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YEMEN, UNA GUERRA DIMENTICATA


yemen war


Oltre diecimila morti, 32.000 feriti, circa tre milioni di sfollati ed una sequela impressionante di violazioni sistematiche dei diritti dell'uomo. Lo Yemen è oggi un Paese smembrato in tre parti e suddiviso fra zone sotto il controllo dei ribelli Houthi con il sostegno dell'ex presidente Ali Abdullah Saleh, del presidente "legittimo" Abd Rabbuh Mansur Hadi e di AQAP, ovvero Al Qaeda nella penisola arabica. L'unico elemento in comune è la sofferenza di una popolazione civile in balia degli eventi e degli abusi delle parti belligeranti.

I sauditi bombardano obiettivi civili (campi profughi e scuole comprese) e usano bombe a grappolo (bandite dalle convenzioni internazionali) in modo indiscriminato. Viene anche utilizzata una pratica perversa: prima si bombarda, poi si aspetta l'arrivo dei soccorsi e infine si bombarda di nuovo. I ribelli Houthi non sono da meno: usano civili come scudi umani e reclutano forzatamente dei bambini soldato (si stima rappresentino circa il 30% dei combattenti sul campo). Altrettanto fanno le truppe lealiste del presidente Hadi.

La popolazione è senza più una casa, costretta dai combattimenti a scappare da una zona all'altra, non ha sostegno sanitario (gli ospedali sono diventati un obiettivo privilegiato dei bombardamenti). Oltre 14 milioni di persone non hanno accesso all'acqua potabile e rischiano di morire di fame per colpa dell'embargo e perché l'aviazione saudita ha sistematicamente distrutto tutte le infrastrutture stradali. I civili sono sostanzialmente in trappola: da una parte c'è il deserto saudita e dall'altra il blocco navale internazionale.

Nel frattempo il Paese più povero in Medio Oriente è praticamente collassato: quasi la metà delle aziende chiuse, il Pil calato dall'inizio della guerra di circa il 35/40%. Tuttavia nessuno si preoccupa più di tanto di tutta questa catastrofe umanitaria in quanto l'attenzione dell'opinione pubblica mondiale è concentrata su altre crisi nella regione mediorientale: la guerra civile in Siria, la lotta contro l'ISIS, il problema curdo, la competizione egemonica tra Russia e USA.

I responsabili

La guerra in Yemen ha diversi responsabili. Il primo, il principale, è l'Arabia Saudita che ha volutamente dato inizio a questa guerra al fine di contrastare l'influenza iraniana, schieratasi a sostegno della ribellione sciita degli Houthi. Ma alla logica egemonica se ne assomma un'altra che riguarda le questioni interne saudite. Dopo l'avvento al trono di re Salman, la politica estera saudita ha preso una china interventista sotto la spinta del figlio del sovrano, Mohammed, che aspira ad accreditarsi come futuro principe ereditario. Tuttavia, dal marzo 2015, quando l'Arabia Saudita si è imbarcata in questa avventura, il successo militare non tanto auspicato non è arrivato. Riad è solo riuscita ad alimentare una guerra civile dopo che, un mese prima, i ribelli Houthi e il presidente Hadi avevano sottoscritto un accordo di pace che prevedeva il ritiro parziale dei ribelli dalla capitale Sana’a e la formazione di un governo di unità nazionale.

Ad assecondare e sostenere le velleità militari saudite vi sono Stati Uniti, Regno Unito e Francia. Nei centri operativi sauditi dove vengono decisi gli obiettivi da colpire stazionano militari americani ed inglesi. Per i francesi, invece, l'interesse primario è il business degli armamenti, venduti a piene mani ai sauditi ed alle forze armate degli Emirati Arabi Uniti. Il sostegno americano è il prezzo da pagare alla dirigenza saudita sentitasi "tradita" dall'accordo sul nucleare con l'Iran.

La presenza anglo-americana non ha impedito la deriva della guerra. Ci si è girati dall'altra parte di fronte alle accuse di violazioni sistematiche dei diritti umani denunciate ripetutamente da varie organizzazioni non governative internazionali. Anzi, il neo ministro degli esteri inglese Boris Johnson ha fatto meglio del silenzio americano ed ha negato che queste siano mai avvenute. La scarsa dimestichezza dei sauditi con il concetto di diritti umani ha fatto il resto.


john kerry
John Kerry


Negoziati senza soluzione

Ci sono stati sinora vari tentativi di negoziati internazionali per trovare un accordo per mettere fine alla guerra. L'ultimo round di colloqui in Kuwait è fallito ad agosto dopo tre mesi di discussioni inutili. Subito dopo sono ripresi i bombardamenti. Durante l'ultima visita del Segretario di Stato USA John Kerry a Riad è giunta una nuova proposta: cessazione delle ostilità, ritiro gli Houthi dalla capitale Sana'a conquistata nel settembre del 2014 e la contestuale consegna di tutti gli armamenti pesanti. Come dire ai ribelli: arrendetevi. Più che una proposta, una boutade.

Con l’apporto del deposto presidente Saleh, i ribelli Houthi hanno costituito un "Consiglio supremo politico" per il governo del Paese; dall'altra parte, il presidente "legittimo" Hadi, il cui governo è in esilio, millanta di poter gestire il Paese grazie ai proventi petroliferi. Nessuna delle due parti sembra intenzionata ad arrivare ad un compromesso. I ribelli cercano la legittimazione attraverso il voto di un Parlamento il cui mandato è scaduto nel 2009, mentre Hadi cerca di esercitare il suo potere grazie al sostegno militare saudita. I terroristi di AQAP, nel frattempo, approfittano della guerra civile per rafforzarsi e per controllare alcune aree del Paese, sopratutto l'Hadhramaut, l'area confinaria con l'Oman.

La guerra in Yemen sta avendo un effetto dirompente sulle casse saudite. In deficit crescente ed il crollo dei prezzi petroliferi ha già portato ad una decurtazione del 20% dei salari dei dipendenti pubblici. Sul fronte opposto, gli yemeniti sono attrezzati a vivere in povertà e quindi anche a sopravvivere con economie di scambio e sussistenza, con il mercato nero e con quel poco che può essere commercializzato. Gli Houthi, inoltre, con quel poco di tasse che riescono ad imporre si finanziano la guerra. Anche perché l'export di petrolio, che costituiva circa la metà degli introiti statali, è adesso bloccato. Resta aperta la questione delle ricostruzione delle infrastrutture andate distrutte. Ma questa sarà affrontata in tempi di pace.

Del resto, questa guerra senza senso al momento non lascia intravedere alcuna soluzione politica. Le operazioni militari sono in stallo. L'esercito saudita ed i suoi oltre 100.000 uomini godono del supporto logistico fornito dagli americani e sono affiancati da truppe provenienti da altri Paesi: un migliaio di egiziani, 800/900 sudanesi, mille dal Qatar, una brigata fornita dagli Emirati Arabi Uniti che hanno assoldato anche quasi 2.000 mercenari colombiani, un battaglione d'artiglieria kuwaitiana, 300 dal Bahrein, 2.100 dal Senegal. Nel conteggio non sono incluse le truppe lealiste di Hadi. Ai soldati sul terreno bisogna sommare una forza aerea di circa 100 aerei sauditi a cui vanno aggiunti i velivoli di altre nazioni (Giordania, Egitto, UAE, Bahrein, Marocco, Sudan, Kuwait, Qatar). Questo massiccio spiegamento di forze non è sinora riuscito a sconfiggere circa 100.000 miliziani Houthi affiancati dalle truppe rimaste fedeli all'ex presidente Saleh. Anzi, adesso la guerra è tracimata in territorio saudita: ci sono state sporadiche incursioni delle milizie di Ansar Allah, ci sono stati ripetuti lanci di missili balistici.

E’ noto che dietro agli Houthi vi è il supporto iraniano, nonché la presenza di istruttori militari provenienti dagli Hezbollah. Recentemente una delegazione dei ribelli si è recata a Baghdad per trovare sostegno – ufficialmente umanitario, ma soprattutto politico – nell'ambito di quella solidarietà dei Paesi a maggioranza sciita. Ed è in sostanza un’iniziativa che rinfocola lo scontro settario fra sunniti e sciiti oramai prevalente in Medio Oriente. D’altronde è su questi presupposti che è in realtà iniziata la guerra in Yemen.

Gli Stati Uniti stanno comunque tentando, con l'aiuto dell'ONU, di favorire la creazione di un governo di unità nazionale. L'idea è teoricamente accettata sia dal presidente "legittimo" che dai ribelli. Tuttavia è sui dettagli che manca l'accordo. Non è sicuramente nelle intenzioni degli Houthi evacuare la capitale o consegnare le armi senza specifiche garanzie. Un eventuale accordo è possibile solo nell'ambito di un sistema federativo che assicuri una certa autonomia territoriale agli Houthi, a prescindere da chi potrebbe comandare a Sana’a. Il concetto di creazione di regione è alla base del negoziato nazionale intrapreso prima nel febbraio del 2014, ovvero prima che gli Houthi, nel settembre successivo, conquistassero la capitale. L'idea piaceva ai ribelli perché gli consentiva di mantenere il controllo delle aree nel nord del Paese – ed in pratica è quello che vogliono anche adesso – ed era gradita anche ai movimenti secessionisti del sud.


Abd Rabbuh Mansur Hadi
Abd Rabbuh Mansur Hadi


Una frattura insanabile

Questa sembra l’unica via d’uscita in uno Yemen dove, dopo la riunificazione del 1990, le ferite tra nord e sud non si sono ancora rimarginate e dove una società tribale ha sempre reso ininfluente l’esercizio accentrato dei poteri dello Stato. Nel contesto yemenita parlare poi di autorità "legittima" e "non legittima" non ha alcun significato pratico.

Un personaggio come Ali Abdullah Saleh ha governato il Nord Yemen fin dal 1978 e poi il Paese unificato fino al 2012, salvo poi essere costretto a cedere il potere al suo vice Abd Rabbuh Mansur Hadi senza alcuna forma di legittimazione politica. E non ha importanza che Saleh abbia per anni, dal 2004 al 2011, combattuto gli Houthi e che lo abbia fatto, a quel tempo, con il sostegno militare saudita. Del resto, solo la Risoluzione ONU 2216 dell'aprile 2015, proprio perché sponsorizzata dai paesi del Gulf Cooperation Council, con l'Arabia Saudita in testa ed il sostegno americano, ha indicato in Hadi il "legittimo" presidente in un Paese dove non è mai comparsa la democrazia. Basare quindi il futuro dello Yemen ed ogni ulteriore negoziato su questi presupposti politici non porterebbe da nessuna parte.

L'ostacolo è soprattutto rappresentato dall'Arabia Saudita, che ritiene inaccettabile un compromesso tra le parti yemenite. La concessione di un’autonomia territoriale agli Houthi inciderebbe inoltre sulla sicurezza dei propri confini meridionali. E poi c'è un problema di immagine: la guerra in Yemen ha messo in gioco la credibilità militare del reame e dello stesso figlio del Re, Mohammed bin Salman. Soluzioni al ribasso equivarrebbero ad una sconfitta per entrambi. Ma vi è anche un impedimento sul fronte degli Houthi. Il conflitto ha consentito ai ribelli il controllo della capitale, molto più di quello che pretendessero all'inizio della ribellione. Non controllano solo le loro terre, ma circa un terzo del Paese. Ed hanno adesso anche la possibilità di arricchirsi gestendo le casse dello Stato.

Una soluzione dovrà essere trovata perché, nel lungo termine, questa guerra non conviene a nessuno. Non conviene agli Stati Uniti, che vedono disperdere energie saudite in una guerra inutile. Non conviene all’Arabia Saudita per il costo finanziario, circa 6 miliardi di dollari al mese. Non conviene più ai ribelli che si ritrovano a controllare un territorio troppo grande. Non conviene ad una popolazione civile stremata in quella che l'Alto Commissariato per i Rifugiati dell’ONU ha definito una "voragine umanitaria".

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