strategico americano in Medio Oriente
ed oggi lo è ancora di più dopo che la Russia, entrando
militarmente nelle vicende siriane, ha aumentato il suo prestigio
nella regione.
Ed è un po' per ribadire e sottolineare questa scelta di campo che
Trump ha deciso lo spostamento dell’ambasciata a Gerusalemme,
nonché un rafforzamento dei rapporti militari con la controparte.
Manifestazione
di Hamas a Betlemme
La
questione di Hamas
Gli Stati Uniti giocano molto anche sulla questione di Gaza.
Hamas, l’unico altro rappresentante a pieno titolo della comunità
palestinese, dal 2006, dopo aver vinto le elezioni, controlla la
Striscia. Hamas è oggi in forte contrasto con l’Autorità Nazionale
Palestinese e così facendo indebolisce ancora più la posizione
negoziale di Mahmoud Abbas. Tutto a vantaggio di chi vuole
sminuire il ruolo dell’ANP.
Su questa diatriba gioca molto anche Israele che preferisce
trovare un accordo con Hamas piuttosto che con Ramallah viste le
implicazioni di sicurezza ai suoi confini. Inoltre, ed è un dato
noto, dietro ad Hamas c’è il sostegno iraniano. Se Abu Mazen cerca
un negoziato su questioni di principio e di spessore
internazionale, Hamas si confronta su problemi più prosaici:
sanzioni che impediscono l’arrivo di beni essenziali,
disoccupazione, strangolamento economico, il blocco navale, la
mancanza di acqua/elettricità, carenza di igiene e di ospedali.
Quasi due milioni di persone che vivono in condizioni disperate.
A tutto questo adesso si aggiunge il blocco dei fondi provenienti
da Ramallah per pagare i dipendenti pubblici. L’Autorità Nazionale
Palestinese vorrebbe costringere Hamas a più miti consigli, ma
l’effetto che rischia è quello di forzare Hamas ad un accordo con
Israele a scapito del proprio ruolo negoziale. Che poi Hamas sia
sulla lista dei movimenti terroristici in molti Paesi del mondo
ha, in questo contesto, scarsa importanza.
Le sinergie sul piano americano
Gli Stati Uniti sanno che non basta avere Israele al proprio
fianco per risolvere la questione palestinese e hanno cooptato nel
negoziato anche i Paesi vicini. Su Gaza ha molto peso l’Egitto che
coopera con Israele nello strangolamento economico di Gaza.
Un’iniziativa che ha anche motivazioni pratiche: le autorità di
sicurezza egiziane hanno il timore che il radicalismo palestinese
si possa saldare con i terroristi dell’ISIS che pullulano nel
Sinai.
Ma ci sono anche ragioni storiche: l’Egitto ha governato Gaza dal
1948 fino alla sconfitta militare del 1967, quando la Striscia fu
occupata da Israele e poi concessa ai palestinesi con l’accordo di
Oslo del 1994. E’ quindi un territorio dove alcune aspirazioni
dell’irredentismo egiziano non si sono mai completamente sopite.
La Cisgiordania invece faceva parte della Transgiordania,
territorio occupato dal regno Hashemita dopo il collasso
dell’impero ottomano. Dopo la guerra del 1967 fu occupata da
Israele. La Giordania ha sempre mantenuto legami con la
Cisgiordania dando sostegno economico alle strutture islamiche
nell’area. Altro dettaglio non trascurabile: la popolazione
giordana – anche se volutamente non esistono statistiche al
riguardo – è quasi per la metà di origine palestinese.
Uno degli aspetti che il piano americano sembrerebbe contemplare è
che lo Stato palestinese creato in Cisgiordania si confederi con
la Giordania, mentre la Striscia di Gaza finisca una tutela
egiziana. E addio Palestina indipendente.
La domanda principale, un po' quella che tutti gli osservatori
internazionali si pongono, è se questo approccio americano possa
avere successo. Difficile credere che una pace imposta, dove uno
dei due contendenti decide e l’altro è chiamato o costretto ad
accettare, sia un buon viatico per una pace duratura. Vale per
l’approccio unilaterale americano, vale per la politica del fatto
compiuto con cui Israele ha nel tempo eroso ogni spazio o abusato
ogni argomento negoziale.
Sperare quindi che un accordo con cui un giorno gli Stati Uniti si
presenteranno davanti all’Autorità Nazionale Palestinese mettendo
i palestinesi davanti al fatto compiuto, imponendogli di
accettarlo ovvero, in alternativa, sanzionandoli più di quanto
sinora abbia fatta la storia nei loro riguardi, possa essere la
panacea di 60 anni di contenzioso.
Come i cittadini arabi di Israele sono diventati recentemente
cittadini di seconda classe dopo l’approvazione di una legge che
definisce Israele stato ebraico, lo stesso rischiano adesso i
palestinesi nel finire sotto tutela di Stati stranieri.